Storie di palestinesi incarcerati in Italia e delle loro famiglie

Quella che state per leggere non è solo la storia dell’arresto e dell’ingiusta detenzione di tre uomini palestinesi. È una storia di donne, famiglie e bambini intrappolati in una rete che gli si stringe sempre più attorno e rischia costantemente di soffocarli.

10 MARZO, TERNI
Questa storia inizia, per me, sotto una pioggia incessante, a Terni, il 10 marzo. Mi trovo qui per raccontare di Anan, arrestato a L’Aquila una ventina di giorni fa a causa dei suoi trascorsi in Cisgiordania. Anan è un partigiano che stava ricostruendosi la vita in una terra di partigiani come l’Abruzzo.

Nato e cresciuto a Tulkarem, in Cisgiordania, il destino di quest’uomo è legato fin dalla gioventù alla lotta per la libertà del suo popolo. Siamo negli anni della Seconda Intifada, inizio del nuovo millennio. I palestinesi insorgono contro l’occupazione israeliana, dopo anni di negoziati falliti e una crescente violenza che si diffonde nei Territori Occupati. È un’epoca di assalti, incursioni militari, barbarie, che segnerà profondamente un’intera generazione di palestinesi. Anan è parte della resistenza. Come molti altri viene arrestato, torturato, e conosce l’orrore delle carceri israeliane. Nel 2006 è vittima di un agguato delle forze speciali, un tentativo di esecuzione che avrebbe dovuto toglierlo di mezzo per sempre. Sopravvive, seppur segnato con i proiettili nel corpo e con cicatrici invisibili ancora più profonde, nell’anima.

Nel 2013 Anan lascia la Palestina con la speranza di trovare un luogo sicuro in Europa. Prima in Norvegia, dove viene sottoposto a interventi per rimuovere i proiettili rimasti nel suo corpo, poi in Italia, dove nel 2019 ottiene lo status di rifugiato politico. Quella protezione avrebbe dovuto rappresentare una tregua, la fine di un incubo che durava da anni. Ma nel gennaio di quest’anno, mentre cerca di costruirsi una vita normale a L’Aquila, arriva un nuovo colpo: l’arresto e una richiesta di estradizione da parte di Israele, che lo accusa di terrorismo. In realtà la sua figura rappresenta un altro tipo di pericolo: è un uomo che ha resistito, un simbolo della lotta per la libertà palestinese.

L’Italia si trova di fronte a una scelta: rispettare le direttive del diritto internazionale, che protegge i rifugiati, o cedere alla pressione di Israele, che rivuole indietro Anan. Lo status di rifugiato politico dovrebbe essere una protezione solida, una barriera contro l’arbitrio e l’ingiustizia, ma per lui questa protezione inizia a vacillare. Se la giustizia italiana accetta di vederlo come un terrorista, non ci sarà scampo. Sarà estradato e dovrà affrontare un processo in un tribunale militare israeliano, dove la parola “giustizia” non ha alcun significato.

Appena arrestato, Anan viene condotto con una misura cautelare nel carcere di sorveglianza d’alta sicurezza a Terni. È da lì che, a febbraio, riceviamo una sua lettera: “Grazie per tutto quello che state facendo per me e per la Palestina, voi siete la nostra voce e siete parte della nostra lotta. Nonostante noi siamo sotto attacco siamo liberi, come voi che lottate per la libertà”.

Terni c’è un tempo da lupi. Piove a secchiate. Lo striscione che qualcuno ha appeso a una rete viene subito strappato da una violenta folata di vento. Impossibile prendere appunti. Ogni volta che ci provo la pioggia mi inzuppa i fogli del quaderno. Resto a osservare e ad ascoltare, fuori dal carcere, tra una raffica di vento e un cielo che non sembra volerci dare tregua. Ci raduniamo intorno al camioncino per l’intervento telefonico dell’avvocato Flavio Rossi Albertini: «È sempre più chiara la matrice politica che sta dietro la richiesta di estradizione formulata da Israele, che cerca di intimidire, tacitare e recludere chi resiste all’occupazione coloniale della Palestina ma anche chi è solidale con la lotta per l’autodeterminazione che il popolo palestinese combatte da decenni».

Cori si levano chiedendo Anan libero, Palestina libera. Dal carcere rispondono voci solidali. Qualcuno ha recuperato lo striscione strappato dal vento. Ora posso finalmente leggere cosa c’è scritto: “La resistenza non è un reato, il genocidio sì. Anan Yaeesh libero, Palestina libera”.

12 MARZO, CORTE D’APPELLO
Sempre a marzo la Corte d’appello di L’Aquila rigetta la richiesta di estradizione di Anan: il rischio di torture nelle carceri israeliane è troppo alto. Per lui, che ha già subito violenze e abusi, sarebbe come ripiombare nello stesso inferno da cui è scappato.

Questa vittoria giudiziaria non è però risolutiva. Il giorno prima della sentenza c’è un nuovo colpo di scena: nuove accuse, nuovi arresti. Questa volta vengono coinvolti anche due suoi amici e connazionali, Alì Irar e Mansour Doghmosh. L’accusa è quella di “promozione, costituzione, organizzazione o finanziamento di associazioni terroristiche tese all’eversione dell’ordine democratico in uno stato estero”, ovvero quella di far parte di una presunta cellula terroristica che pianifica atti terroristici in Cisgiordania contro Israele, in collaborazione con le Brigate dei Martiri di Al-Aqsa.

Ali Irar viene prelevato e trasferito nel carcere di alta sicurezza di Ferrara, mentre Mansour Dogmosh subisce una sorte ancor più dura, spedito nel carcere di Rossano Calabro, istituto di massima sicurezza noto come la “Guantanamo italiana”. Un luogo distante dalla propria nuova casa, ai margini estremi del paese, lontano da tutto e da tutti.

Il tempismo delle nuove accuse lascia spazio a molte domande. Non si può fare a meno di notare la coincidenza tra il rigetto della richiesta di estradizione e questo nuovo arresto. Ci si chiede se queste accuse non siano un tentativo di destabilizzare la sua posizione di rifugiato politico. La protezione concessa a chi fugge da un contesto di guerra e repressione, infatti, può essere revocata solo in casi specifici, come quelli legati al terrorismo. Le prove, d’altronde, appaiono deboli e vaghe, insufficienti a giustificare un’accusa così pesante. Viene da chiedersi, ancora una volta, se la giustizia si stia muovendo su un piano legale o politico.

Nel frattempo, comunque, le piazze italiane cominciano a riempirsi di manifestanti, attraversate da cortei a sostegno della Palestina. “From the river to the sea, Palestine will be free” è lo slogan che più risuona nelle strade, che ribollono di energia e rabbia. Da aprile la protesta sale ancora di intensità, e sotto le sedi della Rai migliaia di manifestanti si riuniscono per contestare la narrazione della televisione pubblica totalmente sbilanciata a favore di Israele. Ciò che si chiede è una copertura più equa e veritiera, che dia spazio alle voci della resistenza palestinese e denunci il genocidio in corso, un dramma che non trova alcun riscontro nella vulgata ufficiale.

Roma, davanti alla Farnesina, gli studenti si riuniscono chiedendo un incontro con il ministro Tajani per discutere della complicità italiana nell’oppressione del popolo palestinese, ma vengono lasciati sotto il sole e ignorati. A Napoli, durante il concerto per il settantacinquesimo compleanno della Nato al teatro San Carlo, i manifestanti mobilitatosi per denunciare la connivenza tra l’alleanza atlantica e il supporto militare a Israele vengono manganellati e identificati dalla polizia.

La rabbia e la determinazione si riversano anche nei rettorati occupati delle università italiane. Napoli, Roma, Torino, Bologna diventano i centri nevralgici della mobilitazione. Studenti, ricercatori e docenti si uniscono per chiedere che le istituzioni accademiche italiane interrompano i rapporti con le università israeliane, contribuendo alla discussa modalità di ricerca che si articola sul binario del dual-use (ogni tecnologia o innovazione può avere una funzione tanto civile quanto militare). In particolare, gli studenti denunciano la collaborazione dei propri atenei con aziende come la Leonardo, che grazie ai finanziamenti universitari sviluppa tecnologie utilizzate dall’esercito israeliano nell’occupazione prima e nella distruzione poi dei territori palestinesi.

La vicenda di Anan, Alì e Mansour diventa parte integrante di questa lotta. I loro nomi compaiono nella narrazione, vengono scanditi nei cortei. La loro battaglia si intreccia con quella contro la complicità italiana nel finanziare l’industria bellica israeliana. Sono ormai simboli di resistenza, non solo contro l’occupazione israeliana, ma contro un sistema che criminalizza chiunque difenda la libertà, in Palestina come in Italia.

9 MAGGIO, LETTERA DI ANAN A LUIGIA
“Cara amica, dovrei spiegarti una cosa. Oggi sono in un carcere italiano perché vogliono mostrare a Israele che gli italiani sono con loro, con Israele, quindi quello che succede non è normale. Nel 2005, quando ero bambino, sono stato in un carcere americano e inglese perché ero nelle Brigate di Al-Aqsa. Israele ha provato a uccidermi quattro volte per questo motivo. Per la stessa ragione sono stato arrestato nel 2006 e mi hanno cacciato dalla Palestina nel 2013. Per la stessa ragione Israele ha fatto la stessa richiesta in Norvegia nel 2015 e per lo stesso motivo sono venuto in Italia, ho chiesto rifugio e l’ho ottenuto […].

Sono stato arrestato in Giordania l’anno scorso per lo stesso motivo e ora l’Italia mi ha arrestato per gli stessi motivi. Quindi niente di nuovo, ma è qualcosa di politico, solo per dimostrare che Israele mi segue da molto tempo, non solo adesso, e lo so, sono sicuro, che se sarò libero o se rimarrò qualche anno e dopo sarò libero, Israele non si arrenderà e non mi lascerà mai, non si fermeranno prima di uccidermi. Questo è il loro messaggio per me, ma sicuramente non ne parleranno in tv o in pubblico. La polizia italiana lo sa, sono sicuri al cento per cento che Ali e Mansour sono solo miei amici. Non fanno niente e non sapevano niente, ma li hanno arrestati solo per dire che la polizia ha arrestato un gruppo di terroristi, non solo Anan, che lo vuole Israele.

La mia vita non è segreta, la gente non mi conosce ma tutta la polizia di tutti i paesi mi conosce molto bene, è solo un gioco politico. Ma, come ho detto prima, non mi arrenderò finché non avremo la nostra libertà per la Palestina e i palestinesi, perché la mia vita e tutto quello che ho è per la Palestina, perché la Palestina merita sempre di più. Grazie mia cara, e grazie a tutti quelli che ci sostengono.

Flavio mi ha detto che il 30 aprile c’è stato un gruppo di persone che si sono presentate in tribunale a sostenermi, e come sicuramente sai la richiesta è stata respinta, ma è solo un gioco tra di loro. Ora il mio tribunale sarà pubblico, non come prima. Quindi chiunque potrà entrare e guardare. Quindi mi piacerebbe vedervi lì. Certo, sarò nella telecamera ma posso vedere tutto. Grazie a tutti per il vostro potere e le vostre parole positive; è vero che noi non saremo mai terroristi, perché la resistenza è un atto di amore, e io, che amo la vita più di chiunque altro, preferirei morire per ottenere la libertà del mio popolo, per vedere tutti i bambini in Palestina andare a scuola senza paura, per vedere tutte le ragazze andare per strada senza paura. Amo la mia vita, ho molti sogni come tutti in questa vita, ho molti sentimenti nel mio cuore, amo vivere in pace e farmi una famiglia, ma la Palestina è la cosa più importante prima di ogni cosa e prima della mia vita.

Cara amica ancora una volta grazie per ogni cosa e spero di poter fare te, e tutti quelli che sono con te, felici un giorno con tutti i miei auguri e con un grande abbraccio,

vostro amico Anan Yaeesh, Palestina per la Palestina!”.

FINE MAGGIO, STORIA DI MAYS
La notizia mi giunge durante un’assemblea del collettivo di cui faccio parte: Mansour, uno dei tre palestinesi arrestati, ha una moglie, Mays, da poco inserita nel sistema d’accoglienza di Teramo, la mia città. Rimasta sola con tre bambini piccoli, Mays non ha soltanto bisogno di aiuto economico, ma di un sostegno umano. La vicenda, da politica, si trasforma in qualcosa di personale. Non si tratta più soltanto di sostenere tre uomini ingiustamente detenuti. Dobbiamo assicurarci che una donna giovane e i suoi figli non vengano travolti da una vicenda che minaccia di stritolarli.

Il nostro primo incontro avviene in una giornata qualsiasi. Mi offro di accompagnarla a fare la spesa in auto, sperando che quel gesto di quotidiana semplicità possa rompere il ghiaccio fra noi. La prima immagine che ho di lei è riflessa nello specchietto retrovisore della macchina: una giovane donna dagli occhi grandi e marroni, bellissima, dignitosa, con un’espressione che tradisce più smarrimento di quanto le sue poche parole possano esprimere. Le nostre vite si incrociano così.

Qualche settimana dopo ci ritroviamo intorno a un piccolo tavolo di legno. Ci sono le donne della comunità islamica, arrivate per offrirci il loro aiuto con la traduzione; accanto a loro, compagne giunte da diverse parti d’Italia, ognuna con la propria storia cucita addosso, la propria grande esperienza e determinazione. Donne di terre, religioni e culture diverse, unite dalla solidarietà.

L’appartamento, sopra i magazzini di un centro commerciale, diventa il “nostro” spazio e piccolo rifugio; dal terrazzo la vista si apre su un maestoso Gran Sasso, la sua cima nascosta da una lattiginosa foschia è lì, immobile e imponente. Ci osserva silenzioso, testimone di una storia che non appartiene solo a noi.

I figli di Mays si muovono come spiritelli e schizzano da una stanza all’altra della casa, rincorsi dalle loro stesse risate, inconsapevoli dei discorsi che si fanno sopra le loro teste. Le loro esplosioni di vita si intrecciano nelle nostre conversazioni, rendendole elettriche e spezzandone il ritmo. Ogni tanto si arrampicano sul davanzale come piccoli gatti, saltando dentro la stanza per guardarci con occhi curiosi e pieni di eccitazione. Per loro, tutte quelle donne così diverse, lì unite, sono una novità affascinante.

Parliamo di come organizzarci, di cosa fare per aiutare Mansour: la raccolta di denaro, i colloqui con gli avvocati, la possibilità di viaggiare verso Rossano Calabro per fargli incontrare la sua famiglia. L’idea diventa necessità quando Mays ci racconta del suo bisogno di vedere Mansour, che negli ultimi colloqui aveva mostrato una crescente sofferenza. Eppure, intorno a noi c’è una specie di serenità. L’aroma del caffè e della torta si mescola ai sorrisi. L’insicurezza con cui eravamo entrate sembrava dissolversi, lasciando spazio a una sottile speranza. Anche Mays sorride spesso, ma nei suoi occhi si legge soprattutto il bisogno di non essere lasciata sola, di aggrapparsi a quella rete di supporto che stavamo cercando di costruire.

Quando ci alziamo per andar via, vedo i suoi occhi riempirsi di lacrime. Eravamo state un’ondata di energia e speranza che le aveva riempito la casa, un sollievo dopo mesi di solitudine. Quell’onda, però, con la risacca, si stava ritirando. Chissà se sarebbe tornata, se non fosse stata solo un’altra vaga promessa fra tante. Dal canto nostro, giorno dopo giorno, abbiamo invece provato ad aggiungere un filo sottile a quella fragile tela fatta di gesti, sguardi e parole spezzate. Una tela che è rimasta in bilico, minacciata dal peso dell’attesa. Ogni volta che sembravamo avvicinarci a una svolta, la trama si complicava e si disfaceva, lasciandoci sotto l’ombra di Penelope, costrette a ricominciare daccapo.

20 LUGLIO, CORTE DI CASSAZIONE
Prima di affrontare il viaggio verso Rossano Calabro, decidiamo di fare una prova, una prima trasferta con Mays e i bambini: 20 luglio, Roma, udienza in Cassazione per Mansour e Alì. È un’occasione per vedere come Mays e i piccoli avrebbero affrontato un viaggio impegnativo. In un certo senso, una prova di resistenza, per loro e per noi tutte.

La capitale, quel giorno, brucia sotto un sole implacabile. L’asfalto sembra sciogliersi sotto i nostri piedi mentre ci muoviamo a passo lento verso piazza Cavour. Le palme della piazza offrono un’ombra esile, quasi ridicola rispetto alla distesa di calore che ci circonda. Al nostro arrivo, davanti la Corte c’è già un presidio di manifestanti. Molti sono attivisti per la Palestina, con bandiere e striscioni che chiedono libertà per Anan, Mansour, e Ali.

La mattina sembra scivolare via lentamente, e con essa la speranza di una risposta rapida, come spesso accade con i procedimenti legali. Mays rilascia un’intervista ai giornalisti. La sua voce è ferma, determinata, anche se l’emozione si percepisce. «Mansour sta cercando di resistere, non solo per sé, ma anche per i nostri figli». Parla con lucidità, ribadendo il diritto alla libertà, alla dignità, chiedendo giustizia. «Siamo scappati dall’oppressione – dice – non vogliamo ritrovarci davanti a una nuova forma di oppressione in Italia».

Verso metà giornata, le porte del tribunale si aprirono e compaiono gli avvocati della difesa. Per Anan non ci sono buone notizie: la Corte conferma le misure cautelari, questo significa che rimarrà in carcere fino alla fine del processo. Per Mansour e Ali, invece, si riaccende la luce di una piccola speranza: la Cassazione annulla con rinvio la decisione del tribunale di L’Aquila, e impone che il loro caso venga riesaminato. Non è una vittoria, ma almeno un passo avanti.

Nel frattempo la vita continua. Ogni colloquio in videochiamata tra Mays e Mansour è un calvario, lui continua a ripetere di non riuscire più a resistere. Le notizie di suicidi in carcere sono all’ordine del giorno. Ogni mattina sembra che una nuova vita venga inghiottita da quel sistema opprimente. Una mattina, l’ennesima tra queste morti mi spinge a prendere il telefono. Quando Elena mi risponde sembriamo leggerci nel pensiero: “E se succede anche a lui? Se non riesce a reggere?”. La decisione sembra inevitabile: dobbiamo muoverci. Non importa se è l’estate più calda di sempre, se il viaggio sarà estenuante. Non possiamo permetterci di aspettare un altro giorno.

7 AGOSTO, VIAGGIO PER ROSSANO CALABRO
Dopo settimane di impotenza decidiamo di partire. Dobbiamo attraversare l’Italia prima da est a ovest, poi da nord a sud. Siamo serrati dentro l’abitacolo, il caldo fuori è inumano, una morsa ci schiaccia all’asfalto. I finestrini sono chiusi, l’aria condizionata al massimo. Non parliamo del luogo in cui stiamo andando, di quello che avremmo potuto trovare, anche perché tanto da dire non c’è. Ci concentriamo sui chilometri da percorrere, sul pieno da fare, il viaggio sembra interminabile. Mays è seduta di nuovo dietro di me, con i bambini sul sedile posteriore. Il suo sguardo è fisso fuori dal finestrino. Ciascuno di noi ha un’aspettativa per questo viaggio, ma lei? Cosa si aspetta? E cosa immaginano i bambini?

Arriviamo di sera al b&b così da essere puntuali all’appuntamento delle otto del mattino seguente, anche se poi davanti al carcere siamo già dalle sette. L’aria è già calda e appiccicosa. La prigione è sorprendentemente vicina alle case, potresti quasi guardare dentro affacciandoti dal balcone di qualcuno. Da dove vengo io, invece, le carceri stanno lontane dal centro, isolate, nascoste. 

Troviamo riparo sotto un piccolo gazebo di legno, tra la strada e i cancelli. In quel luogo ostile, progettato per separare, quel rifugio sembra quasi un gesto di umanità, anche se poi il carcere ci copre la vista del mare.

I bambini, come sempre, sono pieni di energia. Corrono avanti e indietro, ridono e scherzano come se fossimo al parco in un normale giorno di vacanza estiva. Elena inventa giochi per loro – “un-due-tre-stella!” –, io sono concentrata a tenere sotto controllo la mia ansia. Più di tutto mi spaventa il momento in cui dovremmo lasciarli andare. Mi sento impotente: una volta che loro varcheranno il cancello, io ed Elena saremmo fuori, senza possibilità di poterli aiutare in alcun modo. I bambini, poi, si troveranno davanti estranei indifferenti al loro destino, in un contesto anomalo, distante da ogni esperienza vissuta fino a questo momento. E poi Mays. Parla appena italiano, e dentro non ci sarà un interprete, né niente di simile.

Mentre sono assorta una guardia si avvicina al cancello, interrompendo i miei pensieri e il gioco dei bambini. Khalil resta fermo nella sua posizione, si volta e pensando al gioco, o forse no, ci interroga: «Abbiamo perso tutti?».

IL CPR
La scarcerazione di Mansour viene accolta da un’esplosione di gioia: dopo mesi di sofferenza sembra aprirsi uno spiraglio. Una sensazione che però si trasforma subito perché un’ora dopo ci comunicano che fuori dal carcere ha trovato la polizia ad attenderlo. Lo hanno identificato e trasferito in un Cpr, un centro di permanenza per il rimpatrio. La scarcerazione, che avrebbe potuto rappresentare la fine di quell’incubo, è solo l’inizio di un nuovo capitolo.

Naturalmente non ci dicono dove lo porteranno. Ciò che io posso fare è mettermi a raccogliere i documenti necessari a tirarlo fuori di lì, ripercorrendo tra le scartoffie burocratiche la vita di un uomo che ha attraversato più di un inferno (tempo dopo, Mansour, mi avrebbe detto che i tre giorni nel Cpr sono stati peggio di sei mesi in Alta sicurezza): “Motivi per cui ha lasciato il suo paese d’origine e possibili conseguenze di un eventuale rientro nel paese d’origine: dichiara che era impossibile vivere nel campo di Tulkarem perchè era sempre sotto il tiro delle forze israeliane ed era sempre bombardato. Da piccolo, a seguito di un bombardamento, ha riportato ferite”.

Anche il viaggio di Mansour attraverso l’Europa, seguendo quella che conosciamo tristemente come “rotta balcanica”, si può ricostruire attraverso il freddo linguaggio dei documenti. Le immagini però si sovrappongono nella mente: la fuga, la paura, la ricerca disperata di una vita migliore, e ora, dopo anni di battaglie, la prigione, in una terra che avrebbe dovuto offrirgli rifugio.

Passo ore a studiare queste carte e a riflettere, finché il giorno dopo riesco a sapere la destinazione di Mansour: il Cpr di Ponte Galeria, un luogo che non mi è sconosciuto, anzi, il suo nome emerge periodicamente nelle più insopportabili “brevi” di cronaca. Qualche mese fa, per esempio, un ragazzo di ventidue anni, Ousmane Sylla, si è tolto la vita tra quelle sbarre. La sua morte aveva scatenato una rivolta, rivelando brevemente al mondo esterno la disperazione che si respirava in quel luogo.

RITORNO A CASA
È notte, e mi trovo alla stazione dei bus. Uno di questi da Roma riporterà Mansour a casa. Le misure cautelari sono state annullate, ora ci sarà da attendere il processo. L’accusa di terrorismo è molto pesante. Alì e Mansour possono aspettarlo da uomini liberi, mentre Anan è ancora nel carcere di Terni.

Io sono sola nel piazzale. Ancora una volta non so bene cosa aspettarmi né come comportarmi. Mentre l’autobus si ferma e la gente inizia a scendere, scruto i volti chiedendomi se lo riconoscerò. Poi lo vedo. Cammina lentamente, frastornato, credo dai rumori e dalle luci della stazione. Stringe tra le mani una busta con le sue cose.

Lo chiamo con il suo nome. Un attimo di esitazione, capisce che sono lì per riportarlo verso casa. Mando un messaggio a Mays: “Stiamo arrivando”. Lei risponde subito, un solo grande, gigantesco cuore. Sorrido immaginando la sua trepidazione e il suo volto.

Quando arriviamo la porta è già socchiusa. Mays ci aspetta, gli occhi che brillano di una luce viva. Il silenzio della notte avvolge ogni cosa. I bambini dormono. Non ci sono gesti plateali, né abbracci immediati, ma una tenerezza silenziosa pervade l’atmosfera. L’interazione tra loro è delicata, intima. Ogni gesto, anche il più piccolo, sembra carico di significati. È come se l’intero spazio fosse immerso in un’attesa che non osa ancora sciogliersi. I due si cercano, ma non si toccano subito. Capisco che è la mia presenza a creare una barriera invisibile di pudore: l’abbraccio, quello vero, resta sospeso nell’aria, come un momento che appartiene solo a loro, in un tempo che non è il nostro. Esco di scena. (francesca mononoke)

29/10/2024 https://napolimonitor.it/

Immagine: disegno di martina di gennaro

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