Essere uno storico e un attivista politico. Una conversazione con Ilan Pappè

Storico israeliano emigrato in UK e punto di riferimento del movimento per la solidarietà palestinese, Ilan Pappè è una figura molto divisiva, non solo all’interno della comunità accademica. Una conversazione con lui a qualche settimana dall’uscita del suo ultimo libro per Fazi Editore.

Professore di storia all’Università di Exeter, Ilan Pappè è un riferimento del movimento in solidarietà con la Palestina. Nato ad Haifa nel 1954, è il più noto dei nuovi storici israeliani che si sono dedicati a ridefinire la narrazione del proprio paese, assieme a Zeev Sternhell e Benny Morris. Estremamente critico con il nazionalismo della storiografia ufficiale, Pappè è emigrato nel Regno Unito dopo il cosiddetto caso Tantura, una dura polemica intorno alla tesi di dottorato di uno studente, Teddy Katz – che poi l’ha in parte ritrattata – su un massacro fatto dagli israeliani nel ’48 contro la popolazione palestinese nel villaggio di al-Ṭanṭūra. Fieramente antisionista e sostenitore del boicottaggio accademico, Pappè ha scritto molti volumi tradotti in italiano, tra cui uno assieme al linguista e attivista Noam Chomsky – che invece si oppone al boicottaggio. Il suo ultimo libro, tra il pamphlet e la sintesi storico-politica, si intitola Brevissima storia del conflitto tra Israele-Palestina (Fazi 2024).

Il secondo nuovo storico israeliano più noto è Benny Morris, una sorta di nemesi di Pappè. In un’intervista per Haaretz nel 2004 sostenne, tra varie affermazioni razziste giustificate attraverso la consueta lente del “realismo”, che il primo ministro israeliano Ben Gurion, nel ’48, avrebbe dovuto compiere “un’espulsione totale” – anziché una parziale –, così da dare “allo Stato d’Israele la stabilità per generazioni”. Secondo Morris, la pulizia etnica, che lui stesso ha contribuito a raccontare attraverso il suo Vittime (Rizzoli 2001), era “giustificata” contro il rischio di annullamento del popolo ebraico.

Morris ha accusato Pappè di essere un falsario contestando alcune delle sue fonti e risultati. L’autore di La pulizia etnica della Palestina (Fazi 2008) gli rispose affermando che, più che uno storico, Morris fosse un “ciarlatano”, uno che, attraverso la sua ideologia di destra, metteva insieme cronologie di eventi.

Nella risposta a Morris, contro la falsa oggettività di quest’ultimo, Pappè rivendicava le proprie scelte politico-morali e scriveva: “Il dibattito tra noi si colloca sul piano del confronto tra gli storici che credono di essere ricostruttori puramente oggettivi del passato, come Morris, e quelli che sostengono di essere persone che soggettivamente cercano di raccontare la propria versione del passato, come me”. Le narrazioni si basano sul materiale disponibile e cercano di dare una ricostruzione fedele dell’accaduto, ma purtroppo non si può “viaggiare indietro nel tempo per verificarlo”.  La conversazione con Pappè, avvenuta via zoom, parte proprio da qui.

Come descriveresti il rapporto tra essere uno storico e fare attivismo politico?

Penso che tra le due sfere ci sia una relazione inevitabile. Quando lavori sulla Palestina essendo nato e cresciuto lì, in Israele, è inevitabile che l’attivismo e la ricerca accademica vadano insieme. Inoltre, ho scoperto dai miei studenti, in particolare quelli di master, che il loro lavoro accademico è decisamente migliore quando sono impegnati anche come attivisti. È molto più profondo, interessante e professionale. Perciò, penso che la connessione tra attivismo e ricerca sia produttiva. Ma, naturalmente, date le diverse modalità di espressione e i requisiti, bisogna essere consapevoli della differenza tra le due forme di scrittura. Tuttavia c’è sicuramente un beneficio reciproco per un attivista che è accademico o, viceversa, per un accademico che è attivista, poiché i due campi dell’indagine e dell’attivismo si influenzano a vicenda in modo estremamente positivo.

Nel tuo ultimo libro “Brevissima storia del conflitto tra Israele e la Palestina” hai scritto: “È tempo di riconoscere che il movimento nazionale palestinese è un movimento anticolonialista”. Pensi che la lente del colonialismo d’insediamento sia l’unica attraverso cui comprendere la storia del conflitto? E come spieghi il fatto che il sionismo, come hai scritto, fosse anche una risposta all’antisemitismo?

Sì, penso che il colonialismo d’insediamento sia il paradigma migliore per comprendere il sionismo. Perché questo è ciò che il sionismo è diventato nel momento in cui le idee fondamentali che informavano il movimento sono state tradotte, alla fine del XIX secolo, in un progetto che cercava di realizzarle in Palestina. Ciò significa che il sionismo è iniziato come una risposta all’antisemitismo, ma quando i leader del movimento hanno creduto che l’unico modo per affrontare l’antisemitismo fosse colonizzare la Palestina, quella risposta all’antisemitismo è diventata un movimento di colonialismo d’insediamento. Questa dinamica è simile a quella che ha visto protagonisti molti europei perseguitati in Europa – come i cattolici o puritani in Gran Bretagna – che hanno trovato una via di fuga colonizzando il Nord America. Non c’è contraddizione tra un’ideologia europea che cerca di affrontare il razzismo e il fatto che il momento queste comunità decidono che l’unica soluzione sia colonizzare la terra di qualcun altro.

Il sionismo, nelle sue idee fondamentali, è sempre stato eliminatorio o sarebbe stato possibile costruire un’altra forma di coesistenza in Palestina? Insomma, secondo te, le idee a favore di uno stato binazionale del gruppo Brit Shalom (‘Patto di pace’) fondato nel 1925 da Martin Buber, Gershom Scholem, Hans Kohn e altri erano solo eresie?

Penso che il sionismo maggioritario, ossia quello dei leader del movimento, fin dall’inizio, non avesse problemi morali nel perseguire politiche eliminatorie – e le politiche eliminatorie non implicano necessariamente il genocidio. Penso che la dirigenza sionista si concentrasse più sullo sradicare la popolazione palestinese che sull’eliminarla. Le operazioni di pulizia etnica ebbero già inizio negli anni ’20.

Tuttavia ci sono state altre voci all’interno della comunità sionista, come quelle associate negli anni ’20 a Brit Shalom, il gruppo di sionisti che credevano in uno stato binazionale. È difficile stabilire cosa sarebbe successo facendo ipotesi. Quello che posso dire  come storico è che non c’era alcuna possibilità che il movimento sionista laburista potesse accettare le idee di Brit Shalom. È molto difficile fare ipotesi come storico su cosa sarebbe successo se Brit Shalom fosse stato maggioritario. “Cosa sarebbe successo se” è qualcosa che di solito diciamo ai nostri studenti di non fare, ma è importante notare che esisteva. 

Erano l’eccezione che non conferma la regola. La regola, che è stata incarnata prima dai sionisti laburisti e poi dai sionisti di destra, era l’idea che, moralmente, storicamente, politicamente e di fatto, l’unico modo per avere uno stato ebraico democratico fosse avere la massima porzione possibile di Palestina con il minor numero possibile di palestinesi. E per farlo tutti i mezzi erano giustificati. Questo vale, pur nella diversità delle opinioni, tanto per il sionismo di sinistra quanto per quello di destra. La sinistra, va ricordato, ha perpetrato la pulizia etnica del 1948 e ora la destra sta facendo qualcosa di ancora peggiore: sta mettendo in atto un genocidio. Ma storicamente parlando, tutto questo fa parte della stessa strategia eliminatoria, sfortunatamente.

Recentemente hai sostenuto che i militanti di Hamas fossero stati educati alla violenza da parte di Israele. E che “non dobbiamo essere tanto certi che, se a subire quel trauma fossimo noi, senza una soluzione in vista, reagiremmo meglio”. L’oppressione israeliana contro i palestinesi avviene in nome dell’identità ebraica. È facile quindi che l’odio si rivolga non solo contro gli oppressori ebrei israeliani ma anche contro gli ebrei. Diresti che c’è stata anche una dimensione antisemita in ciò che è accaduto il 7 ottobre, o è stato solo un’azione anticoloniale?

No, non credo che ci sia nulla di antisemita nella resistenza palestinese, inclusa quella del movimento islamico politico. Penso che, indipendentemente dai metodi utilizzati dalla resistenza palestinese o da chi la guida, siano essi di sinistra, centro o i gruppi dell’islamismo politico, le motivazioni riguardino l’oppressione, l’occupazione, la pulizia etnica, il genocidio. Quindi, la loro reazione contro gli ebrei che fanno parte di Israele è dovuta a ciò che questa società e il suo stato stanno facendo ai palestinesi. Non riguarda la loro identità religiosa. A volte c’è confusione, perché in arabo i palestinesi chiamano i cittadini israeliani Yahūd, gli ebrei.

Ma anche i sionisti affermano che non ci sia differenza tra sionisti ed ebrei. E questo, a volte, porta a percepire un tono più antisemita nelle critiche antisioniste, ma esso è totalmente focalizzato sulla società, sullo stato e sull’esercito coloniale. Quindi penso che l’attacco del 7 ottobre abbia poco a che fare con l’antisemitismo in sé.

Eppure nel famoso statuto di Hamas del 1988, che poi è stato cambiato, c’erano topoi antisemiti. Ad esempio, l’articolo 22 che dice che gli ebrei sionisti con il “denaro hanno preso il controllo dei mezzi di comunicazione del mondo, per esempio le agenzie di stampa, i grandi giornali, le case editrici e le catene radio-televisive. Con questo denaro, ha fatto scoppiare rivoluzioni in diverse parti del mondo con lo scopo di soddisfare i suoi interessi e trarre altre forme di profitto. Questi nostri nemici erano dietro la Rivoluzione francese e la Rivoluzione russa, e molte delle rivoluzioni di cui abbiamo sentito parlare, qua e là nel mondo. È con il denaro che hanno formato organizzazioni segrete nel mondo, per distruggere la società e promuovere gli interessi sionisti. Queste organizzazioni sono la massoneria, il Rotary Club, i Lions Club, il B’nai B’rith”. Come puoi essere così sicuro che l’odio, che pure è comprensibile, non possa avere una dimensione anche antisemita?

Lo statuto di Hamas contiene riferimenti antisemiti e stupidi, ma un movimento non si giudica da un documento scritto da un piccolo numero di giovani arrabbiati sotto occupazione. Alcuni dei topoi nella Carta sono citazioni del Corano e furono usati da un gruppo di giovani palestinesi a Gaza per creare un movimento che combattesse il sionismo [Pappè si riferisce al settimo articolo della Carta, il cui finale recita: “Il Profeta (…) dichiarò: ‘L’Ultimo Giorno non verrà finché tutti i musulmani non combatteranno contro gli ebrei, e i musulmani non li uccideranno, e fino a quando gli ebrei si nasconderanno dietro una pietra o un albero, e la pietra o l’albero diranno: O musulmano, o servo di Allah, c’è un ebreo nascosto dietro di me – vieni e uccidilo; ma l’albero di Gharqad non lo dirà, perché è l’albero degli ebrei’ al-Bukhari e Muslim”, ndr]. Fu una scelta sbagliata, ma non rifletteva l’antisemitismo. Rifletteva un tentativo di utilizzare la religione per galvanizzare il sostegno religioso contro l’occupazione, perché le forze laiche e di sinistra avevano totalmente fallito in ciò. 

È importante capire il contesto di chi ha redatto questo statuto nel 1988, che, come lo statuto dell’OLP del 1968, conteneva frasi poi divenute irrilevanti – come la richiesta che tutti gli ebrei arrivati dopo il 1917 se ne andassero. Non penso che ci si debba concentrare su questo, non è il movente. Il movente non è l’odio verso gli ebrei. Al contrario, Hamas, come Fatah prima di loro, crede nella vecchia Palestina precedente al 1914, in cui ebrei, musulmani e cristiani vivevano insieme. Quello è ciò che conta. La lotta contro il sionismo non è una lotta contro gli ebrei.

Qual è la tua opinione sull’idea che l’antisemitismo sia in aumento? È solo uno strumento per reprimere il movimento palestinese e i migranti di seconda generazione in Europa o ci sono anche casi reali in aumento, ad esempio da parte di chi confonde l’identità ebraica con quella israeliana?

Non so se ci sia un aumento, ma certo esiste ancora. E, senza dubbio, il fatto che molte persone equiparino lo Stato di Israele al giudaismo – il che è un errore, ovviamente – è un successo del progetto sionista. Quindi tutto ciò che fa Israele può essere visto da persone poco istruite come qualcosa che riflette la religione ebraica, mentre non è così. In realtà, gran parte di ciò che fa Israele è contro la religione ebraica. Dopo 100 anni di propaganda con cui il movimento sionista ha sostenuto di rappresentare la religione ebraica, non sorprende che l’opposizione a Israele possa essere confusa con l’opposizione al giudaismo. Ma, nella mia esperienza, la maggior parte delle persone nel movimento di solidarietà con i palestinesi si oppone anche all’antisemitismo, perché il loro impulso principale è resistere al razzismo sionista e al colonialismo. 

“Non credo che ci sia nulla di antisemita nella resistenza palestinese, inclusa quella del movimento islamico politico. Penso che, indipendentemente dai metodi utilizzati dalla resistenza palestinese o da chi la guida, siano essi di sinistra, centro o i gruppi dell’islamismo politico, le motivazioni riguardino l’oppressione”.

Tuttavia, tutti i governi occidentali equiparano l’antisemitismo all’antisionismo, il che contribuisce all’aumento dell’antisemitismo. Di fatto, se ad esempio il governo italiano avesse chiarito che l’antisionismo è una forma di antirazzismo e che l’antisemitismo è una forma di razzismo, penso che i numeri relativi agli episodi e alla retorica antisemiti crollerebbero. Sotto la pressione israeliana, tutti i governi europei equiparano l’antisionismo all’antisemitismo, e ciò potrebbe dare un’impressione falsata dell’aumento dell’antisemitismo. L’antisionismo è una posizione morale molto valida per le persone che si oppongono al razzismo, al colonialismo e all’oppressione.

Mi sembra che a volte ci sia una sorta di anti-nazionalismo selettivo. Ovviamente capisco perché si possa sostenere il nazionalismo di una popolazione occupata o colonizzata, ma in certe posizioni o ragionamenti si essenzializza l’identità degli oppressi, come se questa non fosse una comunità immaginata, proprio come tutte le nazioni. Ma il problema dell’identità nazionale sionista, rispetto ad altre, è che questa hauna caratteristica discriminatoria specifica, ovvero il fatto che l’identità ebraica non sia acquisibile come la cittadinanza italiana – anche l’essere italiani ha una dimensione razziale, ma idealmente è più universalizzabile rispetto all’identità ebraica. In questo senso, l’antisionismo rappresenta un’opposizione a una specifica forma di nazionalismo. Ma non pensi che, anche se ora la priorità è quella di contribuire a fermare il genocidio, in generale, nel movimento, ci sia il rischio di un nazionalismo dannoso?

No, il problema del sionismo è che la sua ossessione fondamentale è l’eliminazione dei palestinesi. Questo è il punto, non se il sionismo rifletta o meno un’idea universale di nazionalismo. Nella realtà, tanto per un sionista di sinistra quanto per uno di destra, l’unico modo in cui si può vedere l’attuazione dello stato-nazione degli ebrei è eliminando i palestinesi. Questo è il problema di ogni progetto coloniale di insediamento, che è motivato da ciò che il defunto storico Patrick Wolfe ha definito “la logica dell’eliminazione dell’indigeno”.

Quindi, se si trova un modo per definire l’identità collettiva ebraica in una forma non sionista, non credo che alcun palestinese vi si opporrebbe. Ma nel momento in cui la stragrande maggioranza, il 95% circa degli ebrei in Israele vuole definire l’identità collettiva ebraica attraverso il sionismo, questo implica l’eliminazione dei palestinesi. È un’identità nazionale eliminazionista moralmente inaccettabile. È inoltre impraticabile e non funzionerà nemmeno.

Quindi il problema è anzitutto quello di fermare il genocidio, ma bisogna capire perché questo stia avvenendo. E la ragione consiste in questo DNA del sionismo: lo stato ebraico può esistere solo eliminando i palestinesi. Pertanto, l’unica soluzione è avere un’identità collettiva ebraica che non sia nazionale.

Non è possibile, da nessuna parte, definire un gruppo religioso in termini nazionali. Ma questo è un altro problema. Gli ebrei, come altri 42 gruppi nel Mashreq, erano un gruppo etnoculturale e possono tornare ad esserlo. A meno che non si accontentino, come la maggior parte delle persone laiche, di essere cittadini uguali su base individuale. Gli ebrei che vivevano in Palestina possono avere un’identità etnoculturale – su questo non ci sono dubbi – e sono sicuro che verrà rispettata dai palestinesi. Non voglio parlare a nome dei palestinesi, ma questa è la mia impressione. Tuttavia, una nazione o una nazionalità ebraica che non sia sionista non è mai esistita. Pertanto, bisogna trovare un modo per accettare l’idea di uno stato democratico per tutti – cosa che i palestinesi hanno sempre richiesto e che Israele ha sempre rifiutato. Oppure, se gli ebrei in Israele vogliono mantenere una parte della loro identità collettiva etnoculturale, anche questo può essere rispettato. Ma non si può immaginare un futuro né per gli ebrei né per gli arabi nella Palestina storica finché il sionismo rimarrà l’ideologia principale a cui la società ebraica aderisce.

Tu sostieni che i giovani ebrei della diaspora si sentono estranei al progetto sionista. Hai scritto che “meno della metà degli ebrei americani di età compresa tra i 18 e i 34 anni ha un’opinione favorevole del governo israeliano”. Come lo spieghi?

Credo ci sia un numero impressionante –soprattutto in America, ma suppongo anche altrove – di giovani ebrei che fanno parte del movimento di solidarietà con i palestinesi. Questo è comprensibile perché rappresenta un modo, prima di tutto, di liberare la propria identità coll da Israele e dal sionismo, non in modo passivo, ma attivo. In qualche misura, si tratta anche di un senso di responsabilità per ciò che è stato fatto dallo Stato di Israele contro i palestinesi in nome dell’ebraismo. È anche un desiderio, credo, di correggere alcune ingiustizie della Storia.. Inoltre, penso che questo crei un’identità culturale, anche per gli ebrei laici, dissociata dal sionismo e da Israele, ma radicata nella civiltà e cultura e, forse, nella storia ebraica. Ognuno sceglie i propri riferimenti, ma sembrerebbe che l’associazione dominante in passato, specialmente negli Stati Uniti, per cui “Sono ebreo e quindi sono connesso anche allo Stato ebraico” si sia indebolita notevolmente.

Hai sostenuto che nel campo palestinese sta emergendo “una visione convincente di come sarebbe una Palestina liberata e del ruolo dei milioni di ebrei israeliani all’interno di essa, [e che] questa giovane generazione trasformerà radicalmente la realtà sul campo.” Su cosa si basa questa speranza e in che relazione si trova con la possibilità di uno stato unico?

Negli anni ho conversato e dialogato con molti giovani palestinesi di diverse comunità. Ho letto ciò che hanno scritto, ascoltato i loro seminari e discussioni. Talvolta mi è stato consentito anche di vedere la loro corrispondenza privata. Molti di loro sono stati miei studenti di magistrale. Conosco molto bene le loro opinioni e visioni. Quando le considero nel loro insieme, trovo che rappresentino un capitale umano impressionante e che loro siano un gruppo molto più unito rispetto all’attuale realtà politica palestinese. Nel movimento palestinese credo che abbiano una visione molto chiara per il futuro e un’idea abbastanza precisa di ciò che vogliono ottenere. Penso però che manchino ancora di organizzazione e coordinamento, e che per fare la differenza debbano affrontare le istituzioni del movimento nazionale palestinese. Ne stanno discutendo in questo periodo, anche mentre parliamo. Credo che stiano valutando se vogliano cambiare queste istituzioni dall’interno, o se vogliono costruirne una nuova, assieme ad un nuovo movimento. È un processo lento, ma si sta muovendo nella direzione giusta, e mi aspetto di vedere in futuro un movimento nazionale palestinese molto più coeso e meno frammentato.

Credo che si concentreranno sulla soluzione dello stato unico, e non parleranno più di due stati. I palestinesi dovranno trovare un modo per diventare concretamente un movimento di cambiamento, ma ora stanno vivendo un pericolo esistenziale. Quando si sta combattendo per la propria vita, è molto difficile fare strategie. Ma specialmente i giovani palestinesi che vivono al di fuori della Palestina storica stanno lavorando in modo strategico, e alla fine, spero e credo che arriveranno a una visione molto più chiara e utile per il futuro. Il movimento di solidarietà avrà un indirizzo chiaro, come lo avevamo nel caso dell’African National Congress (ANC) durante la lotta contro l’apartheid in Sud Africa. Per questo credo molto nel potenziale e nelle possibilità di questa generazione di mostrarci la strada da seguire.

“Il problema è anzitutto quello di fermare il genocidio, ma bisogna capire perché questo stia avvenendo. E la ragione consiste in questo DNA del sionismo: lo stato ebraico può esistere solo eliminando i palestinesi”.

Al di là della prospettiva di lungo periodo, come vedi la possibilità di fermare il massacro? Pensi che il diritto internazionale possa fare qualcosa, o, come stiamo vedendo, i governi occidentali riescono a ignorarlo facilmente?

Temo che sia molto difficile capire come possiamo fermarlo, perché, come dici, i governi occidentali ignorano il diritto internazionale. Il diritto internazionale contiene gli strumenti per porre fine al genocidio, ma c’è molta ipocrisia e doppiezza sul diritto internazionale in Occidente, il che è molto pericoloso per l’intero sistema del diritto internazionale. I tribunali internazionali stanno cercando di dire ai governi occidentali ‘dovete agire’, che non si può pretendere il rispetto del diritto internazionale in Ucraina e ignorarlo completamente in Palestina. Posso solo sperare che i nostri sforzi come parte del movimento di solidarietà, da un lato, e la straordinaria resilienza e resistenza dei palestinesi, alla fine porteranno alla fine del genocidio. Perché una cosa è chiara, l’attuale governo israeliano ha ben poca voglia di fermarlo – anche a costo di non ottenere il ritorno degli ostaggi che Hamas ha preso il 7 ottobre.

Ma posso solo sperare che, alla fine, almeno alcuni governi occidentali aumenteranno la “pressione” su Israele e seguiranno le raccomandazioni della Corte Internazionale di Giustizia e della Corte Penale Internazionale. Noi nel movimento di solidarietà dobbiamo triplicare i nostri sforzi, perché avremmo dovuto fermare questo genocidio già molto tempo fa. È incredibile, soprattutto in Occidente, come un genocidio stia andando avanti, giorno dopo giorno, sotto i nostri occhi. I governi occidentali sono totalmente silenti , così come i media. Ma penso anche che, ognuno di noi per quello che è il  proprio ruolo, stia facendo il possibile per fermarlo, e spero che avremo successo. Il movimento di solidarietà ha un ruolo. I palestinesi sul terreno hanno un ruolo. Speriamo, speriamo che questo impegno comune metta fine a tutto ciò il prima possibile.

Bruno Montesano

Dottorando in “Mutamento sociale e politico” presso le Università di Torino e Firenze. Collabora con diverse testate e ha curato Israele-Palestina. Oltre i nazionalismi (E/O, 2024).

20/12/2024 https://lucysullacultura.com/

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