A Roma la carica delle duecentomila contro la violenza
Appoggiata a un parafango, occhiali con montatura pesante che scendono sul naso, truccatissima, in short e calze nere, regge un cartello con aria disinvolta e sigaretta in mano. Sta scritto semplice semplice: «Se non te la do non te la prendere».
È così, una miriade di cose spiazzanti di questo genere, piccole, grandi, singole, collettive, collettive tutte insieme: una marea, sì, fatta di tante, tantissime onde, una diversa dall’altra. Delle duecentomila persone che hanno sfilato ieri per le strade di Roma – dati delle organizzatrici – al novanta per cento donne, resta questo colpo d’’cchio di tanta complessità. Una dimensione che è lì, nel quotidiano, ma dispersa e poco illuminata, al contrario di ieri quando si è presentata in blocco, per conquistarsi la scena. La più grande manifestazione femminista mai vista dagli anni Settanta. Questa volta con i complimenti del questore per l’organizzazione.
Libere e libertà, le parole, a conti fatti, più gettonate. La manifestazione «Non Una di Meno», con i centri antiviolenza in testa, è stata convocata contro il femminicidio, per affermare uno scatto culturale della società intera nel senso del riconoscimento dell’autodeterminazione femminile, e per chiedere al governo, allo Stato – dalla magistratura ai medici alle forze di polizia – e al sistema dei media, un approccio non più antidiluviano e maschilista al problema della violenza contro le donne.
«La violenza amore non è», «Il patriarcato ci campa con il raptus della stampa», sono gli slogan delle donne di Perugia e Terni. Richiami a una narrazione sbagliata, deformante, arretrata, dei media, alla necessità di un aggiornamento dei codici linguistici per raccontare le donne e gli abusi: «architetta, sindaca, avvocata, anche la lingua va educata», hanno voluto dire da Vicenza, sposando in pieno ciò che da anni vanno predicando le giornaliste dell’associazione Giulia, scese anche loro in piazza ieri.
Poi, come sempre quando si parla certi temi, di sessualità, procreazione, desideri, rapporti di coppia, ruoli, tutto si interseca e si dipana in storie, ma i fili dei ragionamenti sono netti, non si aggrovigliano.
Al concentramento in piazza Esedra tra i primi ad arrivare ci sono Paolo e Diana, una coppia di trentenni, vengono da Livorno e Pavia. Lui, fotografatissimo, ha i capelli rossi e un cartello fuksia, ideato da lei per la verità, con un simbolo femminista e la scritta: «Educhiamo uomini migliori». Ci crede davvero: «Non penso che dipenda solo dalle donne farsi rispettare e spero mi verrà naturale insegnarlo a una figlia o un figlio, ho avuto la fortuna di avere un padre che è andato presto in pensione e faceva da mangiare, andava lui a parlare con i professori, vincere il maschilismo dipende anche dai modelli maschili che sappiamo trasmettere». Diana è abbastanza ottimista: «Non so se le nuove generazioni siano migliori, se penso alla cassa di risonanza dei social mi viene da pensare che si vada in peggio, ma poi di fronte a una manifestazione così grande e bella si capisce che invece la consapevolezza c’è e si sta diffondendo».
Poco più in là Matteo, 22 anni, porta un cartello un po’ osceno: «Io lavo i piatti», come fosse un gesto di cui farsi vanto. «Ma è che ne lavo tanti!», si scusa, al circolo Arci di Mantova.
Gli uomini, più o meno giovani, sono relegati dietro il Tir noleggiato dal comitato romano «Io Decido» – promotore insieme a Udi e DiRe del corteo nazionale – che divide quasi a metà la fiumana di manifestanti. Subito dietro il bilico che diffonde comunicati, bolle di sapone e taranta, una ragazza romana, Laura, porta sulle spalle una scatola di cartone su cui in verde ha vergato alla svelta la sua risposta: «In questo giorno tanti uomini sono pubblicamente solidali poi arriva domani, chiudono le porte e ti alzano le mani».
Creatività, ce n’è a iosa. Oltre alle consuete bande da strada, di ottoni e di tamburi da capoeira, oltre alle coreografie di trampolieri danzanti, alle coccarde «Io sono mia», alle silouette delle matrioske con i nomi delle donne morte, c’è anche un teatrino su ruote del bar-libreria Tuba del Pigneto: la quinta è una vagina con un pallino stroboscopico in cima, ogni tanto qualcuna tira fuori la testa e recita una poesia o un brano, di Carla Lonzi o Audre Lorde.
I più curiosi e significativi restano comunque i messaggi piccoli, fatti a mano, come pensieri in bottiglia. Il più strano: «La mia favolosità non è un invito a commentare». Mentre una biondina gira freneticamente alzando il suo che parafrasando Non Una di Meno, dice: «Non un euro di meno, il mio lavoro vale quanto quello di un uomo».
La favolosa coalizione di Bologna – si chiama così la rete di «transfemminismo queer e antifascista» nata per contestare le sentinelle in piedi con presenze ironiche e non muscolari e che da sola ha portato a Roma 300 persone – mostra in strada il suo Sfertiliy Game. L’impegno della Favolosa coalizione è concentrato soprattutto sulla difesa della legge 194, oltre alla ricerca laboratoriale di analisi su quello che chiamano «il deturnamento dell’immaginario femminile», in sostanza rivendicando il diritto a una sessualità svincolata da pretesi obblighi procreativi. Laboratori su questi temi denominati «gender panic» pare molto partecipati da ragazze dai 20 ai 35 anni. E dalla discussione fatta è venuto fuori che lo sciopero delle donne polacche contro la proposta di legge che cancellava la possibilità di abortire e l’analogo movimento in Argentina sono state sentite come un segnale, un campanello d’allarme anche in Italia a risvegliare le coscienze e la lotta per i diritti.
L’aborto, battaglia contro lo svuotamento della 194 a colpi di obiezione di coscienza è, dopo la libertà contro stereotipi e brutalità maschili, l’altro tema più sentito nel corteo. «Gli obiettori non sono medici», ritmano a ogni incrocio. E su questo si addensano le peggiori critiche al governo, alla ministra Lorenzin in particolare e al suo piano annuale di promozione della fertilità che neanche si interroga sui casi sempre più frequenti di «baby mum», ragazzine appena adolescenti che soprattutto a Sud diventano madri.
Frizione di fondo con il governo è sui finanziamenti ai centri antiviolenza. «La ministra fa solo tavoli tecnici, le Regioni si tengono i soldi in tasca e i centri sono sempre a rischio chiusura», sintetizza Maria Marinelli della casa-rifugio di Latina. Lì una donna che tenta di uscire da maltrattamenti domestici ha ricamato a mano uno striscione a fiori: «L’Amore non uccide». «Vogliamo che i centri siano gestiti da associazioni vere, che trattano le donne non da malate o da utenti, basate sui nostri criteri», dicono.
La rete dei 77 centri DiRe contesta la mancata salvaguardia di una impostazione non professionalizzante dei centri e delle case protette. Ma nella folla della manifestazione c’è anche un piccolo striscione retto da una delegazione del Consiglio nazionale degli psicologi. «Abbiamo posizioni diverse, noi pensiamo che visti i riflessi dei maltrattamenti sulle benessere delle donne e dei loro figli sia un diritto della donna essere assistita dalla sanità pubblica», dice una psicologa del pronto soccorso di Cagliari. «L’ultimo miglio, cioè il percorso nella casa protetta, è giusto sia fatto dalle associazioni di donne – prova a mediare una collega – ma la rete delle essere integrata, istituzionale e operativa».
È un mondo molto ampio quello che combatte la violenza di genere, che per la prima volta si è visto in piazza ieri ma esiste da tempo. Le donne di «Se Non ora Quando» di Osimo dicono che rispetto a quell’appuntamento che decretò la fine di Berlusconi «allora fu una reazione di pancia, ora c’è molta più elaborazione e organizzazione, ci siamo unite».
Rachele Gonnelli
27/11/2016 www.ilmanifesto.info
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