Decolonizzare la salute globale
Un recente studio pubblicato sugli Annals of Global Health evidenzia una significativa disparità tra l’ideale di decolonizzazione della salute globale e la realtà della distribuzione geografica degli autori e delle ricerche in questo campo. Le voci e le esperienze degli esperti provenienti dai paesi a basso e medio reddito dovrebbero giocare un ruolo centrale. Invece, la narrazione della salute globale rimane dominata dagli autori provenienti dai paesi ad alto reddito.
ll termine “decolonizzazione” fu coniato per la prima volta negli anni ’30 del secolo scorso dallo storico tedesco Moritz Julius Bonn, in riferimento ai movimenti di ribellione delle ex colonie contro i paesi colonizzatori (1). Successivamente, gli storici hanno ampliato il significato di questo termine per includere l’eliminazione di tutte le conseguenze dell’esperienza coloniale, siano esse politiche, culturali, economiche o psicologiche. Infatti, il termine è stato utilizzato per riferirsi alla rimozione della supremazia e dei privilegi che derivano dall’eredità del colonialismo, strettamente legati alla geografia e al colore della pelle (2).
Da poco il tema della decolonizzazione è divenuto centrale nell’agenda di ricerca e dibattito circa la salute globale. Il movimento creatosi mira ad abbandonare i retaggi di mentalità suprematiste, strutture inique e gap di potere nelle pratiche di salute globale (3). Sono già stati compiuti numerosi sforzi a riguardo, tra cui iniziative educative, la creazione di nuovi curricula nei corsi universitari sul tema della decolonizzazione in salute globale ed ancora azioni istituzionali come la richiesta di cambiamenti delle leadership che miri ad una più equa rappresentanza di persone appartenenti ai paesi a basso reddito nelle organizzazioni e nei comitati editoriali delle riviste di settore (4).
Tuttavia, questi sforzi sono stati guidati principalmente dalle istituzioni accademiche dei paesi ad alto reddito (HICs) (5). Un recente studio pubblicato sugli Annals of Global Health evidenzia una significativa disparità tra l’ideale di decolonizzazione della salute globale e la realtà della distribuzione geografica degli autori e delle ricerche in questo campo. Le voci e le esperienze degli esperti provenienti dai paesi a basso e medio reddito (LMICs) dovrebbero giocare un ruolo centrale nel movimento per la decolonizzazione della salute globale. Tuttavia, nonostante la crescente attenzione verso questa tematica, la narrazione della salute globale rimane dominata dagli autori provenienti dai paesi ad alto reddito. Lo studio ha esaminato 197 pubblicazioni sul tema, coinvolgendo un totale di 691 autori.
Le pubblicazioni con autori esclusivamente affiliati a paesi ad alto reddito sono risultate le più frequenti (70,0%, n = 138), seguite da quelle con autori affiliati sia a paesi ad alto reddito che a paesi a medio e basso reddito (22,3%, n = 44). Solo il 7,6% delle pubblicazioni (n = 15) aveva autori esclusivamente affiliati a paesi a medio e basso reddito (Figura 1).
Figura 1. Distribuzione geografica degli autori in ricerche sulla decolonizzazione in salute globale.
Questi dati sollevano importanti interrogativi sulla vera inclusività e rappresentanza nel movimento di decolonizzazione della salute globale, suggerendo la necessità di un impegno più incisivo per promuovere una distribuzione equa delle opportunità di ricerca e di leadership in questo ambito (6). È chiaro che le attuali asimmetrie di potere influenzano, oltre la generazione di conoscenze, anche il controllo delle risorse e la definizione delle priorità nel campo della salute globale (7). I principali donatori a livello planetario, tra cui i governi degli Stati Uniti, dei Paesi europei e le organizzazioni filantropiche come la Bill & Melinda Gates Foundation (BMGF), la Banca Mondiale e il Fondo Globale, esercitano una notevole influenza nell’agenda della salute globale; tuttavia, questi finanziamenti spesso non tengono pienamente conto dell’epidemiologia locale nei paesi beneficiari (8). A titolo di esempio è interessante ricordare come la Bill & Melinda Gates Foundation finanzi per l’88% dei suoi fondi istituzioni del Nord del mondo; ancora, nel campo della lotta alla tubercolosi, benché nei paesi a risorse limitate si concentrino il 98% dei casi di malattia, nel 2020 il National Institute of Health, principale finanziatore globale per la ricerca sulla TBC, ha attribuito direttamente a questi paesi solamente il 7 % del budget previsto (9).
Dalla decolonizzazione alla supremazia bianca: le vere cause alla radice del problema
Nonostante gli impegni concreti della salute globale nel perseguire equità, giustizia e sviluppo, i paesi ad alto reddito hanno mantengono una posizione di supremazia rispetto ai paesi beneficiari. Sebbene le manifestazioni iniziali della mentalità di supremazia bianca siano state mitigate con l’indipendenza politica del XX secolo, esistono infatti ancora evidenti disuguaglianze tra i paesi a basso reddito e quelli ad alto reddito, sia nel campo della salute globale che in altri settori. Questa mentalità di supremazia bianca ha creato un sistema che garantisce ai bianchi un migliore accesso all’istruzione, alla salute, alla sicurezza, alla casa, ai prestiti e a sistemi giudiziari equi. Poiché questa mentalità è la radice del problema, il termine “decolonizzazione” dovrebbe forse essere sostituito dal concetto di “eliminazione della mentalità della supremazia bianca” (10).
Riconoscere questa eredità e assumersene la responsabilità dovrebbe essere il primo passo per intraprendere una roadmap volta ad affrontare la questione e costruire azioni collettive di cambiamento.
Affrontare il tema della decolonizzazione in salute globale implica dunque una trasversalità di ricerca e pratica, tra cui fondamentale risulta essere l’azione politica. La decolonizzazione in ambito della salute globale, infatti, non riguarda solamente la ricostruzione delle conoscenze fondamentali, né rappresenta una semplice parte di una guerra culturale. Come sostenuto da Horton R (11), non può essere ridotta a una chiamata alla “rivoluzione” in senso stretto. Horton richiama le parole dell’ex rivoluzionario e presidente del Ghana Kwame Nkrumah che nel suo libro del 1965 “Neocolonialism: the Last Stage of Imperialism“, ricorda la necessità di riallineare il mondo in modo che coloro che sono vittime impotenti di un sistema nel presente possano in futuro esercitare una pressione contraria. Gli anti-globalisti e i governi nazionalisti oggi temono questo “riallineamento mondiale”, e cercano di consolidare le attuali gerarchie per mantenere il proprio potere e la propria influenza. Decolonizzare la salute globale, continua Horton, significa sfidare e rimuovere queste gerarchie, redistribuendo potere e influenza a tutti i livelli della governance globale, dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU ai vertici delle istituzioni sanitarie globali. Fondamentalmente, la decolonizzazione implica un impegno per eliminare il razzismo sistemico e trasformare il ripensamento del mondo in un progetto politico orientato al futuro.
Anche i movimenti sociali dovrebbero svolgere un ruolo cruciale nel cammino verso la decolonizzazione della salute globale. Le pratiche di salute globale, figlie di un sistema neo-coloniale, trovano affinità con altri grandi temi civili dell’era moderna, condividendo meccanismi di ingaggio simili. Ad esempio, il capitalismo riesce a farsi desiderare dagli sfruttati, facendoli sentire come futuri ricchi anziché attuali poveri. Analogamente, il patriarcato concede privilegi a certe donne con ruoli apicali, mantenendo altre in condizioni di sudditanza economica e sociale. I processi di cooperazione “sbilanciata” tra donatori e beneficiari possono analogamente preservare uno stato di “sudditanza” interiorizzata nei beneficiari, ostacolando l’autodeterminazione nei sistemi socio-sanitari locali. È necessaria, pertanto, una presa di coscienza di ogni categoria “fragile” all’interno di questi meccanismi. Il movimento per la decolonizzazione della salute globale può trarre vantaggio dall’unirsi ad altri movimenti sociali progressisti che mirano a un cambiamento sistemico basato sull’equità, come i movimenti femministi. Questo è il motivo per cui oggi si tende a parlare di femminismo intersezionale, che riconosce e combatte le sovrapposizioni di varie forme di discriminazione e disuguaglianza (12).
Che futuro ci sarà per la Salute Globale?
Come richiamato dal titolo di un editoriale del Lancet a firma dell’esperta di salute pubblica Abimbola S, la domanda che sorge spontanea a questo punto è: la salute globale continuerà ad esistere anche dopo la sua decolonizzazione? Il tessuto sociale e culturale della supremazia alimenta i meccanismi di iniquità e ingiustizia che la salute globale cerca di combattere. Secondo l’autrice dell’articolo, è impensabile immaginare una salute globale in grado di esistere dopo il processo di decolonizzazione auspicato, se non radicalmente cambiata. L’autrice conclude che se il futuro della salute globale rimanesse lo stesso, con qualche cambiamento superficiale per mascherare la supremazia, sarebbe un fallimento. Tuttavia, se il futuro comportasse una trasformazione radicale, la salute globale sarebbe irriconoscibile e potremmo persino doverle dare un nuovo nome (13).
La decolonizzazione della salute globale è strettamente legata alla priorità internazionale del raggiungimento della copertura sanitaria universale (UHC) come indicato dagli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile SDG 3.8. Questo obiettivo è lontano dall’essere raggiunto, anzi negli ultimi anni (anche a causa della pandemia e delle guerre) c’è stata una chiara regressione: 4,5 miliardi di persone nel mondo non hanno accesso alla maggior parte dei servizi essenziali e 2 miliardi di persone affrontano spese catastrofiche per curarsi. L’obiettivo dell’UHC richiede un impegno politico autentico, ma molti paesi vedono ancora l’UHC come un tema solo sanitario. Un’altra barriera verso la UHC è la protezione finanziaria: colmare questa lacuna implica di allineare meglio le risorse, affrontare le inefficienze e mobilitare fondi nazionali. Gli sforzi globali frammentati ostacolano i progressi, con governance e finanziamenti incoerenti che trascurano settori essenziali come le malattie non trasmissibili e le cure primarie. Infine, per rafforzare l’advocacy per l’UHC serve una comunicazione chiara e coerente, in grado di fare leva sulla volontà politica verso l’obiettivo comune (14). Le azioni necessarie per avanzare nel processo di decolonizzazione della salute globale sono multisettoriali e richiedono impegni congiunti da parte dei paesi beneficiari, dei paesi donatori e delle organizzazioni coinvolte.
Formazione e Risorse Umane
E’ cruciale che la formazione e l’educazione accademica promuovano il cambiamento. È necessario colmare il divario esistente nei contributi di ricerca nel campo della salute globale, favorendo lo sviluppo di un’intelligenza locale. L’Africa, che rappresenta il 24% del carico globale di malattie, ha solo il 3% della forza lavoro sanitaria globale e contribuisce solo con l’1% della ricerca medica (15).
Finanziamenti
Uno studio sui finanziamenti sanitari in Africa mostra un aumento dei fondi esterni negli ultimi 20 anni, passati dal 5% al 9% (16). Sebbene utili, tali fondi frammentano il sistema e riducono equità e sostenibilità, influendo sulla copertura sanitaria universale. Programmi verticali dei donatori limitano l’integrazione nei sistemi sanitari, con duplicazioni di funzioni e spostamento di risorse. Nei paesi a basso-medio reddito, il 57% della spesa sanitaria è destinato agli stipendi, spesso insufficienti per altri strumenti necessari. Inoltre, il 70% degli aiuti esteri è destinato a malattie infettive, trascurando le malattie croniche e non trasmissibili, creando ulteriori disuguaglianze (17). Senza una reale ridistribuzione delle responsabilità e dei salari, la pratica del finanziamento mantiene la dipendenza dei paesi beneficiari. È fondamentale, pertanto, ripensare le modalità di finanziamento e l’architettura dei piani economico-finanziari.
Il Ruolo delle Istituzioni
Come riportato in un recente articolo del BMJ Global Health (18), gli organi deputati al lavoro in salute globale nei paesi donatori dovrebbero intraprendere azioni concrete per contribuire al movimento di decolonizzazione:
- I vertici delle organizzazioni sanitarie globali dovrebbero includere persone con competenze specifiche nel paese di interesse e con esperienza diretta delle principali problematiche sanitarie. Questi organi dovrebbero essere caratterizzati da diversità di pensiero, genere, background sociale, geografico ed etnico, con una selezione trasparente che coinvolga le parti interessate.
- Decentralizzare l’allocazione delle risorse e la progettazione dei programmi per coinvolgere meglio le comunità beneficiarie. Integrare la conoscenza locale, adattando e incorporando pratiche e culture locali nelle valutazioni e nelle soluzioni.
- Assicurarsi che i bandi di selezione seguano criteri legati ad attributi locali, come competenze dei partner e dei professionisti coinvolti, anni di vita e lavoro nel paese, conoscenza delle lingue locali e risultati di collaborazioni a lungo termine.
- Garantire una distribuzione geografica più equa delle risorse – inclusi personale e uffici – e del potere decisionale, riflettendo l’area geografica delle organizzazioni.
Conclusioni
Nel mondo immaginato privo di retaggi coloniali, come ricordato nell’articolo della prof.ssa Abimbola, la cooperazione bidirezionale tra “Nord” e “Sud” del mondo garantirà pari opportunità di lavoro, ricerca e progettualità. Le esperienze tecniche e culturali dei paesi del Sud del mondo verranno applicate nei contesti dei paesi del Nord del mondo che diverranno i nuovi beneficiari, per affrontare le tematiche che colpiscono le comunità in fragilità sociale e di salute. Le sedi principali delle istituzioni della salute globale troveranno sede nei paesi del Sud del mondo e i finanziamenti saranno gestiti in autonomia.
E’ fondamentale richiedere una parte attiva di responsabilità anche agli attuali LMICs. I beneficiari devono combattere dall’interno la struttura corrotta e iniqua che spesso governa le istituzioni. Questo impegno richiede un cambiamento nelle strutture di potere esistenti, con un ruolo attivo e determinato da parte delle comunità locali per riformare e rafforzare i propri sistemi istituzionali, promuovendo trasparenza e responsabilità. Solo attraverso un cambiamento interno, supportato dalla cooperazione internazionale, si potrà realizzare una vera decolonizzazione della salute globale
Maria José Caldés, Centro Salute Globale, Regione Toscana.
Gabriele Cerini, Scuola di Specializzazione in Igiene e Medicina preventiva, Università di Firenze
Bibliografia essenziale
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Maria José Caldés e Gabriele Cerini
4/11/2024 https://www.saluteinternazionale.info/
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