Le lotte dei rider contro il capitalismo delle piattaforme

  1. Introduzione

Proseguendo la nostra analisi del capitalismo delle piattaforme affrontiamo il lavoro di Marco Marrone Rights Against the Machines! Il lavoro digitale e le lotte dei rider dove si provano ad analizzare i risultati generati dallo sviluppo delle piattaforme digitali a partire dal punto di vista dei lavoratori e delle loro lotte. Il focus del libro è sul food delivery e i rider che lavorano per piattaforme come Deliveroo e Glovo. Essi hanno avuto il coraggio di denunciare le false mitologie del lavoro digitale mostrando a tutti una cruda realtà fatta di sfruttamento del lavoro da parte di queste piattaforme che sono sempre più importanti nelle nostre vite, infatti sono strumenti utilizzati ormai quotidianamente dalla popolazione per ordinare pasti, come nel caso trattato, oppure organizzare viaggi e prenotare la visita da un medico. Si tratta di infrastrutture digitali con cui ci interfacciamo per lavorare, consumare o passare il nostro tempo libero e capaci di offrire una sempre maggiore varietà di beni e servizi. Queste piattaforme si presentano come una forma di disruptive innovation consentita dalle inedite possibilità aperte dalle innovazioni tecnologiche che si inseriscono alla perfezione nella narrazione sui processi di digitalizzazione, la quale oscilla tra diffusioni di inquietudini circa scenari di piena automazione e alta disoccupazione da un lato e prospettive seduttive su un mondo post-capitalista basato su rapporti di collaborazione e condivisione delle proprietà. Le lotte dei rider fanno piazza pulita di questa retorica dimostrando la sua totale funzionalità rispetto alla copertura dello sfruttamento del lavoro fondamentale anche per la loro ascesa. L’obiettivo di Marrone è utilizzare le lotte dei rider per evidenziare le ambiguità dei processi di digitalizzazione. Esse hanno infatti dimostrato da un lato l’inconsistenza delle promesse di un’era di liberazione e condivisione grazie ad internet mentre dall’altro hanno mostrato a chiunque lo voglia vedere un legame tra lo sviluppo delle piattaforme, le frontiere estrattive del capitale e la continua precarizzazione del mercato del lavoro iniziata oltre 30 anni fa. Le piattaforme vengono lette da Marrone come una risposta del capitalismo alla crisi del 2007-2008 capaci di sfruttare le conseguenze sociali prodotte da decenni di austerità ed egemonia neoliberista, creando il terreno ideale per la loro ascesa. Pensiamo solamente alla progressiva erosione delle tutele lavoristiche e la distruzione del welfare state che hanno spinto molte persone ad impegnarsi in lavori occasionali per soddisfare i propri bisogni riproduttivi e superare le difficoltà prodotte dalla crisi. Inoltre le piattaforme sono impegnate ad assorbire pezzi dell’economia informale e di conseguenza non è casuale sé i loro servizi riguardano attività come la consegna del cibo, il lavoro domestico o gli affitti di breve durata, cioè tutte attività storicamente appartenenti alla sfera informale dell’economia urbana. Si tratta di un processo di accumulazione che spinge giovani precari, donne, lavoratori migranti, cioè quei soggetti che trovavano un rifugio dagli effetti della crisi del capitalismo nell’economia informale, nelle braccia delle piattaforme. 

Partendo dall’analisi del food delivery Marrone sostiene che esse spingono in avanti anche i meccanismi di outsourcing fino ad arrivare alla frantumazione del processo produttivo in singole micro-task svolte durante la consegna dal rider. Una simile trasformazione da un lato decentralizza la produzione ma dall’altro concentra il potere nelle mani delle piattaforme. Secondariamente questo settore mette in moto una continua fuga dalla subordinazione tramite le tecnologie digitali per perfezionare una strategia elusiva basata su un’ideologia giuridica che produce il ritorno del cottimo. In terzo luogo, dice Marrone, le piattaforme amplificano le retoriche smart e sull’auto-imprenditorialità tipiche della sfera etica e culturale del neoliberismo. Quindi più che una novità rivoluzionaria si tratta di una elaborazione di nuove modalità per riproporre vecchie logiche di sfruttamento.

  1. L’analisi del lavoro dei rider

Le piattaforme incidono notevolmente sul lavoro nonostante quello che dicono di loro stesse. Queste imprese rifiutano qualsiasi responsabilità nei confronti di tutti coloro che lavorano tramite la loro infrastruttura digitale, considerandoli lavoratori autonomi a cui fornisce gli strumenti della piattaforma per svolgere il proprio lavoro. Così queste piattaforme, classificabili come lean, possono vendere la promessa di nuove opportunità lavorative, senza capi e gerarchie aziendali e soprattutto capaci di garantire il massimo della flessibilità e dell’autonomia. Questo immaginario, sintetizzabile nell’etichetta del lavoretto, è messo in discussione dalle lotte dei lavoratori di piattaforma. Nel caso del food delivery le lotte dei rider hanno portato a galla le dinamiche di sfruttamento occultate dalle piattaforme e spinto policy makers e altri attori istituzionali ad intervenire per contenere le conseguenze negative portate dall’espansione dei cosiddetti lavoretti. Marrone aggiunge alle lotte dei rider nel food delivery alcune riflessioni teoriche per rafforzare la tesi secondo cui questo settore sia centrale per capire il funzionamento del capitalismo digitale. 

Come abbiamo già detto, non è casuale l’inserimento delle piattaforme in settori tradizionalmente associati all’economia informale come la consegna di cibo. Inoltre non si tratterebbe neanche del primo tentativo di organizzare simili servizi su ampia scala. Marrone infatti cita l’esempio dei dabbawala di Mumbai che già durante il dominio inglese dell’India organizzavano la consegna dei pasti negli uffici della metropoli indiana. La novità portata dalla piattaforma non è quindi nel business innovativo ma nella capacità di organizzare su larga scala attività tipicamente informali, frammentate e diffuse nei contesti urbani. Questa relazione tra piattaforme ed economia informale fa emergere la questione del rapporto tra sfera formale ed informale dell’economia. Nelle teorie economiche classiche l’economia informale veniva vista come un residuo di condizioni di sottosviluppo destinato a sparire con l’espansione del capitalismo a livello globale. Lo sviluppo del capitalismo è andato in un’altra direzione a partire dall’ascesa della globalizzazione che ha portato ad una crescita dei tassi di lavoro informale sia dove era già presente, come in India, sia nelle economie occidentali. Questo perché impiegare il lavoro informale porta ad una riduzione dei costi e di conseguenza è una leva fondamentale nella competizione economica globale, oltre ad essere, come già detto, un rifugio per ottenere un supporto materiale per persone socialmente vulnerabili messe ai margini del mercato del lavoro. Il confine tra economia formale e informale, quindi, non è definito e l’espansione del capitalismo trasforma l’economia informale in un terreno ideale per la sua espansione. Le piattaforme digitali, secondo una simile analisi, sono impegnate a formalizzare attività informali per mezzo della digitalizzazione della produzione. La digitalizzazione, dice Marrone, non è una semplice traduzione meccanica in chiave digitale delle modalità esecutive di queste attività informali perché si tratta di un modo per assorbirle dentro i circuiti capitalisti di valorizzazione, espandendo su di esse le logiche di controllo tipiche dell’industria capitalista. In breve, siamo davanti ad un processo di accumulazione digitale che utilizza le tecnologie per assorbire il valore generato dall’economia informale e in questo modo impediscono a coloro che sono impiegati in queste attività di accedervi liberamente. Quindi la prospettiva di Marrone ci porta a leggere l’ascesa delle piattaforme come l’esito di un processo di espansione del Capitale che mira alla messa a valore di pezzi dell’economia ai margini dei suoi interessi fino a questo momento. Le piattaforme sono uno dei modi più importanti utilizzati dal capitale per innovarsi e continuare ad accumulare ricchezza. Per questo motivo viene ripreso il concetto marxiano di accumulazione per legarlo a quello di accumulazione digitale. L’argomento è stato riportato in auge già da un’ampia letteratura post-coloniale che afferma come l’accumulazione originaria non sia un fenomeno circoscritto alla preistoria del capitale ma si ripropone ciclicamente in maniera continua durante lo sviluppo del capitalismo. Marrone a questo proposito cita Sanyal che si sofferma sulla dialettica marxiana esistente tra le fasi di produzione e di scambio delle merce di cui Marx parla nei Grundrisse e raccoglie, in seguito, nelle analisi sul funzionamento dei processi di accumulazione in cui viene ribadito come la sfera dello scambio, ovvero le logiche di funzionamento del mercato, imprime una pressione nei confronti della produzione che da un lato spinge ad intensificare la produzione e dall’altro si espande verso nuovi ambiti fino ad allora esclusi dalla produzione così da accrescere la diversità delle merci vendute. Queste dinamiche si innestano soprattutto nelle fasi di crisi dove emerge il blocco della produzione che spinge il capitalismo a guardare ai suoi margini per superare i suoi confini. Sanyal dice che è proprio nelle fasi in cui le comuni pratiche di produzione e scambio incontrano ostacoli insormontabili che il capitalismo guarda con interesse verso gli spazi pre-capitalisti dell’economia. Ciò che prima veniva ignorato o considerato una riserva per reperire forza lavoro e risorse a basso costo, ovvero l’economia informale, ora diventa centrale per superare la crisi. Questo genera una situazione paradossale: nei momenti di crisi, quando per i lavoratori diventa necessario l’accesso a fonti alternative per la propria sussistenza, queste fonti di reddito vengono assorbite dal capitale per le sue esigenze di espansione. La crisi da un lato blocca la produzione mentre dall’altro genera le condizioni necessarie per l’espansione a partire dalla costante formazione di una sovrappopolazione lavorativa, cioè un esercito industriale di riserva capace di conferire al capitale lo spazio di manovra necessario per l’innovazione e il superamento delle difficoltà imposte dal blocco della produzione. In corrispondenza delle crisi del capitalismo troviamo delle dilatazioni esponenziali dei processi di accumulazione che, tramite l’impiego del governo della macchina statale, riescono a ridisegnare sempre il confine tra economia formale ed informale. Il risultato è l’espansione del capitalismo a danno delle forme di organizzazione pre-capitaliste che riduce i margini di sussistenza degli individui costringendoli ad accettare condizioni salariali e lavorative sempre peggiori. Una volta affrontati questi argomenti marxiani Marrone analizza come opera l’accumulazione digitale.

Per prima cosa occorre comprendere che il processo di digitalizzazione di settori come il food delivery riguarda più la concentrazione del capitale necessaria per la formalizzazione del settore che il potenziale delle tecnologie digitali. La capacità delle piattaforme di attirare investimenti finanziari è alla base dell’ascesa di piattaforme come quelle del food delivery. Tuttavia, volgendo lo sguardo ai dati del mercato italiano tra il 2016 e il 2018, notiamo come esistano contraddizioni nel rapporto tra proventi di gestioni, perdite e gli investimenti degli shareholders. Nel periodo preso in considerazione i costi di gestione sono duplicati ma la maggioranza delle piattaforme ha chiuso l’anno in perdita, addirittura con un saldo inferiore a quello dell’anno precedente. Nonostante ciò i fondi degli shareholders sono aumentati in continuazione in maniera significativa. Questa contraddizione è solo apparente e può essere spiegata con l’esistenza di una fase originaria dell’accumulazione delle piattaforme in cui esse sono impegnate ad investire per costruire le condizioni necessarie per poter operare. La maggior parte delle uscite, inoltre, non derivano da investimenti in tecnologia e sviluppo oppure dai salari ma dalle spese in marketing e pubblicità, a conferma dell’ipotesi di Marrone. Siamo dentro una strategia che abbiamo già visto altrove, ovvero di crescita prima dei profitti. Le piattaforme che ora si trovano in competizione tra loro sono destinate a ridursi perché soltanto alcune di esse giungeranno alla fase del profitto in una situazione di quasi-monopolio. Il mercato del food delivery è altamente competitivo e spinge le imprese a conquistare spazi di mercato sempre maggiori favorendo un processo di sempre maggiore centralizzazione del capitale a discapito della regolazione economica sia in ambito lavorativo che in quello della redistribuzione fiscale ma anche tramite acquisizioni milionarie di possibili concorrenti. Tutto ciò spiega, dice Marrone, sia l’acquisizione di Foodora da parte di Glovo nell’autunno nel 2018 ma anche il saldo positivo di Just Eat nello stesso anno, cosa che la rende l’unica piattaforma in Italia a fare profitto. Di conseguenza anche in Italia nel food delivery siamo arrivati ad una fase oligopolistica che obbliga le piattaforme a mobilitare molte risorse per raggiungere e mantenere l’estensione delle proprie reti produttive. Il legame con il capitale finanziario, oltre ad essere centrale per l’ascesa delle piattaforme e la loro deriva verso una situazione di oligopolio, impatta anche sulla dimensione organizzativa del servizio. Esiste infatti un legame tra finanziarizzazione del capitale e precarizzazione del lavoro. Le aziende, con lo scopo di attrarre investimenti, finiscono per adottare dei modelli organizzativi conformi alle richieste del mercato che favoriscono il massiccio impiego di forza lavoro precarizzata. Marrone mostra come le quattro maggiori piattaforme di food delivery sono capaci di attrarre investimenti provenienti da gruppi finanziari come JPMorgan, Deutsche Bank o Intesa Sanpaolo. Essi sono fondamentali per garantirsi una posizione in grado di consentire la sopravvivenza della piattaforma ma per rispondere agli interessi di simili azionisti devono intensificare la lotta per conquistare nuovi spazi di mercato e adottare specifiche scelte organizzative. In questo modo emerge una competizione basata sulla compressione dei costi del lavoro e un profilo autoritario per quanto riguarda le relazioni industriali che porta a concentrazioni crescenti del capitale e messa a valore di figure del mercato del lavoro fino ad allora marginali. Marrone per supportare queste affermazioni ci mostra come l’immagine del rider proposta dalle piattaforme sia falsa. Non siamo davanti ad un’attività prevalentemente accessoria perché le evidenze empiriche, cioè il XVII rapporto annuale dell’INPS, dimostrano come i rider siano in maggioranza giovani e la maggioranza relativa di essi, cioè il 34%, usa questo lavoro come fonte principale del proprio sostentamento. Più recentemente sappiamo che dopo una prima fase in cui la maggior parte dei lavoratori di queste piattaforme erano giovani italiani, oggi la composizione si sta sempre più spostando verso l’impiego di lavoratori migranti. Queste dinamiche dipendono dalle condizioni sociali prodotte dalla crisi economica del 2007-2008 e dal seguente decennio di austerità che ha reso disponibile per queste piattaforme una consistente fetta di forza lavoro precaria da organizzare per mettere a valore le loro vulnerabilità sociali, dice Marrone. In questo modo si arriva a casi eclatanti come il sequestro per caporalato digitale di una società come Uber Eats per le modalità con cui reclutava forza lavoro migrante tra i richiedenti asilo. Questi lavori mantengono una loro attrattività per due motivi. Il primo è la loro relativa semplicità e il secondo, soprattutto per i migranti, è la possibilità di superare le barriere linguistiche. 

Marrone sostiene che l’impiego delle tecnologie digitali consente di espandere le piattaforme nel contesto urbano e di condizionare il governo e la rigenerazione del proprio esercito industriale di riserva. Tuttavia la tendenza messa in moto dalle piattaforme di sostituzione della forza lavoro italiana con forza lavoro migrante ha delle regioni che affondano le loro radici nei meccanismi di accumulazione propri di queste imprese. La costante generazione di una sovrappopolazione lavorativa e la sua differenziazione tramite rapidi turnover sono elementi centrali sia per l’accumulazione delle piattaforme che per l’impiego di questa eccedenza come strumento di governo della forza lavoro. Le piattaforme devono creare un ambiente favorevole per poter operare. Per raggiungere questo scopo bombardano i potenziali clienti con pubblicità mirata, contattano i ristoranti con agenti promozionali sul territorio per coinvolgerli nelle fasi iniziali della loro ascesa e infine attraggono i lavoratori con paghe dignitose su base oraria. In questo modo la piattaforma si stabilisce in città e instaura un rapporto di dipendenza, in particolare con i ristoratori, che porta progressivamente alla cottimizzazione del lavoro che passa dalla paga oraria alla paga a consegna. Questa fase coincide con la sostituzione dell’iniziale forza lavoro composta da precari e studenti con i migranti che, in assenza di alternative, rimangono inchiodati al rapporto di dipendenza con la piattaforma. La digitalizzazione del lavoro, quindi, ha sì portato ad una formalizzazione dei servizi di consegna del cibo ma ha prodotto pochi benefici per i lavoratori perché permangono le caratteristiche di povertà ed insicurezza tipiche del lavoro informale che vengono amplificate dalle scelte organizzative delle piattaforme. Il processo produttivo messo in moto dalle piattaforme di food delivery sfugge all’attuale quadro giuridico. I giuslavoristi ci dicono che l’impiego delle tecnologie digitali permette di coordinare su larga scala i servizi di consegna pur mantenendo un margine di flessibilità che consente alle piattaforme di eludere le tutele lavoristiche perché qualificano il rapporto di lavoro come di natura autonoma. In questo modo i rider sono esclusi da tutte le tutele nel lavoro e fuori dal lavoro, non potendo accedere alle tutele di tipo welfaristico. I rider, quindi, sono esclusi da tutti i benefici di una condizione di lavoro formalizzata ed essendo lavoratori autonomi si trovano a fare i conti con impieghi occasionali, salari non dignitosi e sono privati dei diritti di rappresentanza. Inizialmente, come abbiamo già detto, durante la fase di sviluppo delle piattaforme del food delivery vennero utilizzati contratti a progetto capaci di garantire l’accesso ad un livello minimo di contribuzione ma rapidamente la norma è diventata la collaborazione occasionale o, se veniva superato il limite annuale di 5000 euro, l’apertura della partita IVA. Il rider finisce per restare esposto alla pressione delle piattaforme oltre che ai rischi connessi all’attività in strada. Non a caso le prime lotte di questi lavoratori, come quelle a Bologna analizzate da Marrone, sono partite rivendicando tutele in caso di infortunio. Questa situazione è resa possibile dalla progressiva precarizzazione del mercato del lavoro che le piattaforme sfruttano perfettamente e, anzi, amplificano questi processi portandoli in contesti dove erano assenti. Un elemento chiave per poter far funzionare tutto questo meccanismo è la descrizione delle piattaforme come infrastrutture tecnologiche prive di ogni responsabilità nei confronti delle transazioni che avvengono al loro interno. Le piattaforme propongono una narrazione per cui loro non estraggono valore dal lavoro dei rider ma offrono semplicemente un servizio che consente al rider di svolgere in autonomia il servizio di consegna. In questo modo giustificano agli occhi delle istituzioni e dei lavoratori l’assenza di tutele lavoristiche. Una simile retorica si alimenta e trova legittimità anche spacciando il cottimo come un formidabile elemento di meritocrazia che premia il rider più veloce e punisce i fannulloni e in questo modo viene alimentata la competizione tra i lavoratori per la conquista del mercato messo a disposizione dalle piattaforme. Quindi da un lato le piattaforme di food delivery propongono l’idea che consegnare cibo sia un lavoretto da svolgere nel proprio tempo libero mentre dall’altro, dopo aver attirato i lavoratori con questa retorica, il rider finisce per essere integrato nell’ecosistema della piattaforme dove opera una pressione ad incrementare il livello di coinvolgimento del rider. La flessibilità finisce per sparire a causa dell’azione dell’algoritmo delle piattaforme, del cottimo e dell’esercito di riserva dei rider in costante espansione. Questa tendenza è confermata dal passaggio di molte piattaforme di food delivery al free login, cioè al superamento dell’organizzazione del lavoro per turni consentendo ai rider il libero accesso al servizio di consegna. Un altro elemento su cui Marrone si focalizza riguarda la capacità delle piattaforme di concentrare ricchezza nelle loro mani mentre spinge i lavoratori a mobilitare nella produzione le proprie risorse. Diversamente dal capitalismo industriale, i rider non solo sono costretti a mettere a disposizione la bicicletta, lo smartphone e tutti gli strumenti necessari per il loro lavoro ma devono anche esporsi a rischi molto importanti, per esempio quello di un incidente stradale senza avere a disposizione alcuna copertura organizzativa. 

Chiarito che per le piattaforme di food delivery i rider sono lavoratori autonomi, possiamo sostenere l’idea che questa condizione sia molto utile al capitalismo per assecondare le pulsioni dei processi di accumulazione grazie all’impiego delle tecnologie digitali per intensificare il lavoro. Esse permettono di organizzare il servizio di consegna in maniera più efficiente ma sono anche alla base di nuovi ed efficaci strumenti di governo della forza lavoro. Quindi le possibilità offerte dalle nuove tecnologie si traducono nella sollecitazione verso un maggiore coinvolgimento dei rider che rovescia la narrazione della flessibilità in un processo che rende il lavoratore sempre più funzionale alle esigenze della piattaforma. Ad esempio l’algoritmo utilizzato dalle piattaforme per l’organizzazione del servizio di consegna frammenta il lavoro in tante operazioni a partire dall’arrivo al ristorante per arrivare alla consegna al cliente e tutto ciò costringe il lavoratore ad interagire costantemente con l’applicazione messa a disposizione dalle piattaforme. Queste operazioni sono giustificate come necessarie per garantire la salute del rider ma, assieme alla geolocalizzazione del lavoratore, servono all’azienda per importare dall’industria pratiche di controllo e misurazione del lavoro. Inoltre la frammentazione non si limita ad efficientare il servizio di consegna ma, in combinazione con il cottimo, produce un furto di salario perché il rider non viene pagato nei momenti di attesa cioè il momento in cui attende l’ordine, quando lo ritira per la consegna e anche i momenti utilizzati dal lavoratore per interagire con l’applicazione. In questo processo vengono costantemente rilevati i dati della prestazione lavorativa che costruiscono la base informativa necessaria per far funzionare i meccanismi di ranking dei lavoratori. Il lavoro dei rider, infatti, è condizionato da un punteggio che è il risultato della velocità dei tempi di consegna, dell’affidabilità del rider e dalla disponibilità nel lavorare il fine settimana, cioè quando la domanda di lavoro è maggiore per le piattaforme. Questo è quanto ovviamente è noto ai rider perché Marrone sostiene ci possano anche essere improvvisi e immotivati abbassamenti delle statistiche determinati da indicatori occulti, arbitrari o addirittura da ritorsioni punitive. Questi punteggi determinano due effetti nei rider. Il primo è una pressione diretta che produce una forte intensificazione del servizio di consegna. I rider riportano di segnalazioni dell’applicazione per sollecitare una ripresa del lavoro in caso di rallentamento della consegna, sia sé ciò è dovuto a un incidente sia sé c’è la volontà da parte del rider di fare una breve pausa. A volte sono gli stessi rider, indirettamente sollecitati dalle piattaforme, ad accelerare i tempi di consegna per poter migliorare il proprio posizionamento nel sistema di ranking aziendale o perché devono guadagnare più soldi ed essendo pagati a cottimo devono raggiungere il più alto numero di consegna nel loro turno di lavoro che di solito è limitato a 4 ore. La gerarchizzazione prodotta dalle piattaforme porta ad uno stretto legame tra le possibilità di guadagno e la disponibilità del rider ad offrire una prestazione intensificata, scaricando sui rider tutti i rischi che ciò comporta. Il secondo effetto generato dal ranking è l’aumento delle disponibilità lavorative offerte dal rider alla piattaforme per migliorare la propria posizione. Un migliore posizionamento, infatti, consente di avere la priorità nella scelta del turno in alcune piattaforme di food delivery. Chi si trova nella parte bassa, invece, deve accontentarsi dei turni rimasti che sono i meno redditizi oppure deve provare ad ottenere qualche turno lasciato da altri rider e rimesso a disposizione dal sistema. Un simile meccanismo porta a lasciare i turni più redditizi solo a chi è meglio posizionato nel sistema di ranking ed ostacola chi si trova nella parte bassa della classifica nel recupero delle posizioni. La logica conseguenza è che il rider è costretto a programmare la propria intera esistenza a partire dalle esigenze produttive della piattaforma. Per questo motivo sono costretti a rinunciare al proprio tempo libero nel fine settimana. Con lo scopo di evitare un pericoloso declassamento, devono interagire in tempo reale con le notifiche della piattaforma oppure devono scegliere di operare in zone periferiche della città dove la concorrenza è minore. La retorica del lavoretto è completamente sgretolata da una realtà che vede le piattaforme premiare solo coloro che sono in grado di garantire una continuità nel proprio lavoro mentre scoraggia chi non può farlo, fino ad espellerli dalla piattaforma. L’efficacia di questo controllo algoritmico e del sistema di ranking non sarebbe possibile senza il cottimo. L’impiego delle nuove tecnologie trova un senso grazie alla capacità delle piattaforme di sfuggire alle tradizionali regolazioni economiche. Il cottimo dà l’illusione di premiare il rider meritevole di una maggiore retribuzione mentre punisce il rider fannullone, Questo porta il lavoratore ad interiorizzare la spinta verso la costante intensificazione della prestazione lavorativa con il risultato di avere un rider che nel consegnare nel minor tempo possibile il cibo al cliente è disposto ad accettare tutti i rischi connessi perché deve aumentare la propria retribuzione e migliorare la propria posizione nel ranking. Contemporaneamente la piattaforma scarica sul rider tutti i costi dei tempi di assegnazione e attesa dell’ordine e garantisce anche un pieno coinvolgimento del lavoratore. Il sistema degli incentivi a consegna, spesso utilizzato in condizioni di maltempo o in concomitanza con uno sciopero dice Marrone, permette di facilitare il governo della forza lavoro. Questa gestione dei lavoratori ricorda le fabbriche osservate da Marx dove venivano assunti più operai del necessario ma questi erano pagati in base al lavoro effettivamente svolto. Allo stesso modo le piattaforme di food delivery inglobano forza lavoro che se non riceve ordini non viene pagata. Infatti ad ogni turno gli algoritmi, in base alle statistiche accumulate, sono in grado di determinare la forza lavoro necessaria e se non è sufficiente si incarica di comunicare al resto dei lavoratori associati alla piattaforma la possibilità di lavorare, oltre ad utilizzare lo strumento del bonus per ogni consegna effettuata. In questo modo il rider che si trova nella situazione di dover rifiutare una consegna o di dover abbandonare il turno si trova costantemente con la pressione di questa eccedenza di lavoratori sempre pronta a subentrargli e spingerlo ai margini della piattaforma. Questo sistema, inoltre, consente alle aziende di distribuire il carico di lavoro in base alla loro convenienza per evitare che il sistema di ranking produca un nucleo stabile di lavoratori dotati di un potenziale e pericoloso potere rivendicativo. Un altro problema del cottimo analizzato da Marx è la sua capacità di generare la proliferazione di parassiti tra capitalista e operaio tramite il subaffitto del lavoro. Non a caso in queste piattaforme è sorto il fenomeno del caporalato digitale, ovvero gli account posizionati meglio nel ranking aziendale vengono subaffittati a rider occasionali in cambio di una parte dei loro guadagni. 

Il processo di cottimizzazione, senza il quale, lo ribadiamo, il sistema non potrebbe andare avanti è stato introdotto gradualmente e mostrando ai rider che questa modalità di lavoro era più redditizia. Con il tempo, però, la redditività della paga è stata abbassata una volta raggiunto un numero sufficiente di rider interni alla piattaforma. Un esempio di questo fenomeno è il dynamic fee di Deliveroo che è una modalità di pagamento a cottimo che non prevede un fisso a consegna. Infatti la retribuzione viene calcolata in base alla distanza, il tempo impiego e la produttività complessiva del turno. 

Marrone a questo punto analizza il modo in cui le tecnologie sono impiegate nel food delivery. Invece di espandere i margini di sicurezza e partecipazione dei lavoratori esse sono espressione di una relazione autoritaria tra le piattaforme e i rider. Questo rapporto si estende anche al modo in cui le società in questione raccolgono i dati. I rider, come gli autisti di Uber, impiegano una fetta consistente del loro tempo di lavoro ad interagire con l’app aziendale producendo dati catalogati e archiviati dalla piattaforma. Si tratta di informazioni vitali per capire come funziona l’economia urbana che le imprese in questione, però, custodiscono gelosamente. Questi dati prodotti dai rider durante il servizio di consegna potrebbero essere socializzati per rendere le consegne meno rischiose, invece sono usati per estendere i meccanismi di controllo sui lavoratori. Infatti, oltre ad essere indispensabili per il funzionamento del sistema di ranking, i dati provenienti dal lavoro dei rider, pensiamo a quelli relativi alla geolocalizzazione, servono in un’ottica di sorveglianza. Invece di aiutare il rider a percorrere la strada più veloce, la geolocalizzazione serve per avere una sorveglianza costante che non si limita alla prestazione lavorativa ma si estende anche al tempo in cui il rider non è in servizio. La sorveglianza esercitata dalle piattaforme diventa esplicita con il fenomeno della disconnessione come misura punitiva in caso di infrazione del codice etico sottoscritto dal rider per poter avere un account operativo. Nel migliore dei casi essa è temporanea ma può anche essere definitiva e spesso è figlia di segnalazioni provenienti da ristoratori o clienti che possono essere figlie anche di discriminazioni razziali o di genere. La disconnessione serve anche, in combinazione con l’alto turnover e l’impossibilità di accedere ai tradizionali strumenti della rappresentanza, a creare un clima sfavorevole all’organizzazione sindacale dei lavoratori. Questa minaccia non è però servita a bloccare le lotte dei rider che nel corso del tempo sono esplose in tutto il pianeta.

  1. Le lotte sindacali dei rider

Le mobilitazioni dei rider hanno messo a nudo lo sfruttamento nascosto dietro la retorica delle piattaforme ma una simile imprese non è stata affatto facile perché questi lavoratori hanno dovuto superare le difficoltà poste dal sistema di ranking, dal cottimo e dall’impossibilità di accedere ai tradizionali strumenti di rappresentanza. Eppure, nonostante la forte ostilità delle imprese, stiamo assistendo ad un costante aumento della conflittualità nel settore del food delivery. Per questi motivi simili lotte, oltre a svelare lo sfruttamento insito nel loro lavoro, rappresentano un evidente controtendenza rispetto ad uno scenario globale contraddistinto da una regressione del movimento sindacale. 

Marrone dice che a prima vista i rider sono l’emblema di un lavoro precarizzato a cui viene negato sia uno stipendio decente che la possibilità di organizzarsi per migliorare le proprie condizioni. I rider, essendo considerati lavoratori autonomi, sono sia in balia dell’organizzazione del lavoro imposto dalle piattaforme che impossibilitati ad accedere ai tradizionali diritti della rappresentanza. In questo modo si genera un circolo vizioso composto da diritti negati, retribuzioni sempre più misera e alti livelli di turnover. Sono tutte condizioni che ostacolano la possibilità di organizzarsi e contrastare un simile meccanismo. Per questo motivo in molti hanno definito questi lavoratori come inorganizzabili. Tuttavia, proprio dove non ce lo aspettiamo stanno nascendo esperienze che mirano non solo a contrastare lo sfruttamento praticato dalle piattaforme ma anche gli esiti di processi di precarizzazione del lavoro di lunga durata. Lo smantellamento delle tutele lavoristiche tradizionali non ha reso più docile la forza lavoro, anzi, i lavoratori non hanno mai smesso di rivendicare delle migliori condizioni di lavoro e hanno reso la loro esperienza di inorganizzabili un laboratorio di sperimentazione sindacale da cui anche i sindacati tradizionali possono attingere. Quindi possiamo dire che lotte come quelle dei rider sono il tentativo di opporre una resistenza alla tendenza del capitalismo a mettere a valore i suoi margini. In questo senso va letta la lotta dei rider di Bologna riuniti intorno al sindacato Riders Union Bologna. Marrone ripercorre la nascita di questo sindacato non con l’intento di presentare un modello da seguire ma per descrivere come questo frammento di una lotta globale contro le piattaforme del food delivery ha consentito a centinaia di lavoratori di alzare la testa e lottare per i propri diritti. Questa esperienza nasce nell’autunno del 2017 a partire da un gruppo di dieci rider che lavoravano con tre delle principali piattaforme di food delivery presenti a Bologna in quel momento, ovvero Foodora, Just Eat e Deliveroo, i quali decidono di incontrarsi settimanalmente per affrontare tutte le problematiche legate al loro impiego. Una simile decisione viene alimentata dalle proteste dei rider esplose in tutta Europa in quel periodo e che sono arrivate anche in Italia, in particolare nella città di Torino. Qui nell’autunno del 2016 scoppia uno dei primi scioperi italiani dei rider che si concluse con il licenziamento di quattro lavoratori, i quali risposero con una causa legale durata circa due anni e conclusasi in loro favore. Sempre in questa città si svolge la prima assemblea nazionale dei rider nell’autunno del 2017 dove si forma il primo nucleo di Riders Union Bologna. Esso non era composto solo da lavoratori ma anche da solidali, cioè studenti, attivisti e ricercatori della città. Questo dato ci mostra com’è possibile affrontare l’inorganizzabilità dei rider, ovvero attraverso la costruzione di una coalizione urbana che vede l’aggregazione attorno alla loro vertenza di diverse figure capaci di riconoscere il legame tra lo sfruttamento dei rider e una condizione strutturale radicata che va oltre il capitalismo delle piattaforme. Grazie a questo contributo Riders Union Bologna cresce e costruisce la base per iniziare la sua attività sindacale in un contesto di forte ostilità da parte delle piattaforme. La coalizione urbana oltre a consentire ai rider di ottenere spazi in cui riunirsi o strumenti per portare avanti le loro lotte, mette a disposizione esperienze e saperi utili per elaborare soluzioni efficaci per superare gli ostacoli costruiti dalle piattaforme e mettere in moto processi di organizing. Tutto ciò si traduce nella capacità di raggiungere tutti i rider attivi in città, dispersi nella metropoli e soggetti ad una rapida sostituzione a causa di un continuo turnover per mezzo del volantinaggio davanti ai ristoranti che consente di utilizzare il tempo di attesa dei rider per entrare in contatto con loro e in questo modo informarli della nascita del sindacato. Questo processo è facilitato dalla concentrazione dei ristoranti nel centro città, diversamente da metropoli come Roma e Milano, che spontaneamente porta alla formazione di gruppi di rider nelle piazze. L’iniziale tendenza di Riders Union Bologna non è fare attività sindacale bensì costruire un gruppo di mutuo aiuto sostenuto da gruppi Whatsapp in cui sono affrontati collettivamente problematiche legate ad infortuni, analisi dei meccanismi retributivi o fiscali oppure apprendere come interagire con l’app della piattaforma. Queste attività sono intervallate da uscite serali e biciclettate domenicali con lo scopo di formare l’identità di gruppo. Possiamo quindi affermare, utilizzando le parole di Marrone, che tra i bisogni fatti emergere dall’estrazione delle piattaforme prendono corpo i primi nuclei organizzati di rider. La progressiva strutturazione della rete di solidarietà dei rider procede parallelamente all’affermazione nel contesto bolognese delle piattaforme di food delivery con la conseguenza di produrre una riduzione dei salari e di introdurre il cottimo. Questi processi portano ad una resistenza da parte dei rider che iniziano a ragionare sulle modalità con cui opporsi alle decisioni delle piattaforme. A questo punto il “movimento guarda sé stesso” e inizia a confrontarsi con la formazione di un’identità collettiva totalmente differente rispetto a quella costruita per loro da parte delle piattaforme. Un altro elemento sottolineato da Marrone è la natura informale della struttura sindacale che sta prendendo forma che è figlia dell’impossibilità per questi lavoratori di accedere ai tradizionali strumenti di rappresentanza e anche dell’alto turnover dei lavoratori responsabile del continuo ricambio di forza lavoro. Esso impedisce la possibilità di costruire nuclei stabili per portare avanti l’azione sindacale. Quindi l’elusione delle regole messa in campo dalle piattaforme spinge i rider ad adottare pratiche di organizzazione informali. In questo modo viene data vita ad un’organizzazione porosa e attraversabile da chiunque per attivare una partecipazione ampia alle iniziative del sindacato. Il sindacato finisce per essere strutturato su due livelli. Il primo coinvolge i rider delle singole piattaforme e discute i problemi specifici connessi al loro lavoro mentre il secondo, organizzato su base cittadina, prevede la discussione di strategie e pratiche di azione comune. Questa articolazione consente di rafforzare il radicamento a partire dai singoli nuclei di piattaforma con l’intento di raggiungere il numero maggiore possibile di rider senza, però, rinunciare al focus sullo spazio metropolitano in cui operano. 

Il raggiungimento di questi obiettivi è ostacolato, oltre dal già citato turnover, da una strutturazione dello spazio urbano come una linea di assemblaggio dove il servizio svolto dai rider è frammentato in microtask che aumenta sia i livelli di pressione che di sorveglianza. Il risultato è la marginalizzazione di coloro indisponibili ad accettare simili condizioni di lavoro. Per evitare carenze di lavoratori le piattaforme adottano pratiche di reclutamento selvaggio che risponde sia ad esigenze di carattere produttivo che di governo della forza lavoro grazie alla pressione esercitata da un esercito di riserva costruito dalle piattaforme. Il processo di sindacalizzazione incontra anche ostacoli diversi basati su registri culturali che variano in base alle soggettività incontrate nel lavoro per la piattaforma. Alcuni sono scoraggiati a causa dell’interpretazione del lavoro di consegna come un lavoretto. Essendo un lavoro temporaneo, per costoro non ha senso impegnarsi in lotte del genere. Chi invece trae da questo lavoro la principale fonte di reddito annuale ha paura della disconnessione e ciò agisce come deterrente rispetto alla lotta sindacale. Queste difficoltà non impediscono ai rider di lottare, anzi, finiscono per rovesciare gli stessi dispositivi di comando delle piattaforme come le tecnologie digitali utilizzate solitamente per sorvegliare e intensificare il lavoro dei rider. A Bologna, soprattutto all’inizio, le piattaforme utilizzavano una messaggistica collettiva per coordinare la flotta di rider. Questo strumento permette di comunicare con i lavoratori istantaneamente durante il loro servizio e nel fare ciò tutta la forza lavoro viene concentrata dalle piattaforme. Un simile processo ha consentito agli attivisti di comunicare con tutta la flotta, facilitando il lavoro degli attivisti sindacali. Accanto alle chat aziendali, di conseguenza, sono nate le chat dei sindacalisti fondamentali per la nascita di Riders Union Bologna. Il detonatore del conflitto, però, dice Marrone è il maltempo che fa emergere la contrapposizione tra rider e piattaforme. Quando piove o nevica i lavoratori sono costretti a svolgere la propria attività senza l’adeguato equipaggiamento, senza maggiorazioni e senza tutele per gli infortuni mentre dall’altro lato in questi momenti le piattaforme ricevono un picco di domanda e un balzo di profitti. La questione degli infortuni e delle conseguenze diventa la rivendicazione fondamentale intorno alla quale l’esperienza di Riders Union Bologna si radica. Gli infortuni vengono analizzati dai rider oltre la mancanza di tutela assicurativa. La consegna del cibo per strada è un lavoro rischioso ma questi potenziali rischi sono amplificati dal sistema di ranking e del cottimo delle piattaforme e inoltre subire un infortunio impedisce di trovare fonti di reddito alternative al lavoro del rider. La questione, quindi, mette in luce la polarizzazione dentro le piattaforme e l’indifferenza per il tema da parte delle aziende. Le tensioni accumulate dai rider per questi problemi esplodono il 13 novembre 2017 quando, a causa di una nevicata che ha reso impraticabili le strade di Bologna, si è verificato il primo sciopero spontaneo di questi lavoratori in città. In questo contesto i rider hanno chiesto alle piattaforme la sospensione del servizio incontrando un netto rifiuto condito da minacce di ritorsione. La risposta di quasi tutti i rider è stata il ritiro della disponibilità del turno con conseguente rallentamento del servizio e infine la sua sospensione. Questo sciopero spontaneo ha portato alla creazione della pagina Facebook di Riders Union Bologna, palesando l’attività di questo sindacato dei rider. Questa scelta, figlia del successo dello sciopero, consente di superare l’iniziale timore nell’utilizzo della comunicazione social a causa delle ritorsioni delle piattaforme sullo scia di quanto già successo a Torino. Parallelamente, per radicarsi nel territorio e gestire il turnover di lavoratori sempre alto, vengono messe in campo pratiche di mutualismo che prevedono tutta una serie di attività con l’obiettivo di risolvere i bisogni lasciati scoperti dalle piattaforme. Per esempio Riders Union Bologna promuove la manutenzione dei mezzi o la comunicazione di informazioni cruciali per il lavoro grazie a laboratori e ciclofficine autogestite per i rider della città. Questa seconda attività riscuote ampio successo tra i lavoratori perché consente di trovare biciclette sostitutive durante il turno, di acquistare materiali di riparazione a prezzo di costo oppure di condividere un sapere tecnico per mezzo di corsi di riparazione o workshop tematici tenuti dagli stessi rider. In breve, sopperiscono alla mancanza di formazione da parte delle piattaforme. La rete mutualistica si esprime anche attraverso l’apertura dei rifugi, cioè luoghi della città messi gratuitamente a disposizione per i rider che in questo modo, durante le giornate fredde, possono aspettare gli ordini non in mezzo ad una strada. Queste realtà fungono anche da punti informativi e da sportelli legali sostenuti dai solidali che sopperiscono alle carenze informative delle piattaforme. Riders Union Bologna, quindi, utilizzando le risorse della città non solo consente di accedere ai servizi mutualistici ma anche di mettere in moto meccanismi di advocacy ed organizing. Una volta strutturata l’organizzazione in città, fa il salto di qualità nel tentativo di superare l’esclusione dei rider dai tradizionali strumenti di conflitto. Questo percorso inizia dalla ridefinizione dello sciopero, di difficile attuazione nel contesto del capitalismo di piattaforma. In primo luogo, dice Marrone, per la sorveglianza sui rider che finisce per scoraggiare la partecipazione ad azioni capaci di scatenare delle rappresaglie da parte dell’azienda. In secondo luogo a causa del modo in cui è organizzato il servizio. Le piattaforme, infatti, possono rispondere allo sciopero dei rider utilizzando il bacino di sovrappopolazione lavorativa creata dalle pratiche di reclutamento selvaggio. Marrone fa l’esempio dell’algoritmo Frank di Deliveroo che è capace di stimare la forza lavorativa necessaria per garantire il servizio e, in tempo reale, invia messaggi al resto della flotta offrendo bonus a consegna. Questi meccanismi si attivano in particolare in caso di sciopero portando l’azienda ad offrire bonus sempre maggiori fino ad arrivare ad una quota sufficiente di rider attivi. In una situazione simile bloccare il servizio diventa qualcosa di molto complicato e ha spinto Riders Union Bologna a formulare una modalità di sciopero capace di tenere insieme la sospensione del servizio e la tutela dei rider più vulnerabili alle ritorsioni delle piattaforme. Allo sciopero si può partecipare con due modalità differenti ma complementari. La prima prevede la mancata attivazione dell’account nel giorno di sciopero e di conseguenza produce una mancata disponibilità al turno di lavoro. La seconda sfrutta la possibilità di swap del singolo ridere attraverso un rifiuto collettivo delle consegne per mandare in cortocircuito l’algoritmo delle piattaforme. Seguendo questa linea il 23 febbraio 2018 per la prima volta Riders Union Bologna riesce a bloccare il servizio di consegna a Bologna. Le interruzioni di servizio producono delle risposte da parte delle piattaforme. Nel novembre del 2017 la risposta fu morbida. Marrone dice che Deliveroo organizzò un sondaggio tra i propri rider per indagare il grado di soddisfazione che era accompagnato da un’email in cui si parlava dell’attenzione posta dalla piattaforma nei confronti dei suoi collaboratori. Nel 2018 la risposta fu molto più dura e mirava a mettere in discussione il radicamento nella città conquistato dal sindacato informale dei rider. Per esempio Marrone cita ancora Deliveroo che nei giorni successivi allo sciopero promuove un reclutamento selvaggio attivando oltre 100 account di nuovi rider. Si tratta del doppio dei rider attivi fino a quel momento. Questa decisione comporta anche la riforma del sistema di assegnazione dei turni a partire da una divisione della flotta in tre gruppi divisi in base al ranking con diverse priorità nella scelta dei turni. Tutto ciò comporta che i rider dell’ultimo gruppo avranno la possibilità di scegliere il turno solo dopo che gli altri due gruppi hanno espresso le proprie preferenze. In questo modo riescono ad ottenere un numero di turni insufficienti per soddisfare le proprie esigenze retributive e, grazie al diverso rendimento dei turni rispetto al sistema di ranking delle piattaforme che premia, rendendoli più attrattivi, i turni del fine settimana, si ritrovano in una situazione di basso ranking da cui difficilmente riescono ad uscire incrementando i punti, con il rischio di venire progressivamente messi ai margini della piattaforma e infine espulsi. Molti dei rider che hanno partecipato allo sciopero si sono ritrovati nel terzo gruppo e, nonostante la giustificazione aziendale della scelta motivata da esigenze produttive, è evidente come lo scopo sia quello di minare i margini di azione di Riders Union Bologna. Queste scelte hanno fatto aumentare le tensioni tra lavoratori e piattaforme, come dimostra anche il caso dell’occupazione della sede di Deliveroo da parte dei rider di Torino e Milano il 13 aprile 2018 culminata con lo sgombero da parte delle forze dell’ordine, ma ha anche messo in chiaro l’asimmetria di potere che dovevano sfidare in quanto lavoratori. Questo ha spinto i rider a cambiare strategia. Non basta scioperare, occorre influenzare l’opinione pubblica per portare dalla propria parte gli attori politici ed economici per fare pressione sulle piattaforme.

18/11/2024 https://www.legauche.net/

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