Perché Israele sta conducendo una guerra contro i bambini palestinesi

I giovani hanno ereditato dalle generazioni passate l’amore per la terra, preservando il sogno del ritorno, e per questo devono essere eliminati.

Fonte: English version

Di Soumaya Ghannoushi – 25 marzo 2025

Immagine di copertina: Un bambino palestinese trasporta cibo a Beit Lahia, Gaza, il 15 marzo 2025 (Omar al-Qattaa/AFP)

Camminano a piedi nudi tra le macerie: bambini che trasportano bambini, piccole braccia avvolte attorno ai fratelli più piccoli, aggrappandosi a ciò che resta della loro famiglia.

A Gaza non c’è sicurezza, né silenzio, né tregua. C’è solo movimento: fuga, sepoltura, fuga di nuovo. Le bombe li inseguono ovunque. I carri armati li inseguono nei vicoli. I droni ronzano in alto, osservando, aspettando di colpire.

Abbiamo visto i loro volti. Alcuni sono coperti di cenere, troppo storditi per piangere; altri urlano nomi nella polvere, nomi che non rispondono più. Bambini, completamente soli, vagano da una tomba all’altra.

Molti non hanno più nemmeno un nome, solo dei segni, un numero, un’etichetta scarabocchiata a penna sul braccio in modo che se muoiono, qualcuno possa sapere chi erano.

E ancora, vengono braccati.

All’inizio di questo mese, prima che sorgesse il sole, circa 200 bambini sono stati uccisi in una sequenza coordinata di attacchi israeliani. Ciò non è accaduto in combattimento, né per errore. Sono morti nelle case, nelle tende, nel sonno; avvolti in coperte, sotto soffitti crollati come un secondo cielo.

Quando le è stato chiesto del Massacro, l’ambasciatrice israeliana nel Regno Unito, Tzipi Hotovely, non ha battuto ciglio. Non ci sono state scuse, nessuna manifestazione di dolore, nemmeno la parola “bambini”. C’era solo il consueto copione su Hamas, scudi umani e autodifesa.

Strategia di occultamento

All’interno di Israele, l’inquadratura è stata ancora più fredda. I morti sono stati descritti come “terroristi eliminati”. Non sono stati forniti nomi o età. Secondo la giornalista israeliana Orly Noy, “i media hanno adottato l’affermazione che non ci sono innocenti a Gaza”.

Questo linguaggio è diventato la normalità, “adottato in modo che il Primo Ministro Benjamin Netanyahu e l’esercito possano continuare a compiere il Genocidio”. Non è un fallimento del giornalismo. È una strategia di occultamento.

Ma il mondo ha visto, contando un piccolo cadavere dopo l’altro. Da ottobre 2023, più di 18.000 bambini sono stati uccisi a Gaza, e si ritiene che molti altri siano ancora sotto le macerie.

Questi non sono incidenti. Questa è strategia.

La fame è il secondo assedio. Un anno fa, l’UNICEF ha riferito che nel Nord di Gaza, circa un bambino su tre sotto i due anni era gravemente malnutrito, “un incremento sbalorditivo” rispetto ai mesi precedenti. A Khan Younis, il 28% dei bambini stava morendo di fame, con oltre il 10% sull’orlo della morte per deperimento. I loro stomaci si gonfiano; i loro arti si restringono. La fame li attanaglia mentre i capi di Stato mondiali discutono di “corridoi umanitari”.

Quando arriva la malattia, non ci sono ospedali, medicine e acqua pulita. I bambini di Gaza non vengono solo bombardati; sono affamati, infettati e lasciati senza cure.

Secondo un articolo della rivista medica The Lancet pubblicato l’anno scorso, allora c’era un servizio igienico ogni 220 persone e una doccia ogni 4.500. La malattia è la nuova arma, con centinaia di migliaia di infezioni respiratorie acute e casi di dissenteria nei bambini sotto i cinque anni.

Coloro che sopravvivono alle bombe e alla fame spesso perdono gli arti. Circa 10 bambini al giorno vengono amputati. In stanze buie e senza anestesia, i chirurghi tagliano la loro carne con la luce delle torce.

Gaza ha ora il numero più alto di bambini amputati pro capite al mondo. Che tipo di guerra produce una generazione di bambini senza gambe? Che tipo di Stato combatte quella guerra e la chiama autodifesa?

Negli ospedali di Gaza ora c’è un termine: WCNSF: “Bambino Ferito, Nessuna Famiglia Sopravvissuta”. È scritto sulle cartelle cliniche. Questi sono gli orfani tirati fuori dalle macerie: bruciati, insanguinati e soli, senza nessuno che pronunci il loro nome.

Ridefiniti come minacce

Mentre i bambini di Gaza vengono seppelliti o spezzati, nella Cisgiordania occupata vengono legati e ridotti al silenzio.

Ogni anno, tra 500 e 700 bambini palestinesi, alcuni dei quali hanno appena 12 anni, vengono arrestati e processati nei tribunali militari israeliani. L’accusa più comune è il lancio di pietre.

Molti vengono trascinati fuori dalle loro case di notte, bendati e ammanettati. Vengono portati via senza preavviso e interrogati senza la presenza di genitori o avvocati. Vengono picchiati, minacciati e costretti a firmare confessioni, spesso in ebraico, una lingua che non capiscono.

Il mese scorso, il quattordicenne Muin Ghassan Fahed Salahat è diventato il più giovane palestinese trattenuto in detenzione amministrativa, senza accusa o processo. Sulla base di prove segrete che né lui né il suo avvocato possono vedere, la sua detenzione può essere rinnovata indefinitamente.

Questa non è un’eccezione. È la regola. Dall’inizio della Seconda Intifada fino al solo 2015, più di 13.000 bambini palestinesi sono stati arrestati dalle forze israeliane.

Migliaia di altri vengono uccisi. Secondo DCIP (Difesa Internazionale per Infanzia-Palestina), almeno 2.427 bambini palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane tra la Seconda Intifada e la metà del 2024, escludendo quelli uccisi a Gaza dopo il 7 ottobre 2023. Le uccisioni abbracciano decenni, posti di blocco, campi profughi e città. La portata della violenza non può essere liquidata come danno collaterale. È politica: ripetuta, istituzionalizzata e raffinata.

La crudeltà si estende oltre la violenza. Infetta il linguaggio.

Verso la fine del 2023, durante uno scambio di ostaggi, i prigionieri israeliani sono stati scambiati con prigionieri palestinesi, molti dei quali minorenni. Ma la BBC, e persino il Guardian inizialmente, non li chiamarono “bambini”. Invece, vennero definiti “adolescenti” o “persone di età pari o inferiore a 18 anni”. Tali eufemismi deliberati riflettono una cancellazione silenziosa: privali dell’infanzia e li priverai della compassione. Privali dell’innocenza e le loro gabbie non avranno bisogno di chiavi.

Questa non è una negligenza retorica. Fa parte di una strategia ideologica per ridefinire i bambini palestinesi come minacce, non vittime. Se non sono bambini, ucciderli non è un crimine e non è necessario piangerli.

Decenni di Cancellazione

Questa Cancellazione non è iniziata ieri. È vecchia di decenni.

Durante la Prima Intifada (1987-1993), i bambini si ribellarono con le pietre in mano. La risposta israeliana fu la dottrina della forza bruta. Yitzhak Rabin, allora Ministro della Difesa, ordinò ai soldati di “rompere loro le ossa” e loro lo fecero. Le riprese mostravano bambini tenuti fermi, con le braccia frantumate dalle pietre nelle mani dei soldati. Questo non era caos. Era un comando.

Quella stessa logica sopravvive, non più con i bastoni, ma con i missili e il fosforo bianco. La rottura delle ossa è diventata un’amputazione di massa. L’obiettivo è lo stesso: paralizzare il futuro.

Quell’eredità ha trovato uno dei suoi simboli più chiari nella morte di Muhammad al-Durrah. Nel 2000, all’inizio della Seconda Intifada, il dodicenne si accovacciò accanto al padre dietro un barile a Sud di Gaza. Suo padre lo protesse con il suo corpo, ma il ragazzo fu colpito più volte dal fuoco israeliano. Morì tra le braccia del padre.

Il momento fu filmato e il mondo guardò. Israele negò, rigirò, incolpò. Ma la verità resistette: un bambino venne giustiziato mentre il mondo guardava.

Poi arrivò Faris Odeh. A soli 14 anni, stava da solo davanti a un carro armato israeliano, una pietra in mano, il corpo inarcato in segno di sfida. Giorni dopo, fu colpito al collo e ucciso vicino al valico di Karni a Gaza. La foto di un bambino che affronta un esercito, con una pietra alzata in mano, è impressa nella memoria palestinese. Lo hanno ucciso, ma la sua immagine sopravvive.

Infatti, prendere di mira i bambini è da tempo la dottrina israeliana, dal Massacro di Deir Yassin del 1948, al bombardamento di una scuola egiziana a Bahr al-Baqar del 1970, fino all’attacco del 2006 a Qana in Libano, che uccise decine di persone.

Guerra alla continuità

Anche nei momenti di presunta calma, le uccisioni continuano. Nel 2015, i coloni israeliani incendiarono la casa della famiglia Dawabsheh nella Cisgiordania occupata. Ali, diciottenne, venne bruciato vivo. Più tardi, gli israeliani ballarono a un matrimonio, pugnalando una foto del giovane morto per festeggiare.

Oggi, i politici e i rabbini israeliani parlano dei bambini palestinesi come di nemici. Un rabbino ha chiesto di ucciderli senza esitazione. Un membro della Knesset (Parlamento) ha dichiarato che ogni bambino nato a Gaza è  “già un terrorista”. Netanyahu ha invocato il racconto biblico di Amalek per inquadrare lo Sterminio di Massa, inclusa l’uccisione di bambini, come un dovere divino.

Un funzionario della Commissione ONU per i Diritti dell’Infanzia ha detto della situazione a Gaza: “La morte scandalosa di bambini è quasi unica nella storia. Si tratta di violazioni estremamente gravi che non vediamo spesso”.

Ma il mondo ha visto, e ancora oggi, i piccoli corpi si accumulano sempre più.

Questo non è solo un Genocidio nei numeri. È un Genocidio nell’intento. E non si limita all’uccisione e alla mutilazione; arriva più in profondità, alla memoria e all’immaginazione.

Quelli che sopravvivono vengono spogliati della loro infanzia, le loro scuole ridotte in macerie, i loro insegnanti sepolti sotto le lavagne. Oltre l’80% delle scuole di Gaza è stato danneggiato o distrutto. Persino i parchi giochi sono stati rasi al suolo: altalene trasformate in rottami, campi da calcio devastati dai missili.

I bambini palestinesi vengono derubati del loro futuro, dei loro corpi, delle loro famiglie, della loro capacità di sognare.

Ma continuano a resistere. Tra le rovine, li vediamo: ragazzi che tirano calci a palle avvolte in stoffa nella polvere, ragazze che intrecciano i capelli nelle tende, bambini che disegnano case che non esistono più. Costruiscono case giocattolo con lamiere contorte. Sorridono tra le lacrime. Giocano tra i fantasmi.

Sono mutilati, traumatizzati e tormentati, cullati nel sonno dai ricordi dei compagni di classe ora sepolti.

Ma continuano ad andare avanti, perché i palestinesi amano la vita, ferocemente, provocatoriamente. Si aggrappano ad essa attraverso il fumo, attraverso le macerie, attraverso ogni tentativo di spegnerli.

Stiamo assistendo a una guerra contro i bambini, contro la continuità. Il suo scopo non è solo il dominio, ma la Cancellazione.

Golda Meir, nata in Ucraina, un tempo titolare di un passaporto palestinese e in seguito Primo Ministro di Israele, una volta ha offerto questa rassicurazione ai compagni Colonizzatori: “I vecchi moriranno e i giovani dimenticheranno”.

Ma loro non hanno dimenticato. I vecchi sono morti, ma non prima di aver tramandato i nomi dei villaggi, le storie degli alberi, le chiavi delle porte chiuse, le mappe incise nella memoria. I giovani hanno ereditato tutto: l’amore per la terra e il Diritto al Ritorno.

E per questo, devono essere eliminati. Agli occhi di Israele, sono la minaccia più grande. Perché finché ci saranno bambini, la storia continuerà.

Finché ci saranno bambini, la Palestina vivrà.

Soumaya Ghannoushi è una scrittrice tunisina britannica ed esperta di politica mediorientale. Il suo lavoro giornalistico è apparso su The Guardian, The Independent, Corriere della Sera, aljazeera.net e Al Quds. Una selezione dei suoi scritti può essere trovata su: soumayaghannoushi.com

Traduzione di Beniamino Rocchetto -Invictapalestina.org

26/3/2025 https://www.invictapalestina.org/

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