Il romanzo opaco della Ferrara fascista
L’ex ministro e dirigente del Pd Dario Franceschini firma un romanzo storico che cede al revisionismo delle destre: descrive la violenza squadrista scatenatasi alla fine del 1920 come conseguenza di quella del movimento bracciantile
La città di Ferrara oggi appare sempre più epicentro di operazioni ideologiche di portata non solo locale, a cui bisogna prestare attenzione, poiché riconducibili al tentativo ormai quarantennale di una nuova narrazione del fascismo.
Sull’argomento, la casa editrice La nave di Teseo, a firma dell’ex-ministro e dirigente del Partito democratico Dario Franceschini, pubblica un romanzo breve, Aqua e tera, sullo sfondo storico della lotta tra socialismo massimalista e fascismo agrario ferrarese nei primi anni Venti del Novecento. La vittoria da parte di quest’ultimo avrebbe determinato la diffusione nazionale di un vero e proprio modello, quello dello squadrismo agrario di Italo Balbo e Roberto Farinacci.
Su questo contesto si staglia una storia d’amore tra due giovani donne, la cui parabola si conclude con la fine della guerra e la liberazione da parte degli alleati. Aqua e tera è un tributo alla città natale dell’autore, con più di un richiamo a quel Romanzo di Ferrara di Giorgio Bassani, tra le opere più importanti del Novecento italiano.
Franceschini ha il merito di parlare di un rapporto, quello tra bracciantato della campagna ferrarese e padronato inurbato in città, tra i più particolari e gravidi della storia recente italiana. Tuttavia la trama, pur non priva di alcune note emotive riuscite e di un intreccio esile ma talora accattivante, risulta priva di introspezione psicologica. La prosa asciutta innesca un ritmo repentino e ne risultano troppo spesso meccanicità e prevedibilità, soprattutto nei dialoghi.
Nella vicenda delle due protagoniste, sebbene le donne e le rispettive famiglie appartengano a due classi sociali distinte (Tina è borghese e Lucia viene dalla campagna), non vi è una distinzione psicologica e sociale accurata, a parte alcune sfumature; anzi Tina e Lucia, pur avendo un livello culturale differente, aderiscono al medesimo universo morale, vivendo esattamente allo stesso modo la relazione segreta, o la comparsa di un figlio illegittimo. In realtà il bracciantato padano, come ha dimostrato lo studioso Marco Fincardi (Coppie di fatto. Costumi sessuali dei giovani nella Padania bracciantile, 1995) per tanti motivi non è ascrivibile all’universo morale borghese, se non altro perché avvezzo a un grado di promiscuità, alla presenza di orfani, figli non riconosciuti e costumi sessuali differenti, frutto di condizioni di vita radicalmente diverse e della separazione tra i due mondi.
Al contrario, nel modello bassaniano, a cui pure l’autore guarda, la lezione della profonda diversità tra borghesi e società rurale padana è onnipresente. Nelle Cinque storie ferraresi, la vicenda drammatica di Lida Mantovani mostra il «dentro» le mura della borghesia ferrarese e il «fuori» del mondo rurale separati da un muro insuperabile, valicato solo dalle angherie e dai privilegi attribuiti alla sordida caratura morale del borghese, oppressore secolare dei secondi.
Lo squadrismo? Colpa del movimento operaio
Il problema vero del libro è però la ricostruzione storica schematica, che solleva più di una perplessità. La principale è questa: Franceschini descrive la violenza squadrista scatenatasi nelle campagne alla fine del 1920 come conseguenza di una violenza di segno opposto, quella del movimento bracciantile; ma se è vero che il territorio ferrarese vide un massiccio successo delle leghe socialiste, anche attraverso l’uso del boicottaggio e di altri sistemi violenti per tenere unito il fronte di classe ed evitare crumiraggi, il montaggio degli eventi produce non solo una relazione causa-effetto incompleta rispetto alla reazione del padronato, ma un effetto giustificativo della reazione stessa. L’autore si sofferma sulle condizioni di miseria del bracciantato, ma il racconto delle origini del socialismo massimalista è quantomeno riduttivo. La coazione sociale delle leghe compare come una rabbiosa esagerazione e non come una strategia di resistenza per garantire salari e giornate lavorative accettabili.
Le pratiche massimaliste miste a eccessi, che generano frantumazioni e odio (con percentuali, va ribadito, risibili rispetto ai numeri della violenza squadrista), non trovano il contraltare nella precisa ricostruzione delle responsabilità della borghesia ferrarese, storicamente contraria a qualsiasi avanzamento egualitario, o miglioramento della condizione dei subalterni delle campagne, dunque parte primaria nella distruzione di quel minimo di coesione sociale necessaria a mediare i conflitti.
Basta consultare un classico come Padania di Guido Crainz (Donzelli, 2007) per trovare la descrizione di un padronato emiliano-romagnolo cieco verso qualsiasi cambiamento. Una borghesia agraria definita recentemente da Alessandro Saluppo (in un contributo al volume collettaneo Il fascismo in persona. Italo Balbo, la storia e il mito, Mimesis, 2021) sorda a qualsiasi richiesta di emancipazione delle masse.
In Aqua e tera manca dunque un’adeguata contestualizzazione della lotta come necessità assoluta per la sopravvivenza e l’emancipazione, e un romanzo storico, laddove non restituisca appieno, attraverso un rigoroso realismo, sentimenti, emotività, temperie di un’epoca, perde la sua forza vitale.
Insomma Franceschini, lungi dal creare profondità, comprime gli eventi restando pericolosamente in superficie, per cui il concatenamento di fatti, attori ed eventi, non genera nel lettore le domande che porterebbero verso un chiaro quadro storico. Basti aggiungere che in Aqua e tera il ritmo narrativo produce non solo lo schema eccessi delle leghe-reazione squadrista, ma arriva a far sembrare che lo stesso Don Minzoni, parroco ad Argenta e una delle più celebri vittime delle camicie nere, avendo provocato platealmente gli squadristi, in fondo la sua tragica fine se la sia andata a cercare.
Esercizi di rivalutazione di un criminale pluriomicida
Quanto alla descrizione dello squadrismo, l’autore sorvola su aspetti essenziali della sua composizione sociale quali il reclutamento di delinquenti comuni e pregiudicati. Queste bande paramilitari extralegali (tollerate o appoggiate dallo stato), agli ordini di Italo Balbo, usarono la violenza e la paura come tecnica, la bestialità e il rito della crudeltà come forma di umiliazione per ridurre il militante socialista alla condizione animale. Lo scrittore Girolamo De Michele, autore del libro Un delitto di regime. Vita e morte di don Minzoni, prete del popolo (Neri Pozza, 2023), ricorda a tal proposito che «Balbo è responsabile diretto, morale o politico di omicidi premeditati, o causati dal mix di cocaina e alcool che portava gli arditi fascisti a trascendere dalla bastonatura all’omicidio». Un mondo che trova in Aqua e tera vuoti narrativi e passaggi tenui.
Si dirà che non era nelle intenzioni del romanzo una ricostruzione serrata degli eventi. Purtroppo la materia scelta lo richiede. Infatti, rinunciando a tratteggiare la figura di Balbo in tutto il suo abominio, Franceschini non può non sapere che la destra italiana e il suo stesso concittadino, Vittorio Sgarbi, in spregio ai portati della storiografia recente, più volte hanno proposto la celebrazione del gerarca ferrarese, trasvolatore ed eroe dell’aeronautica, la cui tomba, a Orbetello, è meta di pellegrinaggio del neofascismo odierno. Una celebrazione acritica di un capo squadrista che, ricorda Nick Carter, portò nel ferrarese una catastrofe sociale: distruzione economica, violenza e morte. Nel già citato Il fascismo in persona, lo stesso Carter ribadisce cheè chiaro come «Il ritorno di interesse per Italo Balbo, con l’annesso moltiplicarsi delle iniziative celebrative, sia stato prodotto da una memoria selettiva, che ha oscurato gli aspetti più deprecabili del passato per esaltare un solo aspetto: il Balbo aviatore».
Sottesa a quest’operazione giace la neanche troppo velata volontà di ridurre la portata delle gravissime responsabilità morali e storiche del fascismo attraverso personaggi dal profilo apparentemente moderno. Tra selezioni e omissioni, l’obiettivo finale è far passare il messaggio che in fondo è esistito anche un fascismo buono e capace. Celebrare la grandezza di aspetti unidimensionali o del tutto parziali, serve soprattutto a dimenticare il tutto e la cornice. Ancora De Michele, tracciando un impietoso profilo biografico del fascista ferrarese, ricorda che le trasvolate atlantiche sono pura propaganda di regime attuata con molti anni di ritardo rispetto ai competitori stranieri, e che il prezzo delle imprese aeree ovviamente recava un’alta percentuale di incidenti e caduti. Oltretutto, la conduzione dell’aeronautica a guida Balbo, ricorda De Michele, evidenzia che le «risorse sono concentrate sulle futili gare […] in compenso le ore di addestramento effettivo per la restante aviazione sono la metà di quelle dell’aviazione francese e della R.A.F., un terzo dell’aviazione statunitense». Dalla descrizione emergono tratti cialtroneschi, oltre che spregiudicati, soprattutto quando si ricorda che il gerarca ferrarese, nel 1933, prima di essere sollevato dall’incarico in aviazione, «nasconde le spese e tarocca i bilanci effettivi: e mente sul reale stato della flotta».
Anche lo storico Paul Corner, tra i più autorevoli studiosi del fascismo ferrarese e italiano, definisce il gerarca ferrarese «un uomo di profondo cinismo, che curava la sua stella senza badare troppo alle implicazioni per gli altri […] Il fascismo per lui fu soprattutto veicolo di ascesa e di affermazione personale».
La letteratura è sempre contemporanea
Per completare il quadro di questo romanzo opaco di Ferrara, partito dall’input del Franceschini scrittore, occorre infine portare la riflessione critica sul quando di un’opera letteraria.
Se la letteratura, come la storia per Croce, è sempre contemporanea, attiva nel presente e per il presente di chi legge, allora affrontare frettolosamente gli argomenti suddetti, farlo oggi, nell’Italia meloniana, nell’Europa degli Orban e di Frontex, che tentenna tra la tutela dei diritti umani e la ferocia ordoliberista, non può lasciare indifferenti rispetto a certi nodi intellettuali.
Semmai la riflessione sulla storia italiana, attraversata fin dall’Unità nazionale dalla questione sociale, dovrebbe aprire ad analogie con l’attuale ingiustizia globale, come pure dovrebbe accadere con la questione migranti, che ha trasformato il Mediterraneo in un luogo di morte e la rotta balcanica in un immenso campo di torture.
Dunque, l’opacità di Aqua e tera, o meglio la scelta di dare per scontati alcuni aspetti controversi di carattere storico, pone un problema di opportunità perché avviene nell’epoca in cui è diventata impensabile ogni alternativa al capitalismo, e il militarismo e le guerre imperano – allontanando, per citare Bobbio, sempre più la morale dall’azione politica. Ciò aggiunge un sovrappiù di responsabilità per chi si occupa della materia. Contestualizzare con rigore per evitare di alimentare equivoci e strumentalizzazioni, magari innestarsi nel solco della tradizione letteraria per vivificarla e tramandarne la lezione rinnovata di una delle pagine più vive e alte della storia d’Italia, è la sfida vera sottesa alle pagine di un libro che ha come sfondo il ventennio fascista.
Quest’impostazione, a sprazzi, sembra essere nelle intenzioni di Franceschini, che produce poetiche carrellate sulla Ferrara di Antonioni, nonché l’incontro suggestivo della protagonista femminile con Renata Viganò, indimenticata autrice de L’Agnese va a morire. Ed è appunto nel paragone con la tradizione letteraria, se si pensa alla minuziosa e filologica ricostruzione del paesaggio vallivo da parte di Viganò, che gli intenti mostrano i loro limiti. Lo schema di Aqua e Tera invece porta alla memoria più i tipi di Guareschi che l’implacabile affresco di Viganò o Fenoglio.
Regime, architettura e ideologia: il caso Tresigallo
Eppure l’autore, che ha vissuto da protagonista politico e da intellettuale gli anni del berlusconismo, non può ignorare il tentativo in atto, dagli anni Novanta a oggi, di accreditare una narrazione nuova e riduttiva del fascismo, tesa appunto all’equiparazione di fatti, eventi, protagonisti, che equiparabili non sono. Questo processo di revisione acritica investe l’arte, la letteratura, la storia, la toponomastica, e persino l’architettura monumentale.
È ancora una volta il caso di Ferrara, dove operazioni culturali ambigue avvengono in merito alla sponsorizzazione artistica del paese di Tresigallo (si veda il sito Tresigallo, la città metafisica), rifondato negli anni Trenta in base a un progetto di architettura razionalista, su iniziativa di una figura controversa e poco studiata quale il gerarca Edmondo Rossoni. Qui la celebrazione della «città metafisica» (si tratta di un borgo di poco più di 4.000 abitanti, non di una città, che nulla ha a che fare con la metafisica, ascrivibile al 1916, ovvero all’arrivo a Ferrara dei fratelli De Chirico durante la Prima guerra mondiale) anziché passare per la risemantizzazione in chiave repubblicana del paese e dei suoi monumenti, quindi passando al setaccio gli eventi, con una ricostruzione dialettica che tenga conto di eventuali criticità, conflitti di classe – insomma, tenendo conto di scenari eventualmente anche divisivi –, si rivolge ad aspetti espressamente campanilistici. Ne consegue, come in precedenza con la memoria selettiva verso le imprese di Balbo, l’agiografia di Rossoni, che diviene l’ennesimo tentativo di firmare una narrazione indistinta a livello valoriale, votata all’esaltazione del paese natio in chiave nostalgica, promozionale e turistica, senza consapevolezza critica del luogo. Operazioni pseudo culturali che lungi dal creare conoscenza, producono ulteriore confusione.
Certo, chi si occupa di Tresigallo «da dentro» ha l’attenuante generica di narrare di una comunità portatrice di un complesso psichico proprio di quei luoghi in cui la memoria comporta ferite e lacerazioni che possono condurre alla ricerca di scorciatoie. Comunità tali, per il fatto di essere state fondate o ri-fondate dal fascismo, risultato dalla parte totalmente immorale della storia, si ritrovano nell’impossibilità di ripudiarlo del tutto, senza finire per negare una parte di sé stessi.
Tuttavia, al netto di un comprensibile amore per il territorio, impostare un discorso ricevibile sulle cosiddette «città di fondazione» (o rifondazione) del ventennio dovrebbe far propria la lezione per cui i monumenti agiscono nello spazio pubblico in quanto significanti portatori della memoria di un passato in costante divenire. I monumenti vivono in relazione alla contemporaneità e per questo fungono sempre da strumento del potere politico utile a revisioni arbitrarie. Per cui ogni rappresentazione, iscrivendosi in una cornice storica, – anche quando la travalica perché divenuta opera d’arte –, non può esimersi dal fare i conti con la nuova epoca in cui viene calata.
Parlare del razionalismo architettonico, valorizzare peculiarità urbanistiche e aspetti architettonici o funzioni sociali, non può trasformare la vicenda Tresigallo in un «modello astratto», privo cioè di interdipendenze e relazioni con l’esterno, a maggior ragione quando si tratti della natura classista e liberticida del fascismo italiano. Questa prospettiva falsata, astraendo la vicenda dal resto del contesto padano e europeo, fornisce un quadro mistificato e fuorviante.
Dunque, senza la ricostruzione del contesto di profonda barbarie del fascismo agrario ferrarese, e privi dell’immaginario su una classe dirigente che ha schiacciato economicamente e moralmente la classe lavoratrice italiana, responsabile tra l’altro di aver ingigantito il divario socio-economico tra nord e sud del paese, ecco che la decontestualizzazione genera la rimozione e rivalutazione (Balbo, Rossoni) che avviene non rispetto ai massimi valori civili del genere umano, come direbbe Hannah Arendt, ma nel piccolo cabotaggio, in quanto espressioni indistinte del territorio.
In questo discorso non importa più la Storia, ovvero l’orizzonte globale, ma – al prezzo di far passare come progressivi metodi e forme neo-feudali –, la messinscena di un presunto beneficio arrecato alla comunità locale: versione strapaesana del fascismo.
Agli autori e operatori culturali, per affrancarsi da operazioni che sono portatrici di perdita di senso e valori, non basta il semplice trincerarsi dietro qualche frase di ripulsa sul ventennio. Trattasi di materia per cui, che ci si occupi di promozione del territorio o di sé stessi, di bisogno di affermazione o di ignoranza di metodi, condita da ingenuità o cinismo, comunque sia le responsabilità vanno sempre rispedite al mittente.
Tornando al romanzo Aqua e tera, Franceschini ha perso l’occasione di incidere su un argomento vivo dell’attualità italiana. Il giudizio si estende non tanto allo scrittore Franceschini, che gode dell’attenuante di non essere un letterato di professione, bensì all’intellettuale cattolico di formazione storica che, nel trattare una materia delicata e importante, finisce per generare un’involontaria complicità con un contesto culturale locale e nazionale già profondamente inquinato dalle deformazioni prodotte ad arte dalle classi dirigenti italiane degli ultimi decenni, centro-sinistra incluso.
Ferrara, un campo di esperimenti
Se Ferrara in passato è stata il laboratorio politico dello squadrismo agrario, in tempi recenti, attraverso le vicende politiche dei comuni di Bondeno e Goro – contestualmente alla crescita dei consensi della destra nell’Emilia un tempo rossa – ha fatto da apripista allo sfondamento della lega a sud del Po, fino alla conquista del capoluogo estense. Una provincia in cui l’abuso della storia come veicolo identitario e propagandistico (Bundan Festival, Palio di Ferrara, riscoperta o invenzione di tradizioni indistinte), favorito dall’adesione delle amministrazioni precedenti a guida Pd alle politiche neoliberiste (basata sull’intercettazione dei flussi attraverso l’allestimento di grandi e piccoli, ma continui, eventi-vetrina), ha portato all’ossessione dell’attuale destra ferrarese per una fantomatica «identità ferrarese».
La Ferrara post-Covid oggi mostra tutti i segni di questa lenta ma costante deriva, culminata nella recente apertura nel capoluogo di una sede di Forza Nuova. Provocazione che in città ha suscitato indignazione, ma le iniziative a contrasto sono rimaste nell’ordine del simbolico.
Contestualmente, sul piano sociale, la turistificazione del centro storico, sommata alla folta presenza studentesca in città, produce una doppia spinta: quella centrifuga, che espelle le famiglie dal centro per via della lievitazione degli affitti e dei costi degli immobili; la centripeta, per cui flussi di turisti e studenti la vivono e attraversano fugacemente, senza per questo abitarvi.
Il risultato finale è l’incremento delle disuguaglianze e la scomparsa definitiva di modelli valoriali, o del «senso in comune» dei luoghi, direbbe Jean-Luc Nancy.
Tutti questi fili, intessuti alle trame di cui sopra, instillano il sospetto che la città, per il secondo mandato in mano a una giunta di destra, sia diventata volano, proprio laddove tutto è cominciato, di un laboratorio politico-culturale atto alla normalizzazione del fascismo.
Ad aggravare il quadro, uno scenario in cui tale normalizzazione non avvenga soltanto attraverso le strumentalizzazioni culturali delle destre, bensì per mezzo di una rielaborazione imputabile a personaggi apparentemente apolitici o super partes, o ancora una volta per mano del fuoco amico del cosiddetto centrosinistra «moderato».
Sandro Abruzzese, insegnante e scrittore irpino, vive a Ferrara. È autore dei libri Mezzogiorno padano (Manifestolibri, 2015), CasaperCasa (Rubbettino, 2018) e, con le foto di Marco Belli, Niente da vedere (Rubbettino, 2022). Gli ultimi due titoli sono usciti nella collana «Che ci faccio qui», diretta dall’antropologo Vito Teti. Suoi contributi sono apparsi su diversi quotidiani e su siti letterari tra i quali Doppiozero e Le parole e le cose.
28/10/2024 https://jacobinitalia.it/
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