Per un reddito di solidarietà climatica

I rider che attraversano le città anche in piena emergenza meteo ripropongono il tema del rapporto tra lavoro e vita. Per affrontare il quale servono nuove misure di welfare

Le immagini di ciò che è accaduto in Spagna, con centinaia di morti travolti dall’alluvione, stanno terrorizzando il mondo intero. Tutto ciò a poche giornate di distanza dalla terza alluvione in meno di due anni in Emilia Romagna. 

Sabato 19 ottobre, in poco più di qualche ora, una quantità di pioggia pari a quella che fino a qualche anno fa sarebbe caduta nell’arco di mesi, ha letteralmente travolto ogni tentativo compiuto negli scorsi mesi dall’amministrazione comunale per contenere le piene dei canali e dei torrenti che attraversano la città di Bologna. Non è una coincidenza se, già nelle ore immediatamente successive all’alluvione, il sindaco di Bologna Matteo Lepore ha sottolineato la necessità di ripensare l’intera infrastruttura idraulica della città, evidentemente figlia di un’epoca diversa da quella che stiamo vivendo e inadeguata alle sfide di oggi. Semmai ce ne fosse ancora bisogno, la frequenza con cui fenomeni atmosferici di questo tipo tendono a ripetersi sono il segnale che non si tratta più di semplici eventi eccezionali, ma è il sintomo del cambiamento climatico in atto, destinato a peggiorare nel tempo. Una nuova, drammatica, normalità che non è stata evitata nei decenni passati e che oggi ci presenta il conto imponendo un profondo ripensamento del nostro modo di vivere, soprattutto in territori come l’Emilia-Romagna che ci appaiono sempre più fragili. Per affrontare l’emergenza climatica, però, non c’è solo da adeguare le infrastrutture idriche e le strutture urbane delle nostre città, ma è necessario pensare a misure che possano affrontare con efficacia anche le sfide economiche e sociali che pone. 

I rider navigano nella città

Tra le immagini simbolo di questa alluvione vi sono sicuramente le decine di foto di rider che, proprio mentre l’acqua travolge la città di Bologna, si trovano impegnati a «navigare» nella città, sfidando la furia delle acque, pur di riuscire a completare l’ordine di consegna assegnatogli. 

La sfortuna ha infatti voluto che la piena avvenisse proprio di sabato sera che, per città metropolitane come Bologna, è uno dei turni più affollati per i rider dato che è proprio in quelle ore che si concentra molta della domanda settimanale del servizio. Così, mentre in città imperversavano le piogge e le allerte meteo venivano diffuse da ogni canale istituzionale, il food delivery ha conosciuto un picco di domande, mostrando alle finestre dei bolognesi il paradosso di una città in preda al disastro climatico, ma con le strade affollate da «eroici» ciclofattorini. Certo, qualche rider ha poi raccontato che nella giornata vi sono state anche laute mance e una maggiorazione offerta dalle piattaforme del 10%, ma come dare un prezzo al rischio a cui andavano incontro?

È quindi comprensibile l’indignazione di molti che, nelle giornate successive, hanno indirizzato la propria rabbia nei confronti di «consumatori irresponsabili» che, senza alcun tipo di clemenza, hanno deciso di non mancare il consueto appuntamento con il sushi del sabato sera anche in una giornata come quella. Tuttavia, anche puntare il dito nei confronti di presunti consumatori irresponsabili serve a poco, se non a farci sentire un po’ più puliti e un pò più responsabili. Non è infatti la prima volta che a fronte di disastri climatici (siano esse alluvioni o pandemie) emerge una parte di lavoro costretta a non interrompere mai il flusso, anche a costo di mettere a repentaglio la propria vita. Avevamo iniziato a ragionare su questo paradosso con Gianluca de Angelis durante la pandemia proprio qui, osservando come i disastri ecologici, in quel caso il Covid-19, avesse spaccato il mondo del lavoro in due, facendo emergere una parte di lavoratrici e lavoratori costretti a non fermarsi mai, a sacrificarsi e ad accettare il rischio del contagio perché tutto il resto possa continuare senza turbolenze. Ciò non ha a che fare con il destino, né con la «cattiveria della gente», ma con una particolare vulnerabilità sociale che affligge i rider (e non solo), frutto delle relazioni sociali ed economiche che compongono il nostro modello di sviluppo. 

A costringere centinaia di rider a sfidare la furia delle acque è infatti il ricatto lavorativo in cui si trovano, non solo privati dei più basici diritti fondamentali ma spesso costretti da un regime dispotico che, in caso di rifiuto dell’ordine o di «sloggamento», li vede soggetti a penalizzazioni che possono compromettere anche la possibilità di guadagni futuri con la piattaforma. È questa vulnerabilità sociale che, in scenari di disastro climatico, li trasforma in soggetti sacrificabili per poter mantenere intatto l’ordine sociale nel quale viviamo, per sentirci rassicurati dalla possibilità di non rinunciare alle nostre abitudini quotidiane anche se fuori il mondo, letteralmente, sta crollando. «È più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo» scriveva Mark Fisher nel suo Realismo Capitalista, ed è in questo paradosso tipico dell’era tardoliberista che vanno ricercate le ragioni di ciò che è accaduto nelle strade di Bologna sabato 19 ottobre. 

Chi paga il conto del cambiamento climatico?

Insomma, mi pare che questa vicenda faccia emergere un’angolatura del nesso tra ecologia e lavoro, tra cambiamento climatico e trasformazioni del lavoro, forse meno esplorata di altre. Mentre il clima cambia, i disastri ambientali si fanno sempre più frequenti e il mondo esterno diventa un luogo sempre più ostile, emerge infatti una parte di lavoratori e lavoratrici costretti a misurarsi più di altri con i costi – umani ed economici – del cambiamento climatico. Ciò non riguarda solo chi opera nelle strade della città, ma tutte quelle migliaia di lavoratori e lavoratrici impegnati in servizi, come quelli legati alla cura delle persone o quelli inseriti nell’ormai celebre lista dei «settori fondamentali», che non conoscono pause. Ma la pandemia ci ha già insegnato che non è soltanto la natura del lavoro a determinare la natura «fondamentale» del settore, a costituire un flusso produttivo che non può conoscere rallentamenti neanche di fronte a disastri climatici. 

Un dato che mi sorprese particolarmente durante la pandemia fu quello delle denunce per infortunio legate al Covid-19 diffuse dall’Inail. Nel caso dei lavoratori della logistica, questi rappresentavano poco più dell’1% del totale delle denunce di infortunio per Covid-19, ma quasi il 10% di quelle con esito mortale. Un dato che sembra offrire un’unica possibile interpretazione secondo cui molti di questi lavoratori e lavoratrici hanno continuato a lavorare nonostante il contagio, giungendo alla denuncia per infortunio soltanto nei casi più gravi. Non è quindi soltanto l’oggetto del proprio lavoro a far sì che non ci si possa mai fermare. Come per i rider, sono migliaia quei lavoratori e lavoratrici, talvolta impegnati in rapporti di lavoro autonomi e parasubordinati, o operanti nella cosiddetta economia informale, che sono costretti a non fermarsi mai a causa della propria vulnerabilità sociale. Per molti di loro, pagati a giornata quando non a cottimo, basta anche qualche settimana di non lavoro a fare la differenza nel riuscire a pagare l’affitto, nel permettersi cure sanitarie, o nel mandare le rimesse alle proprie famiglie nei paesi d’origine. È su di loro che grava il prezzo più alto che il mondo del lavoro deve pagare nell’epoca del cambiamento climatico. 

Sottrarsi al ricatto tra il salario e la vita

Come affrontare quindi questa contraddizione emergente? Quali sono le misure che possono essere prese per contrastare le conseguenze del cambiamento climatico sul lavoro senza che nessuno venga lasciato indietro? 

Per quanto riguarda l’ambito delle piattaforme digitali, una misura lungimirante è quella contenuta nella «Carta dei Diritti dei Lavoratori Digitali nel Contesto Urbano» firmata dalla città di Bologna, dalle sigle sindacali e da (poche) piattaforme. Come ha fatto notare Riccardo Mancuso della rete RiderxIDiritti, questa misura dà la possibilità all’amministrazione comunale di sospendere il servizio nei casi in cui viene minacciata l’incolumità di lavoratori e lavoratrici. Una misura pensata non solo per casi come quello di sabato 19 ottobre, ma anche per quelle giornate dove l’alta densità di particelle di polveri fini nell’aria, o anche il caldo asfissiante che è ormai una caratteristica delle nostre estati, minaccia la salute di chi lavora. Purtroppo, come fa notare ancora Mancuso, questa norma non è stata attivata durante la serata di sabato 19 ottobre, anche a causa di una perdita di efficacia dei processi di sindacalizzazione nel settore che, inevitabilmente, trasformano qualsiasi accordo in lettera morta. Certo, come è noto, la carta di Bologna ha anche diversi limiti strutturali, legati all’assenza della firma di molte delle più note piattaforme di food delivery, ma avrebbe potuto giocare il suo ruolo nell’indirizzare la popolazione ad adottare comportamenti adeguati alle emergenze climatiche, che non riguardano soltanto il salire nei piani alti o l’evitare di sostare nei pressi dei corsi d’acqua, ma anche rinunciare a servizi ormai pienamente entrati nelle nostre abitudini e che mettono a repentaglio la vita di chi li fornisce. 

Tuttavia, non è questo l’unico limite di una misura di questo tipo. Come ha fatto notare qualche rider in questi giorni, ciò risolve solo in parte il problema di chi, in caso di disastro climatico, si trova di fronte al ricatto tra lo stipendio e la vita. Nell’ottica di una transizione giusta, nella quale nessuno viene lasciato indietro, appare inevitabile anche ragionare di nuove misure di welfare in grado di sottrarre questi lavoratori e lavoratrici da un ricatto inaccettabile. Del resto, già durante la pandemia, abbiamo assistito a misure che hanno garantito un supporto economico forfettario anche a lavoratori autonomi e parasubordinati. Un bonus, come venne definito all’epoca per sottolineare la natura eccezionale della misura, erogato a queste tipologie di lavoratori che aveva come fine proprio quello di garantire a tutti una copertura minima con cui far fronte alle difficoltà della pandemia, a prescindere dalla natura del loro rapporto di lavoro. Per essere però all’altezza delle sfide climatiche del nostro tempo, non basta ragionare di misure straordinarie, ma è necessario mettere in campo un reddito di solidarietà climatica che abbia come fine non solo quello di garantire un sostegno economico universale, ma anche di sottrarre la parte del lavoro che più paga queste conseguenze dalla necessità di scegliere tra il salario e la salute. 

Per quanto una siffatta proposta possa far irritare i liberali che abbiamo già visto in opera contro il reddito di cittadinanza, si tratta di una misura che punta alla costruzione di un modello di sviluppo sostenibile, parte di un più generale processo di riorganizzazione economica e istituzionale che richiede, però, diversi decenni prima di riuscire a mitigare con efficacia le conseguenze del cambiamento climatico. Possiamo però già immaginare la critica che gli ultimi pasdaran del neoliberismo possono approntare: ma chi paga questo reddito? La risposta è che devono pagarlo i responsabili del cambiamento climatico, in primis le aziende che più di altre negli scorsi decenni sono state responsabili di emissioni e di consumo di suolo e che stanno facendo ancora troppo poco per rimediare. In questo modo il reddito di solidarietà climatica potrebbe diventare anche un ulteriore incentivo verso una transizione ecologica all’altezza delle sfide sociali e ambientali che emergono in modo sempre più evidente di fronte al nostro orizzonte. 

Marco Marrone, ricercatore in sociologia all’Università del Salento, è uno dei fondatori di Riders Union Bologna.

9/11/2024 https://jacobinitalia.it/

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