Dignità sottochiave. Una testimonianza dal CPR
Prima parte, a seguire Seconda parte
Tra ostacoli, detenzioni e un sistema inflessibile, un ragazzo partito dal Togo a soli cinque mesi, si ritrova minacciato di rimpatrio e intrappolato in un CPR, simbolo delle contraddizioni delle politiche migratorie italiane
Parlare dei centri di permanenza per il rimpatrio (CPR) non è solo necessario: è un atto di doverosa denuncia. Rivelarne il vero volto, oggi più che mai, diventa urgente, a fronte di una situazione che rischia di degenerare ulteriormente.
Ancora una volta, l’Italia sceglie la strada del “pugno duro”, della paura travestita da sicurezza, imboccando una deriva securitaria che punisce i più vulnerabili. A incarnare questa deriva è il Ddl sicurezza, recentemente approvato dalla Camera dei Deputati, che introduce misure destinate a intensificare la repressione del dissenso e a compromettere i diritti fondamentali.
In questo contesto, i CPR emergono come il punto più critico di un sistema già al collasso. Concepiti come strutture di transito per chi attende l’espulsione, si rivelano invece luoghi di privazione e disumanizzazione, denunciati da più parti per le condizioni degradanti e le continue violazioni dei diritti umani. L’esempio dell’estensione del reato di rivolta all’interno di un istituto penitenziario anche ai CPR, consolida l’equiparazione di queste due strutture, che appaiono quindi rispondere a una stessa matrice, quella di un regime punitivo, con pene sproporzionate che colpiscono anche chi osa manifestare pacificamente. Ancora una volta, si sceglie di criminalizzare chi si oppone e chi è più fragile, negando il diritto di reclamare dignità, protraendo l’umiliazione.
Ma non basta descrivere. È fondamentale ascoltare chi ha vissuto queste politiche sulla propria pelle, chi ha sperimentato cosa significhi essere privati di tutto. Per questo, a seguire, riportiamo la testimonianza di un ragazzo che ha trascorso un periodo in un CPR. Il suo racconto, intenso e diretto, illumina con forza le implicazioni concrete di queste politiche e ci ricorda l’urgenza di un cambiamento radicale che metta al centro la tutela della dignità di ogni persona.
Dove tutto ha inizio
Ci incontriamo in un locale tranquillo. L. è qui per raccontare la sua storia, deciso a rivelare ciò che ha vissuto durante la sua permanenza nel Centro di permanenza per il rimpatrio. Non cerca compassione, ma vuole offrire uno spaccato autentico delle sfide e delle contraddizioni di un sistema che giudica non solo gli errori di una persona, ma anche le percezioni che altri hanno costruito attorno alla sua identità.
L. siede dritto davanti a me, con un sorriso disteso e una calma composta. «Voglio che la gente sappia cosa succede realmente» – ha detto mentre mi guardava con attenzione. «Non solo ciò che si legge nei documenti ufficiali, ma cosa significa vivere, davvero vivere, in un CPR».
L. inizia a raccontare, ricordando la sua infanzia trascorsa in un piccolo paese del Lazio. «Non è stato facile crescere qui», confessa. Da neonato, arriva in Italia dal Togo e cresce senza la figura paterna; unico ragazzo di origine africana in una comunità dove la sua diversità era evidente. «Da bambino non pensavo a cosa significasse essere diverso» spiega. «Ma crescendo, ho compreso quanto pesasse lo sguardo degli altri e quanto fosse diverso da quello che vedevo io. Allora non c’erano molti stranieri nel mio paesino».
L. racconta di aver realizzato pienamente la sua identità di ragazzo figlio di immigrati intorno ai sette anni, quando ha iniziato la scuola primaria. «È a quell’età che i bambini cominciano a far emergere le differenze, ad abbracciare inconsapevolmente stereotipi» osserva. «Da piccoli, non percepiamo il concetto di diversità; è qualcosa che si impara, non che nasce con noi»
A scuola, le sue differenze non passavano inosservate e alcuni compagni lo facevano sentire escluso. Ricorda i momenti in cui i bambini prendevano in giro sua madre, lanciandole etichette offensive quando veniva a prenderlo a scuola. «Questo mi ha ferito molto– ammette – ma, allo stesso tempo, mi ha fatto sviluppare un senso di unicità, una consapevolezza particolare di me stesso».
Quando passa a raccontare il suo percorso verso la detenzione, il tono si fa più cupo e la sua voce assume un’ombra di ironia. «Avevo solo quattordici anni quando i guai sono iniziati – racconta– La prima accusa, un’estorsione, mi è caduta addosso come un fulmine a ciel sereno. Da lì in poi, è stato un susseguirsi di denunce e processi.» L. non nega le sue colpe, ma pone l’accento sulla rigidità del sistema giudiziario. «I giudici leggono i fascicoli, non vedono le persone» afferma amaramente. «Nel mio fascicolo, ci sono accuse per reati che non ho mai commesso, ma quando si accumulano, nessuno si ferma a distinguere».
La sua storia, dunque, lo ha portato in un CPR, tra errori ammessi e colpe mai dimostrate. «Il problema è che il mio profilo non racconta chi sono realmente», afferma. «Ogni giudizio, ogni decisione è stata influenzata da un’immagine distorta di me». L. parla con una calma determinata, palpabile. Vuole essere chiaro nel trasmettere le contraddizioni di un sistema che lo ha giudicato in base a un profilo costruito su documenti accumulati nel tempo, non su esperienze reali. «Da una parte – spiega – posso anche comprendere perché la mia situazione potrebbe sembrare compromessa. Ma, sinceramente, credo ci sia stato anche un certo pregiudizio nei miei confronti».
Tocca poi un aspetto complesso delle politiche migratorie: la sua identità di persona cresciuta in Italia, senza legami reali con il Togo, suo paese di nascita. «Non sono mai stato veramente in Africa», dice. «Sono nato lì, sì, ma sono arrivato in Italia a cinque mesi. Non parlo la lingua del Togo, non conosco quella realtà. Mia madre è venuta qui per un ricongiungimento familiare, con mia sorella che aveva sei anni e con me nato da poco. Questo in parte mi fa sentire anche un po’ in colpa perché tanti miei coetanei parlano la lingua del loro paese o hanno un legame conoscitivo più intenso, mentre io sono cresciuto totalmente calato nella cultura italiana. A casa, mia mamma mi parlava ogni tanto nella nostra lingua, motivo per il quale posso capire giusto qualche parola, ma non sono in grado di parlarla né di comprenderla veramente».
La complessa realtà del Togo
La frustrazione di L. non deriva solo dall’essere percepito come un outsider nel paese in cui è cresciuto, ma anche dalla situazione economica che affligge il Togo. «Nel nostro paese, il Togo, fortunatamente non c’è la guerra, ma non è una vita semplice», spiega. «È inaccettabile che nel 2024 un paese come il Togo sia ancora costretto a utilizzare una moneta imposta dalla Francia. È come se qualcuno venisse a casa vostra e decidesse il valore dei vostri soldi, rendendo impossibile vivere dignitosamente». Il Togo è infatti segnato da una situazione politica e socio-economica complessa che spinge molti cittadini a cercare opportunità altrove. Governato a lungo con metodi autoritari, il paese registra un basso punteggio nell’indice di democrazia mondiale, evidenziando una mancanza di libertà civili e di diritti politici. Questo contesto politico restrittivo si riflette su una popolazione che, oltre a dover affrontare la repressione dei diritti, vive in condizioni di povertà diffuse, in gran parte dovute alla dipendenza dall’agricoltura e alla scarsità di opportunità lavorative. A complicare ulteriormente il quadro si aggiungono le sfide ambientali: inondazioni e siccità, sempre più frequenti, devastano le coltivazioni locali, lasciando molte famiglie senza mezzi di sussistenza. Per questi motivi, lasciare il Togo diventa una scelta quasi obbligata per chi cerca una vita più stabile e sicura, lontano dalle instabilità che caratterizzano il paese.
L. ricorda un episodio emblematico della sua esperienza. «Un giorno, volevo partire per l’Inghilterra, prima della Brexit, quando sembrava tutto più accessibile», racconta. «Molti amici si trasferivano lì, e anch’io sognavo nuove opportunità, magari un nuovo inizio.» Tuttavia, il piano si è infranto. «Alla dogana, mi hanno lasciato passare senza problemi, ma poco prima di salire sull’aereo, mi hanno bloccato, spiegandomi che con il passaporto togolese avrei avuto bisogno di un visto lavorativo, che costava 1100 sterline. Non potevo permettermelo in quel momento».
Non c’è dramma nelle sue parole, solo la disillusione di un sogno infranto. L. vuole far luce sulle difficoltà concrete di chi vive in una condizione di doppia estraneità: un cittadino straniero nato in un paese che non conosce, eppure costretto a portarne ancora addosso le conseguenze. È una storia di radici intrecciate, di desideri semplici che incontrano barriere inaspettate.
L. prosegue, tornando al capitolo dei reati e delle accuse che hanno segnato la sua adolescenza. «So che non sono tenuto a raccontare tutto, ma per me questa è una sorta di rivalsa», spiega. «Non ho nulla da nascondere: quello che ho fatto, lo ammetto, lo pago, ma non possono attribuirmi cose che non ho commesso. Ho pagato per i miei errori, persino per quelli che non erano miei».
Dalla comunità al carcere. Un vortice senza fine
Racconta di come, già a 14 anni, fosse stato coinvolto in un sistema che non lasciava spazio a sfumature. «Sono stato in comunità, poi anche nel carcere di Viterbo», ricorda. Più volte gli avvocati gli avevano consigliato di patteggiare su alcune accuse, ma lui ha sempre rifiutato: «Perché avrei dovuto dichiararmi colpevole per cose che non avevo fatto?».
Le difficoltà continuano: una serie di arresti, accuse di detenzione di stupefacenti e denunce, tra cui una per ingiuria avanzata dai genitori di una sua compagna in occasione di una semplice discussione fra ragazzini pre-adolescenti. «Mi sono trovato in un vortice», ammette. «Era come se tutto quello che facevo fosse giudicato attraverso un filtro distorto». Racconta di come, persino nelle sue amicizie, si trovava emarginato. «Frequentavo un amico, andavo a casa sua, giocavamo insieme. Ma un giorno -avevo quattordici anni – i genitori mi presero da parte e mi dissero che, vista la mia reputazione, preferivano che non frequentassi più la loro casa. È stato doloroso, perché sapevo di non aver fatto nulla di male».
A 15 anni, un altro episodio segnò la sua vita: un arresto per spaccio. «A quel punto sono finito in comunità», racconta. «Ci rimasi per cinque mesi e venti giorni».
L’esperienza in comunità lo segna profondamente. «È stata una scuola del crimine», sbotta ed esplode in una risata. «Questi ambienti o ti schiacciano o ti formano. È un periodo in cui si forgia il carattere: o impari a non farti calpestare, o sei costretto a difenderti continuamente». Racconta di come cercasse di mantenersi in disparte, ma di non essersi mai tirato indietro quando veniva affrontato
Prima di entrare in comunità, frequentava una scuola alberghiera, da cui era stato espulso. «Mi avevano sospeso perché un giorno un mio compagno di classe autistico era stato preso di mira da alcuni bulli», racconta « e siccome il professore non aveva fatto nulla, ho reagito e l’ho insultato. Alla fine, sono stato sospeso per 50 giorni e poi espulso definitivamente».
Nonostante tutto, L. non ha mai rinunciato allo studio. «In comunità mi sono portato i libri e ho studiato da autodidatta», ricorda. «Non era facile, ma ho avuto la fortuna di partecipare a un corso di cucina finanziato dalla regione. Era un’opportunità per me».
Il corso si conclude con successo, ottenendo un punteggio di 97 su 100. «È stato un momento importante», asserisce. «Dopo l’espulsione dalla scuola, il corso mi ha dato una seconda possibilità. Da lì, ho iniziato a lavorare».
L. racconta anche la condanna per tentata rapina, un altro capitolo già archiviato e scontato. «Anche questo l’ho pagato. Ho passato lunghi mesi in carcere oltre ai cinque mesi e venti giorni in comunità. Insomma, avevo scontato tutto. Da quel momento ho cercato di fare il bravo, di starmene per conto mio».
Ma nel 2019, un altro incidente cambia il corso della sua vita. «Avevo iniziato a frequentare una persona che avrei dovuto capire subito non essere affidabile. Un giorno mi accompagna a Cassino; nel portabagagli aveva della marijuana, non proprio cime, ma rimasugli: rametti, semi, insomma scarti. Non ero al corrente di cosa ci fosse nel bagagliaio. A un certo punto, veniamo fermati. Io ero tranquillo, non sapevo cosa ci fosse nel bagagliaio. Ma avevo precedenti, così come il ragazzo che era con noi in macchina. Risultato: finiscono per arrestarmi e, tra domiciliari e altre misure, passo in carcere un altro anno». È durante questo periodo che le conseguenze dei suoi precedenti iniziano a farsi sentire in un modo nuovo e imprevisto. «Una volta entrato dentro, il sistema ha iniziato a setacciare i casi di pregiudicati per avviare procedimenti di rimpatrio, senza fare distinzioni sui tipi di reati commessi.» L. è quindi stato soggetto alle procedure di espulsione, che puntano ad accelerare il rimpatrio di cittadini stranieri con precedenti, soprattutto di coloro considerati una minaccia per la sicurezza. «Alcuni stati hanno accordi con l’Europa per i rimpatri, per cui le persone con origini da quello stato vengono trasferite rapidamente. Ma per il Togo, non esistendo tali accordi. Dunque non ero immediatamente rimpatriabile.»
Il finale inaspettato e il trasferimento al CPR
La situazione si complica ulteriormente quando, durante la sua permanenza in carcere, riceve un avviso relativo al permesso di soggiorno. «Alla fine della pena, mi consegnano un documento: entro 14 giorni, mi sarei dovuto presentare in questura. Non mi spiegano molto, ma al mio arrivo in questura mi chiudono la porta alle spalle e mi comunicano che ero in stato di fermo, con un provvedimento di rimpatrio imminente».
L. descrive il senso di smarrimento e di frustrazione. «Mi hanno detto che sarei stato rimpatriato, ma era insensato. Io sono cresciuto in Italia, la mia vita è qui. Ho cercato di spiegare la situazione, di far capire che non aveva senso allontanarmi da quello che è a tutti gli effetti il mio paese». Di fronte alle sue spiegazioni, gli agenti sembrano comprendere, ma gli comunicano che, nell’attesa, sarebbe stato trasferito in un CPR
Conclude questo capitolo con un tono fermo, ma anche carico di amarezza. Per L., non si tratta solo di una questione legale, ma di una battaglia per riconoscere una vita costruita in Italia, un paese che sente come suo, nonostante gli ostacoli e le incomprensioni di un sistema così rigido e inflessibile. Dopo aver scontato un lungo periodo di detenzione, L. si trova intrappolato in una burocrazia che rischia di mandarlo in un paese che non conosce, lontano dall’Italia, che sente come la sua vera casa.
«Nessuno dovrebbe essere sradicato dal luogo in cui è cresciuto per essere inviato in un posto dove non ha legami reali». La vicenda di L. mostra i limiti di un sistema che, invece di facilitare il reinserimento, classifica e isola. Finito poi in un CPR, ci racconta un’altra storia, un’altra prigione.
Daniela Galiè
13/12/2024 https://www.dinamopress.it/
L’immagine di copertina è di Robert Crow
Dignità sottochiave. Una testimonianza dal CPR – seconda parte
Prosegue il racconto di L. all’interno del CPR. Lì, il tempo diventa un’arma sottile di logoramento, un vuoto senza orizzonte in cui la vita quotidiana è scandita da privazioni, regole arbitrarie e senso di abbandono
Dopo aver concluso la sua pena, a causa della mancanza di posti disponibili nel centro di Ponte Galeria, a Roma, L. viene trasferito in un CPR nel sud Italia. Qui trascorre quattordici giorni.
«Appena arrivato, mi hanno detto che presto ci sarebbe stata un’udienza per valutare la mia situazione», racconta, «ma poi, dopo appena 48 ore, mi hanno convalidato il fermo e preparato un biglietto aereo per il Togo». È un momento di profonda ansia: «Non avevo mai viaggiato, non ero mai stato all’estero… – dove mi mandavano? – mi chiedevo».
Un ambiente ostile e oppressivo
Le condizioni nel centro sono dure. L’isolamento sociale è l’elemento che pesa di più. «Non potevo vedere né mia madre né mia sorella, neanche la mia ragazza», continua. Perfino l’ora d’aria è una concessione limitata. «Potevi uscire solo se accettavi di giocare a calcio, e non sempre: erano le guardie a scegliere chi poteva partecipare, e chi restava in cella spesso non vedeva la luce del giorno». Le condizioni, racconta L., finiscono per logorare chi non ha modo di uscire. «Alcune persone stavano lì per giorni senza poter prendere aria. Li vedevo sfiniti, a pezzi».
L’esperienza nel CPR lascia in lui una sensazione di sradicamento, un distacco che va oltre la detenzione stessa. «Mi sono sentito privato di ogni connessione con la mia vita fuori, con il mondo che conosco», conclude. «E pensare che, per quanto difficile sia stato il mio passato di reclusione, qui il sistema sembrava volermi punire all’infinito»
L. racconta di come, al suo arrivo nel CPR, gli abbiano offerto farmaci che però ha rifiutato. «Mi dicevano che sarebbero serviti per stare tranquillo, ma io non li ho presi. In seguito ho cominciato ad avere dolori allo stomaco per il cibo che ci davano: pasti preconfezionati, cose immangiabili, riso scotto con sugo crudo.» Abituato a cucinare – L. è chef e ha completato corsi di alta cucina – soffre in modo particolare la qualità del cibo e la mancanza di attività fisica. «Nel carcere di Viterbo, almeno potevo cucinare, fare la spesa interna, preparare qualcosa con mezzi di fortuna», ricorda. «Nel CPR, non esisteva nemmeno il diritto di cucinare. Chiedevo se ci fosse la possibilità di avere una dieta più bilanciata o almeno degli integratori, ma la risposta era sempre la stessa: “prendi la terapia”».
Le condizioni igieniche e ambientali risultano quasi insostenibili, con celle sovraffollate e prive di ogni elemento di vivibilità. «Eravamo sei in una stanza angusta, con letti rigidi come marmo e un unico telefono condiviso per contattare le famiglie, dato che i nostri cellulari erano stati sequestrati». L. descrive un contesto in cui la privacy e la dignità sembravano inesistenti: «Eri scortato ovunque, persino per andare in infermeria, circondato da un gruppo di sette-otto agenti tra polizia, carabinieri e finanzieri».
Connessioni fragili, storie intrecciate
Durante quei giorni di detenzione, L. ha modo di ascoltare le storie drammatiche di chi condivideva la sua stessa condizione: prigionia, persecuzioni, traversate in mare disperate. «Ascoltare quei racconti mi ha fatto riflettere profondamente», confida. «Ho compreso che la situazione che viviamo qui è difficile, ma le loro esperienze sono di una durezza estrema».
All’interno del CPR, incontra Sherif, un giovane togolese con un passato di sacrifici. «Sherif mi raccontava della sua vita in Africa. Lavorava come autotrasportatore tra il Togo e il Burkina Faso, portando prodotti per l’industria», spiega L. «Cercava un cambiamento nella sua vita e decide di partire per l’Italia». Il viaggio, però, si è rivelato pieno di umiliazioni. «Mi ha raccontato di come, in Italia venisse trattato come un criminale. Gli hanno spezzato i denti, è stato maltrattato e umiliato».
Queste esperienze lasciano il segno, e il contesto del CPR inasprisce la situazione.
Nonostante tutto, L. ricorda alcuni episodi di umanità. «C’era un inserviente che spesso si fermava la sera per farmi ascoltare un po’ di musica dal suo telefono», dice. «Erano momenti preziosi, perché in quel contesto bastava poco per sentirsi di nuovo un essere umano». Tuttavia, questi incontri positivi sono rari. Con alcuni carabinieri, invece, il clima era completamente diverso. «Ridevano, scherzavano tra loro, a volte prendevano in giro gli altri detenuti», racconta. «Un giorno, uno di loro si è messo a ridere perché mi ha sentito parlare italiano. «Senti come parla questo, è pure italiano», rideva. A quel punto ho perso la pazienza e gli ho risposto che ero più italiano di lui. Mi hanno preso in giro, ma poi hanno iniziato a trattarmi in modo più rispettoso. Tuttavia, vedevo che quello stesso rispetto spariva appena si rivolgevano ad altri».
L. osserva come molte persone fossero trattenute solo per problemi burocratici. «Uno era rimasto lì due mesi perché non riusciva a farsi inviare i documenti dalla madre». La mancanza di contatti e la totale assenza di prospettive rendevano l’attesa insostenibile. «In carcere, per quanto difficile, potevi lavorare sulla buona condotta, avere contatti con la famiglia. Qui, senza documenti, ti tolgono anche quello»
Aggiunge che la situazione nel centro è talmente esasperante che alcuni prigionieri danno fuoco ai secchi dell’immondizia per attirare l’attenzione. «Vogliono farsi sentire, cercano di ottenere un’ora d’aria, un contatto con la famiglia, anche solo di vedere qualcuno. Posso capire perché lo facciano» – ammette. A quel punto, L. racconta delle proteste alle quali ha assistito durante la detenzione. «Erano piccoli incendi, atti di protesta», spiega. «La maggior parte delle volte le forze dell’ordine aspettavano che le fiamme si esaurissero, poi arrivavano in tenuta antisommossa e intimavano alle persone di rientrare». Le proteste avvenivano spesso davanti alle inferiate, con materassi e altri oggetti dati alle fiamme. «Tutto quel fumo rimaneva bloccato, ristagnava lì», continua. «Le guardie spegnevano le fiamme e se qualcuno continuava a protestare, lo pestavano con i manganelli, spesso usando guanti rinforzati». L. aggiunge che, in situazioni di forte stress, alcuni detenuti arrivavano a gesti di autolesionismo per attirare l’attenzione. «Vedevo persone che si tagliavano le braccia o lo stomaco davanti alle grate», spiega. «Facevano di tutto per farsi sentire, e quando si rendevano conto di non essere ascoltati, le loro reazioni diventavano ancora più forti».
Parlando della gestione delle persone vulnerabili, L. scuote la testa con aria rassegnata. «Alcune persone passavano le giornate a letto, malate o fisicamente fragili», racconta. «Venivano chiamate in infermeria di tanto in tanto, ma non vedevo una cura reale. Ricordo un ragazzo con una caviglia gonfia e viola: ha dovuto aspettare giorni prima di essere portato in ospedale. Nel frattempo, lo accompagnavano ogni sera in infermeria, dove gli facevano un massaggio e applicavano una crema, per poi riportarlo in cella».
Quanto all’uso di farmaci tra i detenuti, L. non sembra avere dubbi. «Sì, lo notavi dal loro comportamento,» afferma deciso. «Sembravano distaccati dalla realtà, come se vivessero in un automatismo. Si alzavano solo per prendere il cibo quando veniva distribuito, quasi rispondessero a un richiamo addestrato. Ritiravano il pasto e tornavano immediatamente a letto».
Carcere e CPR: controllare e punire
Ripercorrendo la sua esperienza, L. evidenzia le analogie tra il carcere di Viterbo e il CPR, entrambe caratterizzate da un approccio che privilegia la punizione rispetto al reinserimento o alla tutela dei diritti delle persone trattenute. «In carcere», ricorda, «le persone vengono spesso collocate senza alcun criterio, e anche di fronte a evidenti incompatibilità, le segnalazioni vengono ignorate, con conseguenze potenzialmente molto pericolose». Questa mancanza di logica e trasparenza si amplifica nei CPR, dove, a differenza della prigione, non si conoscono né le ragioni precise della detenzione né cosa aspettarsi dal futuro. «In prigione, per quanto dura, sai perché sei lì. Sai a cosa andrai incontro. Ma nei CPR c’è solo terrore. Non sai perché ti portano lì né cosa aspettarti».
Rievoca poi l’assurdità di alcune situazioni vissute. «Quando mi portarono al CPR, un poliziotto mi disse: “Tranquillo, starai solo 2-3 giorni e ti daranno pure 20 euro al giorno”. Risposi che avevo un lavoro a tempo indeterminato e guadagnavo molto di più. Ma una volta arrivato, parlando con gli agenti del posto, scoprii che quella cifra era pura fantasia. Mi dissero che il pocket money era di appena 2,50 euro al giorno».
Quella somma esigua bastava a malapena per coprire necessità basilari. «Con quei 2,50 euro potevi comprare solo un po’ di bagnoschiuma, del tabacco o qualche sigaretta», spiega.
L. parla di una realtà che sembra quasi surreale, fatta di restrizioni inutili e regole rigide. «Qui sei ridotto a niente. La tua dignità viene calpestata ogni giorno. E poi c’è questo senso di incertezza continua: in prigione sai quando finirà la tua pena, qui no. Il tempo sembra allungarsi all’infinito, senza logica, senza spiegazioni»
Nel CPR, anche i gesti più semplici venivano ostacolati. «Un giorno chiesi una penna per scrivere, perché mi piace annotare i miei pensieri. Mi fu rifiutata: “Potrebbe essere usata come arma”, mi dissero. È stato allora che ho realizzato fino a che punto ti spogliano di tutto, persino della possibilità di esprimerti attraverso la scrittura».
Parlando della sua uscita dal CPR, L. mostra gratitudine ma anche incredulità per il modo in cui le cose si sono risolte. «Sono riuscito a uscire grazie a un’avvocata del posto. Il mio avvocato non aveva accesso al CPR, così mi è stata assegnata lei. Si è battuta con determinazione, sostenendo che non potevo continuare a restare lì. La mia liberazione non è stata automatica: è stata una conquista che lei ha ottenuto con grande fatica».
L. si esprime con fermezza su ciò che vorrebbe che le persone sapessero riguardo ai CPR. «Vorrei che si conoscesse la realtà di questi luoghi, senza le narrazioni edulcorate che spesso si sentono. Non è vero che chi è trattenuto lì riceve un trattamento umano, né che i famosi soldi destinati ai detenuti siano adeguati. Si tratta di sopravvivenza, di resistere alla privazione, e nulla più».
La sua riflessione si allarga poi al bisogno di controllo e catalogazione che sembra permeare l’intero meccanismo detentivo. «Abbiamo questa arroganza di etichettare, di controllare ogni cosa. Ma nei CPR non resta niente. Quando esci, sei svuotato, carico di una paura che non si dissolve. Ti sembra che chiunque possa farti del male, senza ragione». Questa paura, confessa, non lo ha mai abbandonato. «Ogni volta che vedo una pattuglia, mi sento sopraffatto dall’ansia. Penso al fatto che ho un’espulsione in atto e non so cosa potrebbe accadere. Per questo evito di uscire da solo e cerco sempre di essere accompagnato dalla mia ragazza o da qualcuno che mi conosce: così mi sento più al sicuro». L’allenamento fisico è diventato il suo rifugio, una forma di autodifesa contro il senso di vulnerabilità che lo segue costantemente. «La mia esperienza in comunità, in carcere e nel CPR mi ha insegnato una cosa: devi essere sempre pronto. È come se mi avessero imposto questa necessità di prepararmi a non subire, a non farmi mettere i piedi in testa».
L. riflette con lucidità sul peso della sua esperienza. «Quello che ho vissuto mi ha fatto sentire estraneo, fuori posto, come se non appartenessi a nessun luogo. È una sensazione che non ti abbandona, ti segue ovunque». Prosegue, guardando al futuro: «Vorrei che questi luoghi venissero chiusi. Non hanno motivo di esistere. Non avere un permesso di soggiorno non è un crimine, eppure veniamo trattati come fossimo criminali. È una punizione ingiusta, una privazione della dignità che non risolve nulla»
Parlando poi del sistema carcerario, amplia la riflessione alla sua esperienza nelle prigioni ufficiali. «Le carceri non hanno un vero scopo riabilitativo. Non offrono reali opportunità di riscatto. Dovrebbero essere un luogo in cui puoi imparare, migliorarti, ricostruirti. Invece, troppo spesso, ti lasciano peggio di come sei entrato».
L. conclude con un messaggio chiaro. «È fondamentale che le persone sappiano cosa accade nei CPR. Non possiamo ignorarli o accettare che vadano bene così. Conoscere questa realtà è il primo passo per evitare che la dignità di una persona continui a essere oggetto di negoziazione».
Daniela Galiè
13/12/2024 https://www.dinamopress.it/
Immagine di copertina di Shamballah da Openverse
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