DALLE PERIFERIE DELLA SOLITUDINE VERSO LA PROGETTAZIONE PARTECIPATA

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Emanuela Bavazzano Psicologa. Psicoterapeuta.

Camilla sta seduta sotto la lavagna. Ha gli occhi rossi di pianto. Giorgia prova a sistemarle le ciocche di capelli bagnati dietro le orecchie. Camilla la stringe forte e non smette di piangere. Emana calore, elettricità e disperazione. Non la sentiva così da quando, piccola, si sbucciò le ginocchia perché faceva le capriole e le giravolte come i ballerini di bughi bughi con suo babbo. Non smetteva di piangere e Giorgia l’abbracciava e voleva guardarle le ginocchia ma lei non si staccava da quella presa. La ferita veniva dopo. Voleva prima essere consolata tutta, per intero.” (S. Baldanzi, 2022)

“Tutta, per intero”: ecco il senso con il quale questo scritto apre alla ricerca di una Via per la “Cura”: insegnare ad essere persone intere dentro i confini dell’esserci ed imparare ad essere persone intere attraverso le relazioni (primarie) che contribuiscono alla creazione del proprio spazio intrapsichico: sono questi rispettivamente il primo compito evolutivo ed il primo apprendimento necessario, che all’interno delle differenti configurazioni psico-socio-ambientali vengono intrecciandosi, contribuendo alla co-costruzione di traiettorie di sviluppo di vita sufficientemente sane, che presuppongono, per essere tali, momenti di relazionalità e passaggi dentro l’interiorità, progressivamente divenendo capaci di starci senza averne paura, perché confidenti in sé..

Entrare nelle periferie della solitudine di individui che soffrono implica avvicinarsi con delicatezza a tutti i vissuti che abitano dentro quelle soggettività, che sperimentano le diverse sfumature di universi paralleli, che contemplano normalità e patologia, laddove questi sottintendono pensieri ed emozioni coerenti con le esperienze (nella circostanza della normalità) ed invero incoerenza e incostanza di forma e di sostanza in assenza di corrispondenza con le fasi evolutive di vita; sintetizzando: quando si sperimenti un senso di dispiacere fino al dolore emotivo-affettivo profondo, a seguito di distacchi (dovuti a morte – perdita), se questo si realizza in un tempo congruo, in una forma che non minaccia l’integrità della persona, è possibile che vi sia un profilo di normalità; quando invero si viva un blocco psichico dato da una esperienza traumatica paralizzante, piuttosto che da una crisi bloccata in un tempo che sembra spingersi verso l’infinito, in cluster sintomatologici, potrebbe intravedersi una struttura di patologia (che per essere definita tale comunque è necessario venga letta in termini diacronici e con ulteriori segni – sintomi – determinanti l’insieme).

È infatti importante distinguere l’insieme delle rappresentazioni di marca nevrotica (esemplificando, fase di deflessione del tono dell’umore con episodi di apatia alternati a tristezza profonda e scoramento) dalla possibile comparsa di forme psicotiche (quali esperienze di de-realizzazione con ego-sintonia ovverosia momenti in cui le allucinazioni o i deliri sono interpretati quali eventi reali senza critica), che pur sempre potrebbero essere transitorie e protettive ovvero esitare in una psicopatologia severa e strutturata, sempre più distaccata dalla causa originaria in esordio (sintomi non giustificati o sproporzionati in pertinenza ed intensità emotivo-affettiva).

Il distacco dalla realtà, infatti, può insorgere come attività difensiva, come protezione, ma questo avviene in un secondo momento, eventualmente anche molto ravvicinato. Il primo momento è invece un particolare sensoriale sperimentato come un proiettile. Perciò lo psicotico vive i rapporti umani come un’invadenza, una penetrazione, un’invasione, cui segue una confusione o addirittura un senso di sperdimento e di annullamento.” (A. Correale, 2021).

Tutto in realtà si suppone avere origine proprio dalla perdita dei rapporti (originari), dalla esperienza di separarsi e differenziarsi; eppure questi concetti, complessi nella loro multidimensionalità, ancorché nella diversa lettura che se ne può dare entrando in ambiti di studio (psicodinamico e non) peculiari e specifici, sembrano essere caratterizzati da una forte ambiguità (confusa a descriversi e confusiva per chi la sperimenti), che solo standoci dentro potrebbe divenire ambivalenza; attraversare le dicotomie che connotano le “doppie valenze” può essere letto pertanto quale compito evolutivo necessario, per giungere a capire quello che accada nella Psiche proprio attraverso l’esperienza della solitudine (sofferta o desiderata) che accompagna i distacchi (relazionali), specie quando il mondo venga vissuto come un “contenitore insicuro” ed al contempo la coppia (genitoriale prima, coniugale successivamente, relazionale – amicale trasversalmente) – “seme della famiglia e quindi dell’inclusione sociale” – sia vissuta come “fragile” e così il lavoro spesso oggi “precario” (L. Zoja, 2015). E se “amare e lavorare” erano per Freud due compiti evolutivi, dentro cui leggere l’implicito senso di stabilità, la dinamica contemporanea (senza dare di questa una valenza sbilanciata sulla negatività) richiede un movimento continuo tra posizioni diverse, tanto che si potrebbe ritenere essere proprio l’equilibrio dentro l’instabilità la verifica della normalità.

Da un punto di vista filosofico non esistono individui separati l’uno rispetto all’altro: questa illusione può essere ridotta a “malattia del pensiero”, che produce esperienze non compatibili con il vivente, perché l’interconnessione è il presupposto basilare dell’esserci (M. Benasayag. In A. Pigliaru, 2022). Da un punto di vista psicologico quindi potremmo considerare la separazione il fattore di rischio verso l’angoscia (di separazione), considerata quale “problema di relazione con la realtà esterna”, nella dimensione fantasmatica a valenza complessa, poiché “separarsi” da un lato si viene iscrivendo in una relazione dentro la quale “l’altra persona è vissuta come libera di andare e venire, libera di scegliere le sue relazioni o di rinunciarvi” nella dimensione della relazione d’oggetto; dall’altro lato, quando si configuri lo scenario dell’angoscia (di separazione), si viene sottintendendo che il soggetto sperimenti una rottura intesa quale “perdita di una parte dello stesso Io” fino al rischio dell’angoscia (psicotica) di frammentazione (J.M. Quinodoz, 2009).

Che cosa quindi si annida nei grovigli delle esperienze molteplici della solitudine? Oltrepassando letture filosofiche e psicologiche, restiamo dentro le dinamiche che abitano gli esseri umani che soffrono perché, sperimentando vissuti di ansia – depressione – angoscia (in un tentativo di lettura dentro un continuum lieve – medio – grave della esperienza psicopatologica della vita quotidiana), si chiedono innanzitutto quanto siano sani o malati, normali o “folli”, consecutivamente giungendo alla equivalenza semantica (dicotomica) che presuppone da un lato la restituzione alla vita in sé nella sua responsabilità di essere fattore di cura, dall’altro la necessità di cercare (f)attori di cura dentro i cosiddetti “curanti” che debbano assumersi le responsabilità delle terapie.

La richiesta terapeutica interviene sempre in un momento di crisi, qualunque sia la sua provenienza (dal soggetto, dalla famiglia, dal suo ambiente ecc.). Cioè quando il sistema interno d’equilibrio ed interno-esterno (intimo e inter-relazionale) si rompe nella sua omeostasi. La domanda terapeutica proviene sia direttamente dal soggetto, sia indirettamente attraverso la comparsa o l’accentuazione di sintomi, sia perché l’ambiente, di fronte alla rottura di un equilibrio, può rivolgere una domanda d’aiuto e può entrare in crisi”. (PC. Racamier, S. Taccani, 2010)

Ci si chiede pertanto come leggere i dati, di cui tanto si parla, relativi all’escalation di “emergenze” e se questi siano correttamente interpretati nella loro valenza semantica, se si scorgano le effettive co-determinanti ed invero anche si formulino corrette diagnosi (dalle quali, come noto, discendono, o dovrebbero conseguire, le traiettorie di cura dentro i percorsi di sanità pubblica prevalentemente). “I dati sono preoccupanti (…) Dalla fine della pandemia persistono problemi di isolamento. Mentre le prospettive di crescita e di un futuro sicuro rimangono difficili da vedere. Poi ci sono le situazioni più estreme: chi chiede sostegno dopo episodi traumatici.” (M. Armellini. In A. Vivaldi, 2023). Ecco che già attraverso queste affermazioni potremmo aprire le porte su due livelli di riflessione: preoccupanti sono gli spazi ed i tempi dell’isolamento soprattutto dei giovani e delle giovani oppure preoccupanti e preoccupate sono tutte le persone che vivano, subendole, prospettive di incertezza co-determinate da variabili indipendenti (o forse dipendenti dalla situazione socio-politica)? Parallelamente, senza retorica, dopo “episodi traumatici”, che, è bene ricordare, significano passaggi di crisi non fatti, impedito accesso alla valenza evolutiva – trasformativa della sofferenza, dobbiamo leggere con timore le domande di aiuto oppure accogliere i segnali derivanti da un ritorno ad una forma di “lotta collettiva” che passa attraverso i sintomi di una generazione che viene da noi bussando alle porte di un’altra generazione che spesso finisce per dimenticare la propria storia (esemplificando, c’è stato il tempo dell’eroina, il tempo della ricerca della fuga dal reale, questo spesso è stato vissuto in termini gruppali – oggi forse l’uso stesso della sostanza – una sostanza – viene attraversato in forme più individuali – solitarie, eppure la necessità della lotta che sappia rivendicare i propri diritti, compreso il diritto alla Cura, è com-prensibile; forse dovremmo chiederci se e come stiamo fornendo i giusti strumenti per una ri-soluzione che ri-orienti e al contempo rispetti quelle che sono le domande che si aggrovigliano dentro e nei meccanismi di partecipazione.

Ed allora un primo importante interrogativo: chi definisce il confine tra normalità – naturalezza e “follia” – innaturalezza; quindi un secondo interrogativo, che implica le scelte (psico-terapeutiche): chi sceglie se sia da favorire l’auto-cura del processo della vita in se stessa (senza letture idealizzanti la “natura” a dispetto della cultura e della scienza, degli uomini e delle donne che si prendono cura) piuttosto che la cura etero-condotta con la necessità della “presa in carico”, termine quest’ultimo che orienta verso relazioni di potenziale subalternità a chi detiene saperi e conseguentemente poteri connessi agli atti di cura (potere di definire di che cosa un individuo abbia necessità, anche potere di orientare il percorso di guarigione e potere di fare consistere ed insegnare la guarigione nella “restitutio ad integrum” o nella necessità imposta di modificare quasi-strutturalmente l’assetto personologico soggettivamente esperito negli anni antecedenti la rottura psicopatologica).

Non si intende entrare qui nei meandri delle diverse cure, esplorare le scelte tra orientamenti differenti che resistono al tempo che crea nuove linee guida, proposte di tecniche innovative ed “evidence based”, come se lo stare bene potesse essere assoggettato alle logiche di un mercato (competitivo) tra efficace e scarsamente utile, funzionale e disfunzionale, peraltro dovendo (deontologicamente) chiederci a quale finalità risponda l’essere “funzionale”. Naturalmente si può essere funzionali a sé dentro (sé del prima – dentro una “restituzione” all’interezza dell’individuo ovvero sé del dopo – nel desiderio soggettivo ed inter-soggettivo di divenire differenti a se stessi) oppure funzionali a quel che domina fuori (dal sistema familiare al sistema societario normativo).

Un soggetto è, in primo luogo, la persona che gli altri dicono che è. Crescendo, poi, egli conferma, o cerca invano di invalidare, la definizione con cui gli altri lo hanno individuato. Può decidere di essere quello che si dice sia. Può cercare di non essere quello che, nella sua intimità, è pervenuto a riconoscere che è. O può tentare di strappare da sé quella identità “aliena” che gli hanno attribuito, o alla quale è stato condannato, e creare, per mezzo delle sue azioni, una identità per se stesso, cercando di costringere gli altri ad accettarla. Quali che siano le vicende successive, tuttavia, l’identità di un soggetto è, in primo luogo, quella che gli viene attribuita. Si scopre quello che già siamo.” (R.D. Laing, 1997)

Nello scopo di questo scritto, “Dalle periferie della solitudine verso la progettazione partecipata”, riferendosi ad una dimensione etica della Cura, si intende favorire una lettura che riporti al centro la necessità di stare nella dimensione diacronica del tempo: tempo del restare – sostare – attraversare senza fretta i luoghi da ri-abitare per ri-trovarsi e ri-conoscersi; tempo della scelta di uscita dall’individuale per andare verso il relazionale, attribuendo valore agli individui da poter coinvolgere nei percorsi, perché l’essere in società, così come l’appartenere a comunità di soggetti che si identificano in una dimensione di somiglianza di senso, è presupposto del “vivere con” e quindi anche del partecipare insieme. Le traiettorie delle cure devono essere proposte rispettose e, prima ancora che proposte, è necessario si configurino quali risposte agli interrogativi posti attraverso: attraverso i segni piuttosto che i sintomi individuali – societari – comunitari, che dentro paradigmi di riferimento aiutino a differenziare non tanto normalità e patologia quali strutture dell’esistere normativo, quanto crisi necessarie ed evolutive e traumi che hanno creato resa – impossibilità a sperimentare relazioni con se stessi (intra-psichiche) e con il Mondo (inter-personali).

La progettazione partecipata deve essere “co-progettazione” dentro cui si realizzano le modalità di esercizio dei diritti: diritti all’essere curati e prima ancora al prendersi cura individuale e collettivo; diritti di essere persone al centro, responsabili delle proprie scelte o, se ancora transitoriamente nella posizione psichica che impedisca di sentirsi liberi e capaci di scegliere, co-responsabili insieme alle persone facenti parte l’effettiva rete di supporto sociale – societario piuttosto che comunitario; che cosa questo significhi concretamente è sicuramente un interrogativo cui cercare di dare risposte che non siano riduttive od iper-semplificanti, ridimensionando la guarigione nell’assenza di sintomi, sintomi interpretati partendo da presupposti normativi (manuali diagnostico – categoriali) ovvero da riferimenti tecnico-scientifici che non entrano dentro i percorsi storico – culturali diversi.

Coinvolgere dentro la progettazione partecipata le differenti realtà che abitano i soggetti che attraversano le crisi o si trovino dentro i traumi nascosti in involucri (protettivi) di fondo depressivo è insieme atto lieve e pesante, interpretando la lievità come quel sentire di potersi affidare – condividendo i percorsi di cura collettiva – a coloro i quali abitano i quotidiani tempi e spazi di quelle persone che altrimenti dovremmo “prendere in carico” in forme vuote di cornice di significato, sentendo al tempo stesso la pesantezza come senso di responsabilità, dove la verifica dei percorsi e soprattutto degli esiti non avviene nel chiuso delle stanze delle terapie e nella relazione duale dove la Cura è intesa in termini binari, bensì si colloca nell’inter-connessione con le vie e le piazze abitate dalle differenti soggettività degli atti connessi al Prendersi cura che consiste in complessità.

Nel tempo storico – culturale di una lotta per il diritto alla Salute (compresa la salute mentale) che sapesse dare risposte dentro la rete dei servizi pubblici sociosanitari, si sono venuti articolando percorsi di costruzione di gruppalità – associazioni e movimenti che dal bisogno di identificazione tra persone simili riconoscendosi nei comuni sintomi (esempio uditori di voci, bipolari…) ovvero nell’essere diversi per struttura (esempio neurodivergenti) fino all’emancipazione da questi stessi termini – limiti e vincoli socio-culturali (derivanti in prevalenza da una psichiatria – sia pure “democratica” che dominava e purtroppo ancora domina il senso delle cure prettamente orientate alla sanità mentale prima ancora che alla salute – mentale e oltre).

Oggi due tra le esperienze preziose nel loro essere “pungolo” verso i servizi e “smascheramento” dei misfatti dentro i servizi (sempre con la finalità della promozione del Benessere individuale e prima ancora collettivo) sono costituite da un collettivo – Collettivo Artaud – e da una “brigata” – Brigata Basaglia; tengo sospeso il tempo – per scelta di scrittura che preferisco lasciare interrotta e per pro-vocazione – perché dentro questi due mondi di significato possano aprirsi varchi tra le nostre lettrici e i nostri lettori, dentro le libere associazioni tra persone che non conoscano dall’interno queste due realtà portate nell’esemplificare partendo dall’interrogativo del Perché: perché Artaud, perché una brigata, perché ancora ed ora Basaglia, invitando a superare la dimensione retorico – celebrativa di questo anno che sta volgendo al termine, non fosse altro perché c’è davvero poco da celebrare nel tradimento che vi è stato di colui che, insieme ai suoi “eredi”, ha avuto un grande merito, principalmente quello di aprire le porte delle istituzioni, quando oggi anche per entrare dentro i servizi di cura è necessario suonare i campanelli, essere spiati dalle telecamere, attendere (perché essere pazienti significa “pazientare”) ed essere giudicati idonei o meno all’entrata dentro i luoghi del curare; eppure Prendersi cura si ritiene debba consistere innanzitutto nello slegare i legacci, offrire spazi e tempi che sappiano accogliere, partire dal presupposto che i muri è necessario debbano essere abbattuti per co-progettare, Insieme, essendo persone che si impegnano verso i singoli pazienti sofferenti ed attente ai luoghi che abitano, ai quali appartengono, che co-determinano le domande e quindi, conseguentemente, possono facilitare la ricerca delle risposte, Insieme.

“(…) vogliamo essere soprattutto persone impegnate, dei militanti. O meglio, vogliamo trasformare, cambiare il mondo attraverso la miseria dei nostri pazienti che sono parte della miseria del mondo. Quando diciamo no al manicomio diciamo no alla miseria del mondo”.
(F. Basaglia. In P. Cipriano. In C. Bellosi, 2022).

Riferimenti bibliografici

Baldanzi Simona (2022). Se tornano le rane. Edizioni Alegre, Roma.

Bellosi Cecco (2022). L’orlo del bosco. La cura delle dipendenze tra catene e libertà. DeriveApprodi, Roma.

Correale Antonello (2021). La potenza delle immagini, l’eccesso di sensorialità nella psicosi, nel trauma e nel borderline (a cura di Leonardo Provini). Mimesis Edizioni, Milano – Udine.

Laing Ronald David (1997). L’io e gli altri. Psicopatologia dei processi interattivi. Biblioteca Universale Rizzoli, Milano (ed.orig. 1959).

Pigliaru Alessandra (23/09/2022). Partecipare alla vita e alla sua complessità. Il Manifesto.

Quinodoz Jean Michel (2009). La solitudine addomesticata. Borla, Roma (ed.orig. 1991).

Racamier Paul-Claude, Taccani Simona (2010). La crisi necessaria. Il lavoro incerto. FrancoAngeli, Milano.

Vivaldi Andrea (10/09/2023). Salute mentale le emergenze salite del 35% in tre anni 52mila i pazienti. Repubblica.

Zoja Luigi (2015). Psiche. Bollati Boringhieri, Torino.

Emanuela Bavazzano

Vice Presidente di Medicina Democratica

Collaboratrice redazionale di Lavoro e Salute

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