ASMA SOCIALE
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Rubrica di Delfo Burroni
Dopo lungo tempo passato in degenze ospedaliere e avventure da proletari alla corda, torno con piacere a scrivere in queste pagine. Sono un bruscolo incompetente davanti a molti medici e operatori che qui scrivono cose importanti. Ma nel mio piccolo, sono un paziente di lunga degenza oltre che un cittadino. E vorrei portare in queste pagine delle riflessioni stravaganti.
La nuova rubrica prende spunto dalla metafora di fondo del mio primo libro, A.s.m.a., che trovate recensito nel precedente numero di ottobre. Ma il libro poteva essere solo la sintesi di un sentimento generale, non aveva senso riportarci tutti gli innumerevoli aneddoti e pensieri collaterali che ne possono emergere. Mentre in queste pagine vorrei lasciare, in ordine piú sparso, aneddoti e riflessioni su diversi tipi di respiro dell’esistenza.
Il primo tema non può che essere la pace. Sento l’urgenza di prendere una posizione concreta contro la guerra e questo governo che a differenza di Paolo Mieli non stento a definire fascita. Ne sento una fretta non meramente morale bensì sostanziale anche per la mia stessa sopravvivenza. Vorrei parlare di guerra come inquinamento e di pace come ossigeno. Ma quale effetto vuoi che abbia la mia opinione. Quindi cercherò di essere utile affronto il problema da un’altra prospettiva.
Quale argomento più vicino a noi tutti se non la comunicazione, che in tempo di guerra si chiama anche propaganda e che noi tutti subiamo incessantemente in modo martellante.
Non so se ve ne siete accorti ma nel mondo c’è confusione totale. Una grossa fetta di persone ha perso completamente la brocca e non sa piú comunicare. Non che prima fossero tutti Nobel ma l’aumento degli input in ingresso sommata alla riduzione drastica delle occasioni di confronto ha saturato le orecchie dei piú, disabituato le genti all’ascolto.
Questa mi pare che sia la principale causa del muro di gomma del cosiddetto elettorato.
Anche davanti alle piú banali ovvietà le prime parole che spunteranno nella testa delle genti saranno “ No ma…”. Ê l’automatismo di difesa di un cervello saturo e confuso che non ha tempo di pensare troppo a lungo e quindi risponde di impeto con una chiusura per evitare di mettersi in discussione e dunque lanciarsi da un ponte. E dunque come accendere le orecchie e i sentimenti dei lettori? Non è una risposta che ho in tasca. Ma posso provare da profano a riflettere sul tema.
Solitamente le persone lavorando hanno pochissimo tempo e quindi si concentrano sul minimo vitale e per il resto del tempo cazzeggiano. Le rare volte in cui cercano degli input lo fanno in modo sbrigativo. Vogliono risposte facili. Così quando si trovano davanti a temi che percepiscono come complessi, semplicemente chiudono le orecchie.
Poi c’è un altro fattore, la paura di apparire stupidi o meglio la rabbia di non capire. Noto da tempo questo automatismo: cosa succede quando, in un dialogo con una persona disallenata, si cominciano ad usare parole complesse e concetti articolati? Si scatena la rabbia o per lo meno l’impazienza e la distrazione dell’interlocutore.
Nel momento in cui una parola, ad esempio “Diritto”, é intangibile da comprendere, semplicemente il soggetto si sente ignorante indi stupido. E nessuno vuole sentirsi stupido, emarginabile. E poiché ogni essere vivente rifugge la sofferenza, scatta l’istinto animale che li rende reazionari e ottusi.
Dunque, mi sono chiesto, dovremmo rieducare tutti prima di poter ottenere un cambiamento costruttivo della società? É impossibile. Non é riportando tutti a scuola che si risolve. Non è credibile che tutti si intendano di tutto. Ma c’è un tema che accomuna tutti. Una materia che ci riguarda e che tutti usano ogni giorno. L’emotività.
La comunicazione verbale è un artificio relativamente recente nella storia del pianeta. La nostra forma di comunicazione preminente resta quella empatica. Il cervello ragiona per immagini e ancor prima recepisce gli stati emotivi trasmessi dalle espressioni facciali e sonore. Lo dimostra il fatto che nel web la fanno da padrona i video piuttosto che gli articoli, e che anche i bambini in tenerissima età sono in grado di apprendere l’uso di uno smartphone prima ancora di sapere leggere.
L’empatia in senso scientifico (mi si perdonino le imprecisioni) passa dai neuroni specchio.
Questi neuroni si attivano con una comunicazione verbale, gestuale o persino semplicemente espressiva. Una sorta di entanglement cerebrale che può passare dagli strumenti telematici contemporanei a patto di intercettare gli spaesati e dare loro conforto psichico facendoli sentire utili e prima ancora compresi. O meglio facendoli sentire meno soli e incompresi. Risultare per loro come una boccata d’ossigeno restituisce una rinfrescante ventata d’aria.
L’ esperienza che mi ha aperto gli occhi l’ho avuta quando mio padre a seguito di un’ ischemia è diventato totalmente afasico. E mentre tutti lo trattavano già da demente, ho voluto concentrarmi sullo sguardo e prestare attenzione alle espressioni che emettevo e mricevevo. Sono riuscito a comunicare fino all’ultimo giorno, tanto da riuscire a farmi prendere in giro e ridere assieme.
Cosí ho cominciato a sperimentare. Persino con i miei gatti oggi ho una comunicazione differente. Alla prima occasione che vi capita provate a sgridare un bambino e guardare che reazione ha. Successivamente alla prossima occasione provate a sgridarlo di nuovo, ma ridendo. Certo è piú complicato di questo semplicistico esempio ma il risultato che ho potuto constatare è che se le volte precedenti mio nipote obbediva ma si irrigidiva e perdeva concentrazione nello studio, nel secondo caso sbagliava volutamente per divertirsi. Va da sè che per sbagliare volutamente doveva aver assimilato il concetto, quindi si poteva passare alla lezione successiva.
Ora non voglio dire che si debba buttare tutto in burla. L’ironia non è l’unico tipo di emozione trasmissibile tramite i neuroni specchio. Quel che intendo è che se proviamo a trasmettere un sentimento sarà piú facile risvegliare coscienze.
Intendo dire che se vogliamo uscire dal pantano di questo imbarbarimento fascistoide della società, necessitiamo di uno studio della comunicazione approfondito. Molto piú approfondito di quanto stia facendo adesso un profano come me. Dal punto di vista emotivo la destra è giocoforza perdente.
E qui mi pare vitale toccare un altro tasto che riguarda tutti noi: La comunicazione multidirezionale. Siamo tutti plagiati da decenni di TV. Ci siamo abituati talmente tanto ad ascoltare per ore ed ore restando muti (salvo le bestemmie richieste dal caso), che quando è esplosa l’era di internet abbiamo cominciato ad esprimerci a raffica, dimenticandoci di ascoltare. É esplosa una apparente mania di protagonismo che in realtà è un istintivo bisogno di non sentirsi soli.
Abbiamo tutti un profilo social da qualche parte, e lo riempiamo di cose per poi sperare che la popolazione attorno a noi venga a comunicare nel nostro spazio. Ma non puó avvenire poiché anche gli altri sono chiusi come noi nel proprio spazio ad aspettare di essere considerati. Siamo otto miliardi e internet è talmente tanto vasto che non possiamo essere tutti ovunque finendo con il riempirci di shit-content e perdere di vista i conten uti piú importanti della nostra esistenza.
Fatta eccezione per chi ha grandi fondi e può invadere le orecchie della popolazione, chi fa politica lottando per i Diritti viene ignorato e fa fatica a farsi ascoltare. Ma siamo sicuri che adun segretario di partito serva solo essere ascoltato? Siamo sicuri che un allenatore di calcio debba parlare ad una squadra senza preoccuparsi mai di conoscerne e ripartire le caratteristiche secondo attitudine, piazzando un portiere sulla fascia e lasciando i bomber in panchina?
Mi hanno insegnato che si dovrebbe sempre tenere presente il tipo di persone a cui ci si rivolge. Un conto è il rapporto con il (concedetemi il brutto termine semplificativo) pubblico interno, un altro conto é il rapporto con il pubblico esterno.
Come convinci chi non è interessato ad interessarsi? É sufficiente dire “ehi coglione stiamo parlando di diritti anche tuoi”? No, sfortunatamente no anche se la psicologia inversa talvolta ha il suo fascino. Ecco perché parlo di comunicazione multidirezionale. É un problema che vivo anche io che non sono disinteressato e sono già schierato. Figuriamoci chi non è avvezzo quanto possa esserne colpito.
Prendo l’esempio di un ventenne senza lavoro, neo-proletario, con in testa solo la fica, gli amici e una valanga di problemi che nemmeno sa di avere. Ma vale anche per chi ha una età da pensione ed è troppo stanco per riuscire a occuparsi di tutto.
Come si può pensare di attirare l’attenzione delle persone se le si fanno sentire sole e inascoltate, inconsistenti, abbandonate.
Gli dai un volantino, e queste ci fanno un filtro. Gli scrivi un articolo e non lo leggono, gli condividi un video e non lo guardano. Irraggiungibili. Tu-tu-tu.
C’è persino tra i compagni chi ha provato a parlare di cazzate su tik-tok per attirare l’attenzione dei piú giovani. Idea brillante ma è tempo perso fino a che con quelle persone non ti rendi disponibile all’ascolto. Bisogna mettersi in condizioni di recepire i bisogni emotivi e dare risposta a quelli. Una sorta di Engagement, come lo definirebbero in America.
Mentre il resto del mondo si difende a fucilate già in tenera età, la maggior parte delle persone qui non ha la cazzimma di chi lotta per chi ha perso ogni diritto e risorsa.
Trovandosi sole e inermi poi, hanno conseguentemente paura dell’autorità costituita, per questo fanno politicamente scena muta come scolari alla prima interrogazione.
Quindi un segretario di partito dovrebbe fare mutualismo e psicologia? No. Non intendo questo. Non è mutualismo, è sartoria chirurgica di una società sgretolata composta ormai da persone sole. Ed è anche l’unica speranza di autodifesa perché parliamoci chiaro, chiunque si trovi solo si trova automaticamente inerme dalle aggressioni di una dittatura squallida, rischiamo di restare non solo eterni delusi ma anche soffocati.
La politica non esiste senza la polis, le persone. E soprattutto senza spazi di confronto e coordinamento. Urge quindi riaprire degli spazi pubblici sia fisici che virtuali, che non siano le circoscritte sedi di partito, in cui la gente possa condividere gli sforzi di sopravvivenza, e con l’occasione socializzare e acculturarsi, acquisire la consapevolezza che ogni tecnologia non sia dei padroni ma dell’intera civiltà. E che questa tecnologia che stiamo comunque già usando può essere usata al massimo potenziale in interazione con gli spazi fisici, se teniamo conto che non deve essere una TV parlante, errore che stanno praticando tutti, ma proprio tutti, anche i più tecnologici degli Youtuber. Serve uno spazio dinamico di confronto che poi si trasformi in ripartizione spontanea per competenze.
Ora, non avendo io la verità in tasca e le risposte pronte, ma percependo sulla mia stessa pelle da anni la necessità di uscire dalla solitudine e rendermi utile, confrontarmi e affrontare anche i problemi personali, vorrei chiudere questo primo articolo della rubrica con una piccola proposta:
Lascerò il link di uno spazio pubblico già esistente, uno spazio talmente tanto pubblico e neutro da essere già centrale all’intero paese. Chiunque di voi voglia rispondere a questo post per affrontare il tema della partecipazione politica contro la guerra può farlo su “X” (ex Twitter”) digitando @Montecitorio (lo spazio pubblico), seguito dall’hashtag #Pace o dal tag che si ritiene più opportuno di volta in volta. Per citare me o il mensile di L&S aggiungete @LavoroeSalute o @Red_Dolphin_ (il mio profilo su X). Ora provate a fare una ricerca su “X” digitando nella casella di ricerca “@Montecitorio #pace”. Troverete certamente il mio post e quello di chiunque abbia sommato quei due riferimenti.
E su questo pensiero, di colpo come uno shock anafilattico, chiudo il post.
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