La guerra economica contro i palestinesi
Non ci sono solo i massacri a Gaza: Israele sta strozzando lavoratori e lavoratrici dei Territori occupati, distruggendo l’Anp e ampliando gli insediamenti coloniali. La denuncia all’Organizzazione internazionale del lavoro
Dal 7 ottobre, quando Israele ha iniziato l’attacco a Gaza in risposta all’assalto a sorpresa di Hamas, i giornali di tutto il mondo si sono giustamente concentrati sui crimini del primo ministro Benjamin Netanyahu. Minore attenzione, relativamente parlando, è stata dedicata ai suoi abusi di potere in patria, dove a centinaia di migliaia di lavoratori palestinesi della Cisgiordania è stato negato il salario, insieme al diritto a un’esistenza dignitosa e alle libertà civili. E così come la brutale campagna di Netanyahu all’estero, attualmente oggetto di indagine per genocidio da parte della Corte penale internazionale, anche la negazione dei diritti di centinaia di migliaia di palestinesi da parte di Israele ha attirato l’attenzione legale internazionale.
Il 27 settembre 2024, le federazioni sindacali internazionali hanno presentato una denuncia contro Israele all’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Oil) – uno dei più antichi organismi di regolamentazione internazionale basato sulla collaborazione tripartita tra lavoro, capitale e governi. Nella loro denuncia, i sindacati sostengono che dal 7 ottobre il governo israeliano ha privato dei diritti di sostentamento e di un’esistenza dignitosa milioni di palestinesi per anni, e fino al 7 ottobre, impiegati in Israele.
La discussione, che si terrà in un tribunale tripartito in data ancora da definire, esaminerà le violazioni da parte di Israele delle convenzioni internazionali che ha firmato, in primo luogo la convenzione che garantisce il diritto al salario di base. Nella loro richiesta, i sindacati sostengono che i lavoratori palestinesi, rimasti senza lavoro dal 7 ottobre 2023, sono ancora effettivamente impiegati e quindi hanno diritto al loro salario e, di conseguenza, all’accesso al loro lavoro. Sebbene l’Oil non abbia l’autorità per imporre sanzioni, la discussione che avverrà potrà influenzare la posizione di Israele nel mondo sviluppato. Nel frattempo, in Israele c’è un silenzio assordante.
La responsabilità di Israele per il sostentamento dei palestinesi deriva dal suo controllo militare dei Territori palestinesi, sia in Cisgiordania che nella Striscia di Gaza. Per decenni, la politica di Israele ha garantito la dipendenza dei palestinesi dal mercato del lavoro israeliano, impedendo deliberatamente e sistematicamente lo sviluppo e l’indipendenza dell’economia palestinese. Dalle restrizioni draconiane sulla circolazione di merci e persone al blocco dello sviluppo di zone industriali, queste politiche hanno reso il lavoro in Israele l’alternativa più redditizia e quindi preferita da molti. Questa situazione fa sì che impedire ai palestinesi di lavorare in Israele in posti di lavoro da cui non sono stati licenziati, o di ricevere i loro risparmi pensionistici o l’indennità di licenziamento, sia una palese violazione delle convenzioni internazionali, in primo luogo la Convenzione sulla protezione dei salari del 1949. La durata della guerra in corso e la riluttanza del governo israeliano ad accettare un «Cessate il fuoco» hanno avuto la conseguenza di prolungare le difficoltà di molti palestinesi che non sono direttamente colpiti dalla violenza a Gaza.
Le basi della denuncia
I fatti alla base del procedimento legale sono gravi: dal 7 ottobre, il governo israeliano ha impedito l’ingresso di oltre 150.000 lavoratori e lavoratrici palestinesi, principalmente dalla Cisgiordania ma anche dalla Striscia di Gaza, che vi erano impiegati prima della guerra. Con quest’azione, il governo sta creando povertà e disagio per centinaia di migliaia di lavoratori disoccupati e per le loro famiglie. Si tratta dei lavoratori più forti e ricchi dei territori dell’Autorità nazionale palestinese, che fino al 7 ottobre guadagnavano salari relativamente alti in Israele. La loro esclusione dal mercato del lavoro israeliano danneggia non solo le loro famiglie ma anche l’economia palestinese nel suo complesso, che dipende dal lavoro dei palestinesi che lavorano in Israele dal 1967. Dalla creazione dell’Autorità nazionale palestinese, gli stipendi dei lavoratori palestinesi impiegati in Israele sono stati una delle principali fonti di denaro per le tasse, rappresentando circa il 20% del gettito fiscale totale.
Molti funzionari governativi (come il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich o il ministro della Polizia Itamar Ben-Gvir – entrambi appartenenti a partiti colonizzatori di estrema destra) si vantano di questa politica di esclusione e prevenzione e si impegnano pubblicamente a portarla avanti. Allo stesso tempo, i dati indicano che ha portato a un’impennata dei tassi di disoccupazione in Cisgiordania, provocando un forte deterioramento del reddito e aggravando il disagio materiale e la povertà. Di fronte alla fame e alla povertà sconvolgenti di Gaza, questi fatti crudi impallidiscono. Tuttavia, la combinazione di guerra ed esclusione economica ha avuto l’effetto di impoverire e affamare contemporaneamente i palestinesi di Gaza e della Cisgiordania.
Un crimine morale
Questa politica non ha alcuna logica economica o di sicurezza. L’establishment finanziario e della sicurezza – dalla Banca d’Israele, agli alti funzionari dei servizi militari e segreti, ai think tank che si occupano di sicurezza (come l’Istituto per gli studi sulla sicurezza nazionale) – ha sostenuto fin dai giorni successivi al 7 ottobre che i lavoratori palestinesi dovrebbero essere autorizzati a entrare in Israele per lavorare. Ciò è stato recentemente ribadito dal ministro degli Interni (Moshe Arbel, del partito ultraortodosso Shas). Permettere ai palestinesi di lavorare in Israele, hanno sostenuto, ridurrebbe il disagio materiale nei Territori occupati e preverrebbe i conseguenti disordini sociali e i rischi per la sicurezza.
I datori di lavoro hanno anche un disperato bisogno di lavoratori nei settori dell’edilizia, dell’industria, dell’assistenza e del turismo, che faticano a trovare manodopera disponibile (a basso costo e poco tutelata). I tentativi del governo di reclutare lavoratori migranti come sostituti hanno avuto finora un successo solo parziale. Dalle continue richieste dei datori di lavoro di riportare in patria i lavoratori palestinesi, sembra che questo sia un altro fronte in cui l’ostinato impegno del governo nella guerra sta creando una crisi generalizzata in tutto il paese.
Viste da una lente puramente economica, le azioni di Netanyahu sembrano irrazionali. Tuttavia, la logica che motiva Netanyahu e i suoi è un po’ più complicata e non può essere compresa in termini strettamente economici o di sicurezza. Netanyahu, insieme ai suoi fanatici partner politici di destra – Smotrich e Ben-Gvir tra gli altri – è motivato dal desiderio di distruggere la società palestinese, smantellare l’Autorità nazionale palestinese ed espandere l’insediamento ebraico, utilizzando l’oppressione economica e politica dei palestinesi per raggiungere questo scopo. Pertanto, il governo israeliano mina il coordinamento della sicurezza con l’Autorità nazionale palestinese e, mentre impedisce ai palestinesi di entrare in Israele, permette l’impiego di migliaia di palestinesi negli insediamenti. Questa politica svela il vero volto del governo: non la sicurezza, non l’economia, ma un’ideologia di espropriazione e distruzione.
I procedimenti legali presso l’Oil mettono in luce non solo l’enorme danno economico, ma soprattutto il crimine morale che contraddice i valori su cui si basa l’economia globale dalla Seconda guerra mondiale. Questo crimine è in netto contrasto con le convenzioni internazionali a cui Israele si è volontariamente impegnato per decenni – convenzioni che informano le leggi di base sul lavoro e il diritto del lavoro in Israele stesso.
Assaf S. Bondy è docente presso la Bristol Business School dell’Università di Bristol. Si occupa di economia politica comparata e sociologia del lavoro. Questo articolo è uscito su Jacobin Mag, la traduzione è a cura della redazione.
18/12/2024 https://jacobinitalia.it/l
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