La grande fuga dal pronto soccorso

In assenza di una riforma della sanità territoriale che garantisca personale e strutture intermedie e di prossimità, i Pronto soccorso sono il primo e principale punto di accesso al Servizio Sanitario. Ma, mentre il Ministero lancia la campagna di comunicazione #noisalviamovite, con l’obiettivo di aumentare le adesioni alla specializzazione di emergenza-urgenza, mettendo in evidenza l’importanza cruciale e il forte valore etico e morale di questa disciplina per ispirare futuri medici a intraprendere questo percorso professionale, nell’anno 2022-2023, ogni quattro posti messi a bando per tale specialità, ne è stato assegnato solo uno. Intanto la situazione scoppia, con decine, se non centinaia, di accessi al giorno, turni massacranti, carenza di personale e di posti letto, aggressioni (verbali e fisiche) sempre più frequenti al personale sanitario e infermieristico, estensione a macchia d’olio del fenomeno dei medici “gettonisti”, livelli di stress che diventano veri e propri burn-out e molto altro ancora. Indagare cosa accade “dentro” i Pronto soccorso è, almeno, un veicolo per comprendere cosa sta realmente accadendo e per ragionare su come affrontare una situazione insostenibile (seppur prevedibile), conseguenza di una somma di criticità negli ultimi anni trascurate, sottovalutate e, in fin dei conti, ignorate. Per farlo ricorriamo, ancora una volta, ad alcune testiomonianze e analisi di Michela Chiarlo, oggi medico del Cto di Torino e fino a pochi mesi fa al Pronto soccorso e nel reparto di Medicina d’urgenza dell’Ospedale San Giovanni Bosco sempre di Torino, che già ci ha accompagnati, in passato, a esplorare la situazione ospedaliera durante la pandemia da Covid. (la redazione)

Quando capita qualcosa di veramente grave in ospedale lo si avverte da lontano. C’è un senso di attonito sbigottimento, un silenzio teso, rotto solo da qualche “Hai sentito?”, “Che roba”, “Vedrai”. Non capita spesso, per fortuna, ma ha un effetto devastante. Chi c’era sa, chi non c’era ricostruisce un pezzo alla volta, timoroso di indagare, captando solo quanto tracima dai testimoni diretti. “Abbiamo visto una flebo che pendeva nel vuoto a fianco alla finestra aperta”, “Ci ha chiamato il vicino di letto”, “Quando ci siamo sporti abbiamo capito subito che non c’era niente da fare”, “Pensavo fosse caduta una delle lettere dal tetto”, “Per la fretta avevo preso i guanti di due misure troppo grandi ed era tutto difficilissimo”, “La cosa peggiore erano le gambe, piegate in modo totalmente innaturale”.

Io me la ricordo la faccia della mia collega, assunta da una settimana, quella mattina. E mi ricordo anche di aver pensato che era stato un caso che facessi pomeriggio, poteva capitare a me quel turno, potevano rimanere impresse per sempre nella mia memoria quelle immagini. È difficilissimo condividere un’esperienza simile con qualcuno che fa un lavoro “normale”: non si trovano le parole, e se si trovano si rischia di scatenare nell’ascoltatore una reazione emotiva molto più forte di quanto si vorrebbe. Ma non è facile tornare a casa e non dire niente. “Com’è andata oggi al lavoro?” “Tutto bene, grazie”. Il trauma psicologico degli operatori sanitari coinvolti in un evento avverso prende il nome di second victim syndrome e ne soffre circa il 50% degli operatori, con picchi del 75% in alcune specialità, come la chirurgia, nelle quali la correlazione tra l’agito e il potenziale danno è più diretto (https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/34283460/). Il paziente è la prima vittima, ma l’operatore che ha un impatto personale o professionale a seguito di un evento avverso che coinvolge un paziente diventa la seconda vittima dell’incidente.

Si salvano vite in pronto soccorso, certo, ed è bellissimo quando accade. Ma si è anche testimoni diretti del momento peggiore della vita di tantissime persone. Come molti altri medici, peraltro, ma un conto è dire ai parenti di un paziente ricoverato che le cose si sono complicate e che morirà a breve; tutt’altra vicenda è chiamare al lavoro una donna il cui numero è stato faticosamente recuperato da una vecchia anagrafica e farla precipitare in ospedale per comunicarle che il marito, in perfetta salute fino al mattino, ha avuto un arresto cardiaco andando a comprare il pane e giace morto su una barella in sala emergenze. Per poi, magari, uscire da quella stanza e dover placare il paziente con la lombalgia che sbraita perché attende da quattro ore di essere visitato.

Nessun altro lavoro oltre a quello del medico ha un carico emotivo simile con queste frequenze. Non a caso molti articoli che parlano del burnout degli operatori dell’emergenza trovano confronti solo con i militari nelle missioni operative, i quali, però, non lavorano in zone di guerra per tutta la propria carriera, non vanno in pensione a 70 anni e godono di supporto psicologico (almeno in USA) da decenni. Un articolo del 2019 descrive così il lavoro degli operatori sanitari dell’emergenza (Emergency Providers EP):

Ogni giorno, gli EP sperimentano un trauma secondario: non sono coinvolti nell’incidente d’auto, ma vedono i risultati e ne sperimentano il dolore insieme alla famiglia; vedono la devastazione causata da droghe e alcol, nonché gli effetti collaterali della mancanza di una casa, l’aumento dei costi dei farmaci, la mancanza di trasporti, l’analfabetismo e altro ancora. Gli EP sperimentano tutte queste cose pur essendo relativamente incapaci di esercitare un cambiamento positivo. In questo aspetto del loro lavoro, gli EP sono più simili alle forze dell’ordine e ai militari in servizio. In che modo gli EP dovrebbero affrontare il trauma secondario quotidiano derivante dal vedere i giorni peggiori della vita delle persone, nonché le barriere all’assistenza per le quali a volte non possono fare nulla? Analogamente ai professionisti delle forze dell’ordine, per un EP, staccare completamente dal lavoro è difficile. Ogni EP nota situazioni che potrebbero essere potenzialmente pericolose ed è pronto ad agire nel caso in cui sia necessario. Gli EP sono resilienti, ma il loro lavoro richiede almeno un passo oltre la normale resilienza.

(Wellness, Combating Burnout and Its Consequences in Emergency Medicine: http://escholarship.org/uc/uciem_westjem DOI: 10.5811/westjem.2020.1.40971)

Cosa facciamo per prevenire i danni emotivi degli operatori dell’emergenza? In genere nascondiamo il problema sotto il tappeto del “fare il medico è una missione”, affermazione falsa e pericolosa. Perché se fare il medico è una missione allora lo faresti anche gratis, anche in condizioni disagevoli, non puoi non farlo, è la tua chiamata, la tua vita, il tuo tutto. La maggior parte delle persone che lavora in questo settore, invece, ha una vita fuori dall’ospedale, degli interessi, delle relazioni che desidera preservare, trova soddisfazione nel lavoro, come moltissimi altri professionisti, ma non è un martire della causa e non deve diventarlo. Molti hanno una forte o fortissima motivazione, magari ritengono che non avrebbero potuto fare altro nella loro vita, sicuramente amano il proprio lavoro, ma non si può pretendere che gli operatori sanitari sacrifichino il proprio benessere per il lavoro che svolgono.

Fare il prete è una missione e mi risulta sia l’unico mestiere attinente a una sfera diversa da quella umana. Fare il medico o l’infermiere o l’OSS non è una missione. Non è necessaria una chiamata divina per iscriversi alla facoltà di medicina, si riceve un compenso come tutti i lavoratori e come per tutti i lavoratori sono necessarie tutele, garanzie e adeguata retribuzione.

Michele Chiarlo

15/10/2024 https://volerelaluna.it/

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