Disastro della Caffaro di Brescia: dopo vent’anni, finalmente, “chi inquina paga”
© Andrea Campanelli / Fotogramma
A oltre vent’anni dalla “scoperta” del gravissimo inquinamento da diossine, Pcb e altre sostanze tossiche dell’industria chimica, una recente sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea fa chiarezza sugli oneri delle bonifiche: la multinazionale LivaNova dovrà pagare oltre 450 milioni di euro al ministero dell’Ambiente. Un risultato storico merito anche della caparbietà dei comitati ambientalisti
Nel Paese dei furbi non sempre le ciambelle riescono col buco. E quello che è accaduto nei siti inquinati Caffaro di Brescia, Colleferro e Torviscosa è davvero clamoroso.
Il disastroso inquinamento da diossine, Pcb e altre sostanze tossiche di una parte della città di Brescia da parte dell’industria chimica Caffaro, com’è noto, fu “scoperto” il 14 agosto del 2001.
Ora, dopo oltre vent’anni, un’importante sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea del 29 luglio 2024 dovrebbe porre fine alla furbata, tipicamente italiana, messa in atto da chi ai tempi controllava la Snia-Caffaro per sottrarsi agli oneri della bonifica. La Corte Ue, infatti, conferma la validità delle innovative e coraggiose sentenze d’appello del Tribunale civile di Milano, del 2019 e 2021, che condannavano la società LivaNova a versare al ministero dell’Ambiente 453.587.327,48 euro per le bonifiche dei tre Sin (Sito di interesse nazionale) Caffaro, di cui 249.985.948,46 euro per il Sin di Brescia.
Ma che cosa ha a che fare la multinazionale londinese di apparati biomedicali LivaNova Plc con la vecchia Snia-Caffaro, azienda chimica fallita da 15 anni? Per capirlo dobbiamo riavvolgere il nastro.
La Caffaro, da tempo assorbita nella Snia, nel 2001 era controllata dalla finanziaria Hopa, costituita da esponenti della nuova finanza emergente passati alla storia per essersi definiti, appunto, “i furbetti der quartierino”. Hopa, scoperta la falla imprevista del gravissimo inquinamento prodotto da Caffaro, dopo aver tentato inutilmente di venderla, architettava un’operazione societaria che porterà a conclusione tra il 2003 e il 2004: Snia venne scissa in due società distinte, Snia-Caffaro, comparto chimico con i conti in rosso, da una parte, e Sorin, comparto biomedicale con circa 500 milioni di euro di attivo, dall’altra, ricollocate quindi separatamente in Borsa come nuove società il 2 gennaio 2004.
In questa operazione, cruciale per il tema di “chi inquina paga”, era facile prevedere un abbandono di Snia-Caffaro, oberata da deficit strutturale e dallo stato di grave inquinamento, su di un binario morto, che effettivamente la porterà alla liquidazione nel 2009, rendendola, quindi, insolvibile e incapace a far fronte al danno ambientale a suo tempo provocato. Mentre, invece, Sorin, di successo in successo, nel 2015, si fonderà con Cyberonics per formare la multinazionale LivaNova con sede a Londra.
Mesi prima della fatidica scissione, il 23 settembre 2003, i comitati ambientalisti chiedevano formalmente al Comune di Brescia di quantificare i danni subiti e segnalarli alla Consob deputata a vigilare sulle operazioni di Borsa. Ma l’autorità competente non fece nulla e solo i cittadini, tramite il loro legale, si attivarono presso la Consob, che rese di dominio pubblico il contenzioso in atto tra Comune di Brescia e Snia-Caffaro per gli oneri della bonifica.
Dopo oltre dieci anni, in un processo in sede civile avviato dal commissario liquidatore del fallimento Snia-Caffaro, governo e Comune di Brescia sono, però, costretti a occuparsi di nuovo della patata bollente. Sennonché il governo si presenta al Tribunale civile di Milano “a mani nude”, senza argomentazioni e documentazione tecnica adeguata, cosicché il risultato della prima sentenza del 26 ottobre 2016 è un buco nell’acqua.
Risultato atteso, visto che il 4 marzo 2016 il Comune di Brescia aveva chiesto di azzerare quasi del tutto il perimetro del Sito, riducendolo al solo stabilimento privato, causa del disastro, e ad alcuni parchi pubblici, risolvendo così alla radice il grave disastro ambientale, cancellandolo anche ufficialmente; iniziativa coerente con la nuova valutazione dell’Istituto superiore per la ricerca e la protezione ambientale (Ispra) del ministero dell’Ambiente del settembre 2016 degli oneri per la bonifica del Sin di Brescia, quasi azzerata: dalla precedente del 2009 di 1.553.807.700 euro “a un valore, che si attesta tra un minimo di euro 43.911.290 e un massimo di euro 95.598.690”.
Un comportamento autolesionista e assurdo dell’autorità competente che trova una spiegazione “razionale” ancorché inaccettabile. Infatti il puzzle si completa associando a questi atti apparentemente illogici l’offerta avanzata nell’aprile 2015 da Sorin per un “parco nella Caffaro” di Brescia. Si trattava di una transazione extragiudiziale consistente nella messa in sicurezza del solo sito industriale Caffaro (probabilmente per circa 50 milioni di euro) che avrebbe messo una pietra tombale sul contenzioso, senza prevedere nulla per i cittadini inquinati di Brescia e per gli altri due siti di Torviscosa e Colleferro (sarebbe stato, come si vedrà, uno “piccolo” sconto del 90%).
Mentre era evidentemente d’accordo il governo ed entusiasta il sindaco di Brescia, i comitati ambientalisti si misero di traverso, con una denuncia del 30 marzo 2016 contro il tentativo di quasi azzeramento del Sin Brescia-Caffaro e con quella formalizzata il 25 maggio 2018 alla Commissione europea. E così anche la seconda “furbata” fallì, probabilmente per il timore di uno scandalo non controllabile.
E infine i “furbetti” vanno a sbattere contro il famoso “giudice a Berlino” di Bertolt Brecht. La Corte d’Appello di Milano, prima sezione, il 5 marzo 2019, ha riaperto clamorosamente la partita ed è riuscita a sbrogliare l’intricata matassa che aveva impedito di chiedere conto, in termini di oneri per la bonifica, a coloro che dovevano farsi carico del disastro ambientale perpetuato nei tre siti Caffaro. La sentenza segna un importante e inedito successo nell’attuazione del principio “Chi inquina paga”.
Per i giudici Domenico Bonaretti, Maria Iole Fontanella e Angela Scalise non si può parlare di mancata responsabilità nell’inquinamento dell’ultima compagine societaria, Sorin e quindi LivaNova, essendo Snia “sempre stata consapevole delle proprie responsabilità ambientali” e inoltre l’inquinamento della falda, a causa dei tanti veleni dispersi, è proseguito in modo “permanente” e addirittura sarebbe ancora in atto, per cui non può scattare nessuna prescrizione trattandosi di reati di disastro ambientale.
Infine, a proposito dei passaggi societari da Snia, alla scissa Sorin e quindi all’attuale LivaNova, i giudici citano la Cassazione: “Per un danno ambientale può essere chiamato a rispondere anche un soggetto che non l’ha prodotto: nel caso in cui il proprietario dello stabilimento inquinante ceda l’azienda a un terzo, quest’ultimo subentrerà in tutti i rapporti attivi e passivi”.
Quindi, poiché “Snia e Sorin devono ritenersi corresponsabili dei danni arrecati ai tre siti”, LivaNova viene chiamata ad assumersi gli oneri delle bonifiche fino ad un massimo di 500 milioni, pari all’attivo, all’epoca, di Sorin. Di nuovo, il 28 ottobre 2021, la stessa Corte d’Appello di Milano, recepisce la perizia del consulente tecnico d’ufficio e quantifica gli oneri posti a carico di Sorin nelle dimensioni di circa 450 milioni di euro.
A questo punto rimane da superare lo scoglio della Cassazione, cui ricorre LivaNova accampando il fatto che nel 2003-2004, all’atto della scissione di Sorin, non erano stati definiti quantitativamente gli oneri delle bonifiche che quindi non potevano essere retroattivamente a essa addebitati. Nel dubbio, di fronte ad una sentenza così innovativa, la Cassazione chiede il conforto della Corte di giustizia dell’Unione europea, che ribadisce: “La regola della responsabilità solidale delle società beneficiarie si applica non soltanto agli elementi di natura determinata del patrimonio passivo non attribuiti in un progetto di scissione, ma anche a quelli di natura indeterminata, come i costi di bonifica e per danni ambientali che siano stati constatati, valutati o definiti dopo la scissione di cui trattasi, purché essi derivino da comportamenti della società scissa antecedenti all’operazione di scissione”. Dunque LivaNova deve pagare, come stabilito dalla Corte d’Appello di Milano.
Un risultato straordinario e insperato, merito anche della caparbietà dei comitati ambientalisti, che può essere importante per gli altri siti “orfani” dove gli inquinatori se la son data a gambe (e non sono pochi) e che dovrebbe insegnare qualcosa anche a governo e Comune di Brescia (una piccola autocritica?).
Per Brescia, ovviamente, le nuove risorse devono servire, finalmente, anche alle bonifiche e ai ristori dei danni patiti dal popolo inquinato, ovvero ai cittadini vittime del disastro Caffaro, finora abbandonati senza alcuna cura da parte dell’autorità competente.
Storico ed esperto ambientale
15/11/2024 https://altreconomia.it/
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