È possibile la democrazia digitale?
Due saggi indagano, da prospettive diverse, il complicato rapporto tra piattaforme online e partecipazione anti-gerarchica. Per capire se possiamo sottrarci ai modelli totalizzanti che governano la nostra attività in rete
All’inizio, ci fu una tormenta di neve. Era il gennaio del 1978 e forti raffiche subtropicali che si muovevano verso nord si scontrarono sui Grandi Laghi con una corrente artica diretta a sud, generando una delle più terribili tempeste di neve nella storia degli Stati uniti. La Grande tormenta di neve del 1978 scaricò quasi un metro di neve su alcune parti del Michigan, causando quasi un centinaio di vittime e mezzo miliardo di dollari di danni, al netto dell’inflazione.
Bloccati a casa durante la grande nevicata, due appassionati di computer di Chicago decisero di costruire un sistema che gli avrebbe permesso di comunicare tra loro. All’epoca, la suite di protocolli Internet era ancora lontana anni dall’essere ampiamente utilizzata, ma i progressi nella microelaborazione avevano iniziato a portare i computer fuori dai laboratori e nelle case degli smanettoni. Con i primi modem si poteva «comporre il numero» e trasmettere informazioni su normali linee telefoniche, così Ward Christensen e Randy Suess, entrambi membri del Chicago Area Computer Hobbyists’ Exchange (Cache), unirono la loro competenza nella scrittura di software e nella modifica dell’hardware per creare un modem modificato a cui altri potevano collegarsi e sui quali lasciare messaggi da leggere in seguito.
Il risultato, ispirato alla bacheca reale appesa al muro durante le riunioni del Cache, è generalmente riconosciuto come il primo Bulletin Board System (Bbs) online, un primo social network che ha prefigurato i più familiari forum online e microblog di oggi. Come afferma lo studioso dei media Nathan Schneider, le Bbs erano note per «aver permesso agli appassionati di computer al di fuori del mondo accademico e dei centri di ricerca finanziati dall’esercito la loro prima esperienza di comunità mediata digitalmente».
Ma con questa comunità arrivò anche il sysop, o «operatore di sistema». Le bacheche online erano spesso fisicamente situate in casa di qualcuno, letteralmente collegate alla sua linea telefonica, e quindi davano a quella persona un’enorme influenza nel dare forma alle norme della comunità. Il sysop gestiva l’hardware e aveva accesso root al software Bbs, il che gli consentiva di eliminare i post a suo piacimento. Se ai membri della comunità non piaceva lo stile di moderazione o le decisioni dell’amministratore, non potevano far altro che abbandonare il servizio nella speranza di trovare pascoli più verdi altrove. Schneider chiama questo modello di governance «feudalesimo implicito», una struttura in cui il potere si concentra nelle mani di pochi, schema che persiste nelle comunità online fino a oggi.
Dopo Bbs arrivò UseNet, che offriva «newsgroup» decentralizzati pur preservando il potere degli amministratori di sistema. Una delle prime Faq di UseNet non avrebbe potuto dirlo in modo più diretto: «Chi può obbligare i moderatori a cambiare le loro policy? Nessuno».
Anni dopo, Facebook ha imitato il modello della bacheca quando ha creato il «Wall», ma la governance centralizzata è rimasta la norma. Nonostante un fugace esperimento di votazione degli utenti sui cambiamenti di policy, Facebook non ha mai ceduto in modo significativo il potere decisionale (cosa dovrebbero pubblicare gli utenti?) al vasto organismo internazionale di individui da cui trae il suo valore. Lo stesso vale per Twitter, ora X, governato in modo irregolare dal suo attuale sysop, Elon Musk, spesso come se i server fossero letteralmente riposti nel suo seminterrato.
Oggi, le lamentele sullo stato divisivo, dannoso e manipolativo della politica mediata online sono diventate un cliché. Dopo la rielezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati uniti, un numero crescente di accademici, attivisti e organizers sta cercando spazi alternativi. Molti si stanno spostando su Bluesky, così come su Mastodon, Signal e altri social network con differenti strutture di proprietà e design tecnici.
La sinistra può organizzarsi efficacemente in questa nuova era frammentata della comunicazione digitale? Queste nuove piattaforme sono davvero diverse o siamo condannati a faticare nelle miniere di contenuti, inseguendo sogni inafferabili di spazi online più democratici e partecipativi?
Riprendere i beni comuni
Nathan Schneider, scrittore, attivista e studioso della comunicazione, si è a lungo confrontato con le carenze democratiche degli spazi digitali. Nel suo ultimo libro, Governable Spaces (University of California Press, 2024), si allaccia a una tradizione di critica dei media di sinistra, seguendo opere come The People’s Platform di Astra Taylor e i recenti contributi di Ben Tarnoff e James Muldoon. Come questi autori, Schneider ricentra i dibattiti intorno alla tecnologia sulla necessità di sistemi gestiti collettivamente. Il suo libro è un invito stimolante a migliori strumenti digitali esplicitamente progettati come «medium democratici».
Schneider sostiene che le piattaforme digitali sempre più importanti che miliardi di noi in tutto il mondo stanno utilizzando per lavorare, divertirsi e comunicare sono, con poche piccole eccezioni, gestite come feudi aziendali autocratici e irresponsabili, con scarsa possibilità per gli utenti comuni di plasmare il modo in cui funzionano e vengono gestite. Per Schneider, il problema non riguarda solo le strutture di governance, ma il modo in cui queste piattaforme minano le pratiche democratiche quotidiane sia online che offline.
Schneider sostiene che la nostra sfera digitale ha subito una grave erosione democratica. Servizi «gratuiti» senza soluzione di continuità, finanziati da capitale di rischio, pubblicità e altri modelli aziendali, hanno ampiamente sostituito strumenti gestiti dagli utenti come newsletter della comunità e bacheche locali. Un tempo parte vibrante della cultura online, questo tipo di partecipazione di base è ora ampiamente confinato ad appassionati molto specializzati.
Questa cattura aziendale della sfera pubblica digitale va contestualizzata nel declino più ampio dell’impegno democratico. La sconfitta dei sindacati ha inferto un duro colpo alla democrazia sul posto di lavoro. L’adesione ai partiti politici è diminuita in modo massiccio in Europa e altrove. L’attuale «realismo capitalista» incoraggia a ritirarsi nella sfera privata, limitando la democrazia al fatto di recarsi al voto ogni pochi anni.
La stessa tendenza si verifica online. Le piattaforme esternalizzano sempre di più l’amministrazione del sistema e la moderazione della community a lavoratori di call center a basso salario in tutto il mondo. Verso la fine degli anni 2000, molte startup di Internet con sede negli Stati uniti, con un occhio alla crescita e al profitto, hanno scommesso che gli utenti non avrebbero voluto, o sarebbero stati troppo occupati per farlo, supervisionare il crescente carico di lavoro della regolamentazione dei contenuti. Invece, le aziende hanno delegato questo lavoro a team ad hoc di avvocati ed esperti di politica, esternalizzando la moderazione dei contenuti a call center nella periferia globale per gestire l’enorme volume di post segnalati.
Governable Spaces cerca di invertire questa tendenza ricostruendo pratiche democratiche online e creando collettivamente nuove forme di beni comuni digitali radicali. Per Schneider, non si tratta solo dello scopo e degli obiettivi degli spazi online, ma anche di come sono strutturati per facilitare la partecipazione. La sua analisi implica una visione storica, esaminando criticamente come spazi come Bbs e UseNet erano governati, oltre a riflettere su alcune delle innovazioni abbracciate da altre tecnologie connettive non tradizionalmente intese come social media. Cosa significherebbe spingersi esplicitamente oltre una mentalità «feudale» e cercare, dal basso, di coinvolgere cittadini e comunità in forme collaborative di costruzione di norme, definizione di regole e ricerca della giustizia?
La visione del libro sulla democrazia digitale è radicata negli sforzi di base e nella sperimentazione locale. Schneider e i suoi collaboratori sviluppano strumenti pratici per le persone che cercano, ad esempio, di spostare il loro gruppo WhatsApp di quartiere su un server open source che possono gestire insieme. Il loro progetto Metagovernance offre manuali per creare policy personalizzate, regole e persino sistemi di voto per dare potere agli utenti. Attraverso l’istruzione e l’organizzazione, Schneider spera di aiutare le comunità a trascendere il «problema sysop» attraverso decisioni informate sui compromessi inerenti alle diverse forme di organizzazione online.
I limiti del Leviatano
In The Networked Leviathan (Cambridge University Press, 2023), studioso di diritto e scienziato politico Paul Gowder affronta anche la sfida della governance nei social media e propone modi per approfondire la democrazia online in un’epoca di policrisi. Il suo punto di vista è leggermente diverso da quello di Schneider, così come la sua diagnosi di alcuni dei problemi che ci troviamo ad affrontare oggi nell’era di Bluesky, X, Telegram e TikTok.
Prendete un esempio semplice: un sistema di bacheche locali per appassionati di chitarra e musicisti amatoriali. Come utente abituale, potrei tollerare regole arbitrarie, come il divieto di immagini di bassi elettrici e la rapida rimozione di tutte le discussioni politiche, perché il lavoro degli amministratori mi risparmia lo sforzo di creare una comunità rivale. Potrei anche sentirmi bloccato dall’«effetto rete» e sentirmi riluttante ad abbandonare il forum in cui ho fatto amicizia e costruito connessioni.
Ora immaginate che questa bacheca cresca esponenzialmente, diventando una piattaforma internazionale tentacolare che comprende persone che pubblicano in più lingue e su più argomenti. Prima sono arrivati i bassisti, poi i fanatici dei synth, e ora è in qualche modo cresciuta in uno spazio che va ben oltre i soli strumenti e la musica. Non è più corretto descrivere la Bbs come un singolo spazio: fornisce una piattaforma per più comunità online occasionalmente sovrapposte ma comunque in qualche modo distinte.
A un certo punto, quando la piattaforma diventa abbastanza grande, il potere dei sysop si affievolisce. Sì, continuano a stabilire le regole, ma la loro capacità di implementarle effettivamente in modo efficace è messa a dura prova dalla scala e dalla complessità dello spazio online che supervisionano. I moderatori non riescono più a monitorare tutta l’attività sulla loro bacheca digitale, un tempo modesta, che non è più una bacheca ma milioni. Non hanno la competenza necessaria per comprendere le sfumature di certi dibattiti (sapere molto di chitarre non rende esperti delle complessità dell’incitamento all’odio) e hanno difficoltà con la moderazione multilingue. Il risultato è un fallimento della governance, che apre la porta a comportamenti dannosi, come campagne di molestie coordinate, doxxing e minacce di morte.
La cattiva governance può essere pericolosa. Al centro del libro di Gowder si nasconde uno dei casi più infami di moderazione negligente dei contenuti online fino a oggi: il ruolo di Facebook nel facilitare l’incitamento pubblico alla violenza contro le comunità Rohingya in Myanmar nel 2017. I dibattiti sulla politica tecnologica sono complessi e ci sono molte questioni, come la privacy degli utenti e l’entità del tracciamento online, che mettono a confronto l’interesse pubblico con i modelli di business aziendali e i film a scopo di lucro. Gowder sostiene che ci sono altre aree in cui questi interessi dovrebbero essere più o meno allineati, e questa è una di esse. Eppure l’architettura di governance di Facebook non è riuscita a fermare la diffusione dell’incitamento alla violenza.
Il problema, suggerisce Gowder, risiede nel fatto che le società multinazionali di piattaforme sono istituzioni tentacolari e complicate che, come altre istituzioni governative storicamente potenti e tuttavia complesse, possono essere afflitte da un problema di informazioni. Basandosi su James C. Scott e pensatori con idee simili, la questione può essere inquadrata come un problema di monitoraggio dell’attività, comprensione di ciò che sta accadendo nella politica e quindi azione su di essa: si tratta di «difficoltà nell’integrare la conoscenza e nell’offrire regole legittime a diversi gruppi di interesse».
In netta rottura con la consueta rappresentazione dei giganti della tecnologia odierni come forze onniscienti e orwelliane di controllo e manipolazione, il «leviatano della piattaforma» di Gowder affronta limiti organizzativi e tecnologici intrinseci al suo potere. Dopo tutto, le attuali piattaforme digitali su scala planetaria sono esponenzialmente più grandi e complesse delle microcomunità specialistiche di nicchia dei primi social network. Amazon gestisce un ecosistema di alcuni milioni di venditori terzi. Com’è noto, YouTube afferma che ogni minuto vengono caricate sul suo servizio più di cinquecento ore di video.
Man mano che crescono, questi attori aziendali motivati dal profitto e dalla necessità di minimizzare i costi affrontano una pressione crescente per garantire che i prodotti siano sicuri e non violino le leggi locali sulla tutela dei consumatori, e che gli utenti non incitino a forme pericolose di mobilitazione. Le aziende rispondono assumendo esperti, creando sistemi burocratici per lo sviluppo di politiche internazionali e sviluppando sistemi automatizzati che cercano di valutare i contenuti, o esternalizzando queste attività a un fiorente settore «safetytech».
Tuttavia, alcune sfide non implicano soluzioni facili. Il Myanmar era «l’unico paese al mondo con una presenza online significativa» che non aveva adottato ampiamente Unicode, un sistema per convertire gli script in una forma standardizzata e leggibile dalle macchine per la visualizzazione su dispositivi digitali. La maggior parte dei residenti del Myanmar, utilizzando il popolare carattere Zawgyi per rappresentare la complessa scrittura birmana, produceva quindi contenuti che erano letteralmente comprensibili ai sistemi su cui Facebook si basava per monitorare cosa facevano gli utenti. Altre aree emergenti di preoccupazione politica, come il materiale di abusi sessuali su minori online, sono ugualmente difficili da analizzare e costose da contrastare in modo responsabile, coinvolgendo team dedicati di investigatori specializzati con ampio mandato per ricercare in modo proattivo contenuti illegali.
Decentralizzare e autogovernare
Se dovessimo ricostruire le piattaforme odierne da zero, cosa faremmo per aggirare questi problemi di legittimità e capacità di governance? Una strategia potrebbe essere quella di decentralizzare il potere agli utenti, un obiettivo perseguito da Eugen Rochko, lo sviluppatore tedesco al centro del progetto Mastodon, servizio basato sul protocollo aperto ActivityPub.
La soluzione proposta da Gowder dà priorità alla capacità rispetto alla legittimità. Se pensiamo al problema delle informazioni sulla piattaforma, si potrebbe rendere più rappresentativi ed efficaci i regni estrattivi dell’economia di Internet contemporanea? Ad esempio, una piattaforma come Bluesky, con un team più coscienzioso di quello di Musk in X, potrebbe approfondire la democrazia della piattaforma creando assemblee di cittadini? Gowder immagina un sistema in cui gli utenti comuni possono partecipare alla governance delle piattaforme: fornendo feedback sulle politiche, deliberando sugli impatti locali e forse persino indirizzando le future spese di risorse sulla sicurezza e sullo sviluppo del prodotto. Il discorso è semplice: cosa succederebbe se Meta o OpenAI o Google o Bluesky mettessero un ampio e internazionale insieme di individui diversi nel loro libro paga come consulenti politici retribuiti?
La visione di Schneider, al contrario, è comunitaria, di base, fai-da-te, un ritorno all’ethos di IndyMedia e alla Battaglia di Seattle. Immagina un mondo in cui la maggior parte delle persone usa Mastodon o altre piattaforme federate. In questa visione, potrei pubblicare su una piccola bacheca che gestisco e pago per ospitare i miei amici; possiamo seguire altri che pubblicano su altre bacheche grazie alla potenza dei protocolli aperti. I server potrebbero essere ospitati a casa, a scuola o su piccoli provider cloud. Il tracciamento web potrebbe alla fine essere sostituito da donazioni, abbonamenti della comunità e altri modelli di business alternativi. La moderazione sarebbe collaborativa, potenzialmente utilizzando meccanismi di voto abilitati dalla blockchain. Scheider, notevolmente più ottimista sul potenziale politico della criptovaluta rispetto a molti critici tecnologici di sinistra, esplora concetti quali «decision making in tempo reale», «risoluzione algoritmica delle controversie» e «partecipazione senza autorizzazione» che potrebbero essere abilitati tramite tokenizzazione e architetture di piattaforma alternative. In questa visione, i governi sovvenzionerebbero queste infrastrutture anziché utilizzarle per il controllo sociale e politico, incentivando l’innovazione e la deliberazione democratica.
L’approccio di Gowder sembra molto simile allo status quo attuale, un mondo che preserva, per la maggior parte di noi, la realtà quotidiana di come utilizziamo i social network e altre piattaforme. Ci sono ancora i sysop, team di dipendenti addetti alle politiche a Menlo Park, Dublino e Seattle, ma ora sono meglio consigliati. Ad alcuni utenti potrebbe persino essere chiesto periodicamente di partecipare a una forma di «servizio di controllo» per le principali aziende. Se tutto va bene, questi individui forniscono buoni consigli e il loro contributo viene incorporato in modo significativo nel modo in cui le aziende tecnologiche prendono decisioni. I nostri nuovi signori aziendali comprendono meglio le complessità di come il loro servizio viene effettivamente utilizzato in tutto il mondo. Forse imparano persino dall’intero esperimento che dovrebbero dare valore a tutti i loro utenti, in particolare quelli che provengono da paesi a basso reddito in cui il valore in dollari per utente è basso per le Big Tech.
Verso la democrazia digitale
Letti insieme, Governable Spaces e The Networked Leviathan rivelano alcune delle numerose sfide che ci troveremmo ad affrontare se cercassimo di rendere uno o entrambi di questi mondi realtà. Gowder ci esorta a riflettere sull’efficacia e la qualità della governance: le piattaforme gestite dalla comunità saranno effettivamente in grado di sviluppare le solide circoscrizioni democratiche necessarie per fornire i benefici pubblici che promettono?
C’è da tempo un problema di partecipazione online. Nei primi anni del 2010, una serie di ricerche ha scoperto che Wikipedia, considerata da molti l’apice di un progetto non-profit gestito in modo collaborativo di «produzione tra pari», si basava solo sul 5% dei suoi redattori per produrre oltre l’80% dei contenuti. In che modo gli spazi online che cercano di moderare in modo collaborativo lo fanno in modo democratico su larga scala, se molti utenti non desiderano offrire il loro lavoro e invece preferiscono nascondersi e farsi una corsa gratis? Saranno effettivamente in grado di superare efficacemente le elevate spese degli strumenti di calcolo e delle competenze richieste per farlo?
Un’altra sfida ha a che fare con il problema della concentrazione, inerente ai sistemi tecnici complessi. La maggior parte degli utenti non è esperta di tecnologia e si è affidata all’usabilità più o meno agevole dei servizi gestiti con sviluppatori a tempo pieno. Come afferma il crittografo Moxie Marlinspike, «le persone non vogliono gestire i propri server e non lo faranno mai». Si tratta di un problema notevole che affligge gli sforzi per integrare gli utenti su piattaforme federate come Mastodon o servizi di chat di comunità autogovernati. Anche Web3 supportato da blockchain non fa eccezione: l’estrema complessità, e l’elevata posta in gioco nel commettere errori quando non c’è un pulsante di annullamento sui servizi tokenizzati, ha portato a una nuova ondata di intermediari, che diventano punti di strozzatura tra i servizi decentralizzati e l’utente.
Il lavoro di Schneider, d’altro canto, ci spinge a essere ambiziosi nella nostra visione di proprietà e controllo collettivi dell’infrastruttura digitale. Mentre il modello di Gowder potrebbe rendere aziende come Bluesky più efficaci, se scelgono di ascoltare i loro nuovi consulenti, preserva anche le piattaforme nell’attuale modello di capitalismo multinazionale. Se stiamo tutti lavorando nelle assemblee cittadine dell’economia digitale, non dovremmo fare un passo avanti e iniziare a chiedere una quota significativa del suo bottino?
Può essere difficile immaginare la reale fattibilità di approfondire le pratiche di democrazia online in un mondo che sembra più diviso che mai. È ancora più difficile se si considerano i molteplici modi in cui l’attuale modello Big Tech, la necessità di un’incessante marcia verso l’alto delle valutazioni tecnologiche, la creazione costante di nuovi cicli di hype, sono diventati sistematicamente importanti per la continua sostenibilità dell’economia globale. Tuttavia, tale lavoro intellettuale rimane un obiettivo vitale a lungo termine, più cruciale oggi che mai. Non dovremmo rifuggire dal progetto potenzialmente utopico di «stack» computazionali significativamente governabili, anche se, come ha scritto James Muldoon , le probabilità sono contro di noi ed «è diventato più facile per noi immaginare che gli umani vivano per sempre in colonie su Marte piuttosto che esercitare un significativo controllo democratico sulle piattaforme digitali».
Attraverso l’organizzazione, la promozione e, sì, nuove e fantasiose forme istituzionali socio-tecniche, potremmo un giorno riuscire finalmente a sfuggire alla forte attrazione gravitazionale delle gerarchie implicite di Internet.
Robert Gorwa si occupa della governance delle piattaforme e di altre sfide politiche transnazionali poste dal capitalismo digitalizzato. È ricercatore post-dottorato presso il WZB Berlin Social Science Center. Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione.
19/12/2024 https://jacobinitalia.it
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