Abbandono in mare e detenzione in Libia, la strategia italiana ed europea della dissuasione
1. Decreti legge, straordinaria necessità ed urgenza e strategia della dissuasione.
Con il “Decreto Cutro” approvato dal Senato, malgrado la mancanza del parere della Commissione affari costituzionali, oltre alle norme oggetto di scontro in Parlamento e nei media, sull’abolizione sostanziale della protezione speciale, alla riduzione delle garanzie di difesa, al rafforzamento delle misure in materia di detenzione amministrativa, sono state approvate altre disposizioni che riguardano le procedure per chi vuole entrare “regolarmente” sul territorio italiano per lavoro o attraverso corridoi umanitari, previsioni queste ultime, che però rimangono senza previsioni numeriche. Come sembrano destinate a restare prive di attuazione le previsioni in materia di visti di ingresso “fuori quota” per coloro che frequentino nei paesi di origine “Corsi di istruzione e formazione professionale”. Si prevede al riguardo la “promozione della stipula di accordi di collaborazione e intese tecniche con soggetti pubblici e privati operanti nel campo della formazione e dei servizi per il lavoro nei Paesi terzi di interesse per la promozione di percorsi di qualificazione professionale e la selezione dei lavoratori direttamente nei Paesi di origine”. Il governo italiano, e la maggioranza parlamentare con la quale può imporre qualsiasi provvedimento al voto dell’aula, sembrano dimenticare che i flussi migratori per lavoro sono inaccessibili per la maggior parte delle persone che sono costrette a fuggire dal proprio paese, per guerre, disastri ambientali o estrema povertà, alle quali non rimane alcuna alternativa al tentativo di attraversare il Mediterraneo affidandosi agli scafisti.
Basta scorrere l’elenco delle vittime della strage di Cutro o la lista dei paesi di provenienza dai quali arriva la maggior parte delle persone sbarcate o soccorse in questi ultimi mesi, per cogliere la inutilità di questa previsione e la sua concreta irrealizzabilità in paesi nei quali non sono garantiti neppure il diritto alla vita e la libertà di circolazione. Per non parlare delle difficoltà che si incontrano nelle rappresentanze consolari italiane all’estero per il rilascio di un visto di ingresso, sia pure nei casi più frequenti e da tempo previsti dalla legge, di ricongiungimento familiare. Dietro la parvenza di canali legali di ingresso previsti dal decreto legge approvato dal Senato si cela il rafforzamento dei procedimenti di espulsione e respingimento, con un ricorso più esteso alla detenzione amministrativa, anche dopo lo sbarco dei richiedenti asilo. Il Decreto Cutro diventa cosi l’ennesimo strumento di propaganda, un ulteriore esempio della politica della dissuasione, una politica fatta di annunci roboanti, fino all’aberrante teoria della “sostituzione etnica”, per tentare di dimostrare che non e’ poi tanto conveniente arrivare in Italia. Una politica che va contro il principio di realtà perche si nasconde che la protezione speciale ha riguardato nel 2022 non piu’ di diecimila persone di fronte ad oltre centomila arrivi, mentre le persone che vengono o verranno effettivamente espulse dal nostro paese sono appena qualche migliaio all’anno e che sono del tutto irrealizzabili i propositi di espulsioni di massa, al di là degli annunci di propaganda elettorale. Perchè i paesi di origine non sono disposti a collaborare nelle procedure di rimpatrio con accompagnamento forzato, questi sono fatti oggettivi che nessuna trattativa diplomatica è finora riuscita a modificare. E dalla Libia, del resto, non arrivano cittadini libici ma persone provenienti da vari paesi, dal Bangladesh alla Siria ed all’Africa subsahariana, che non si potranno mai respingere o deportare in massa verso un paese di transito ancora diviso tra due governi e diverse milizie in conflitto tra loro. In tutti i provvedimenti adottati dal governo Meloni, incluso il Decreto che stabilisce una lista di “paesi terzi sicuri”, si sovrappongono finalità concorenti, dalla negazione sostanziale del diritto di asilo, da intendere anche come possibilità di accedere ad un porto sicuro per presentare una istanza di protezione, fino alla strategia dell’abbandono in mare, già attuata con l’allontanamento delle navi del soccorso civile, destinate a porti di sbarco sempre più distanti dall’area dei soccorsi nel Mediteraneo centrale.
2. La genesi delle politiche di abbandono in mare.
Si vuole accreditare la tesi che, riducendo le partenze con la eliminazione dei cosiddetti fattori di attrazione (pull factor), come le navi di soccorso, e poi anche quelle militari, si potrebbero ridurre gli sbarchi in Italia ed i naufragi in alto mare, dunque il numero delle vittime. Si tratta di tesi smentite dalla realtà, perchè, se con la riduzione delle partenze diminuiscono le vittime in mare, al contempo aumenta il numero delle persone intrappolate nei centri di detenzione in Libia, o soggette in Tunisia ad espulsioni collettive verso i paesi di origine,nei quali sono ancora a rischio di vita o di trattamenti inumani o degradanti, con un numero di vittime altrettanto elevato, anche se non quantificabile. Per una riduzione effettiva del numero di naufragi in mare occorrerebbe invece aprire le frontiere terrestri,garantire un sistema diffuso di visti umanitari e riconoscere in pieno il diritto alla protezione nelle varie forme previste dalla legislazione europea. Occorrerebbe poi attivare missioni internazionali di ricerca e soccorso nelle acque del Mediterraneo centrale, come si realizzò soltanto tra il 2014 ed il 2015, con un significativo calo del numero di morti e dispersi nel Mediterraneo centrale. Ma dal 2016 l’Europa e l’Italia invertirono bruscamente la loro politica migratoria con barriere sempre più difficili da superare, con il rafforzamento degli accordi con i paesi terzi, e con un attacco forsennato al soccorso civile.
A partire dal 2018 le autorità europee hanno ritirato progressivamente tutti gli assetti navali impegnati nella zona SAR (di ricerca e soccorso) del Mediterraneo centrale ormai attribuita alla responsabilità di una fantomatica “Libia”, che ancora oggi non è facile riconoscere come Stato unitario. Gli accordi bilaterali intercorsi con il governo di Tripoli, come il Memorandum d’intesa del 2 febbraio 2017, e la istituzione di una fittizia zona SAR “libica” nel 2018, hanno costituito gli schermi formali dietro i quali si è nascosta la sostanziale delega delle attività di intercettazione, al di fuori delle loro acque territoriali, alle autorità libiche, in molti casi colluse con le milizie che nelle città costiere, soprattutto tra Sabratha, Zawia e Tripoli,gestivano, oltre alla detenzione arbitraria dei migranti e alle partenze dei barconi, il contrabbando di petrolio ed il traffico di armi.
Nel dicembre del 2019 entrava in vigore il Regolamento (UE) 2019/1896, relativo alla Guardia di frontiera e costiera europea. Il nuovo Regolamento mette al centro delle attività
dell’agenzia i sistemi elettronici di controllo, raccordando le attività delle diverse agenzie europee che operano nel settore del controllo delle frontiere marittime esterne (EUROSUR, EMSA, EUROPOL). Tra i punti più importanti del nuovo Regolamento è il rilancio della cooperazione con i paesi terzi al fine di rendere più efficaci le prassi di intercettazione /soccorso in mare e di respingimento/espulsione.
Le deliberazioni del Consiglio dell’Unione Europea del 23 settembre 2020, e la Raccomandazione adottata lo stesso giorno dalla Commissione Europea sui soccorsi
in mare operati da attori non statali, confermavano le politiche di esternalizzazione dei
controlli di frontiera e la collaborazione con i paesi terzi della sponda sud del Mediterraneo per contrastare quella che si continua a definire soltanto come “immigrazione illegale”. Anche se in questi documenti si auspicava la fine della criminalizzazione dei soccorsi umanitari, in realtà si riproducevano le condizioni per ricondurre i salvataggi in mare operati dalle ONG ad attività sottoposte ad un rigoroso controllo amministrativo e militare, con il rischio che potevano risultare sanzionabili in base alle norme penali sul contrasto dell’immigrazione irregolare. Fino ad oggi l’Unione Europea non è riuscita ad approvare il Piano sulle migrazioni del 2020, ancora oggetto di trattativa tra la Commissione ed il Consiglio dell’UE, o nuove regole di ingaggio per le attività di ricerca e salvataggio in mare, che non potrebbero comunque derogare gli obblighi di soccorso stabiliti dalle Convenzioni internazionali. Ben difficilmente il governo Meloni vedrà tradursi in fatti concreti gli impegni verbali strappati a Bruxelles in questi ultimi mesi. Ma intanto sono questi gli strumenti di distrazione di massa che vengono propinati all’opinione pubblica italiana, anche dopo fatti tragici, come la strage di Cutro, che imporrebbero un ritorno al principio di realtà.
3. Il sistema della detenzione amministrativa per dare effettività alle misure di allontanamento forzato in funzione di dissuasione degli sbarchi. Gli accordi con i paesi terzi e la giurisdizione extraterritoriale.
Il potenziamento dei Centri per i rimpatri (CPR) prevista dal decreto legge “Cutro” si inserisce nelle politiche europee di raforzamento del meccanismo delle espulsioni e si lega all’ipotesi, che nel provvedimento rimane priva di corrispondenza al principio di realtà e di copertura finanziaria, che gli accordi con i paesi di origine, non certo con quelli di transito, possano portare ad un significativo aumento delle persone che, versando in una condizione di irregolarità, che il decreto peraltro riproduce, possano essere effettivamente allontanate dal territorio italiano. E non sarà certo l’Unione Europea, alle prese con il conflitto in Ucraina, che metterà risorse economiche e mezzi aerei o navali, per aiutare l’Italia nelle politiche di respingimento e di espulsione o per finanziare nuovi centri di detenzione amministrativa.
Per contrastare i trafficanti si invocano nuove possibilità di collaborazione con le forze di polizia dei paesi di transito, in quanto il reato di agevolazione dell’imigrazione clandestina (art.12 T.U. n.286 del 1998), ulteriormente ampliato con il termine, commesso “in qualunque modo”, verrà perseguito anche al di fuori dei confini nazionali, perché si tratta di «un reato universale». Sarebbe questa la “caccia globale agli scafisti” annunciata nella Conferenza stampa di presentazione del Decreto legge n.20 del 2023 a Cutro. Secondo il ministro della giustizia Nordio questo reato si potrebbe applicare anche con riferimento a persone che si trovano in acque internazionali, in “acque che non sono sotto la competenza di nessuno”. In realtà la nostra giurisprudenza aveva già esteso la giurisdizione italiana al di fuori dei confini nazionali, per perseguire scafisti e trafficanti, ma aveva tenuto distinto il profilo dell’agevolazione dell’ingresso irregolare dal diverso profilo del traffico di esseri umani, che invece i provvedimenti varati dall’esecutivo Meloni tendono sistematicamente a confondere. In realtà le norme contenute nel decreto legge n. 20 del 2023 sulla giurisdizione italiana estesa fuori dai confini nazionali non costituiscono certo una innovazione. In particolare la Corte di Cassazione ha precisato da tempo che sussiste la giurisdizione dello Stato italiano nei confronti di coloro che, agendo al di fuori del territorio nazionale abbiano abbandonato in acque extraterritoriali dei migranti condotti su natanti del tutto inadeguati, onde provocare l’intervento del soccorso in mare e far sì che i trasportati siano accompagnati nel tratto di acque territoriali dalle navi dei soccorritori, operanti sotto la copertura della scriminante dello stato di necessità (Cass. Pen., Sez. I, 28.2.2014, n. 14510). Nello stesso senso la Corte di Cassazione ha affermato che “In tema di immigrazione clandestina, la giurisdizione nazionale è configurabile anche nel caso in cui il trasporto dei migranti, avvenuto in violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 12, a bordo di una imbarcazione (nella specie, un gommone con oltre cento persone a bordo) priva di bandiera e, quindi, non appartenente ad alcuno Stato, secondo la previsione dell’art. 110 della Convenzione di Montego Bay delle Nazioni Unite sul diritto del mare, sia stato accertato in acque extraterritoriali ma, successivamente, nelle acque interne e sul territorio nazionale si siano verificati quale evento del reato l’ingresso e lo sbarco dei cittadini extracomunitari per l’intervento dei soccorritori, quale esito previsto e voluto a causa delle condizioni del natante, dell’eccessivo carico e delle condizioni del mare” (Cass. Pen. Sez. 1, n. 18354 del 11/03/2014; Cass. Pen. Sez. 1, n. 11165 del 22/12/2015).
L’art. 8 Il comma 1, lettera b) del provedimento introduce nel Testo unico sull’immigrazione l’articolo 12-bis, volto a prevedere la nuova fattispecie di reato di morte e lesioni come conseguenza di delitti in materia di immigrazione clandestina. Il comma 6 del nuovo art. 12-bis introduce a sua volta una norma sulla giurisdizione volta specificare che – fermo quanto disposto dall’articolo 6 c.p in tema di territorialità – ai fini della sussistenza della giurisdizione italiana, non assume rilievo la circostanza che l’evento della nuova fattispecie delittuosa (morte o lesioni) si sia verificato al di fuori del territorio dello Stato italiano ove si tratti di condotte finalizzate a procurare l’ingresso illegale nel territorio italiano.
Si afferma così il carattere “universale” del reato di agevolazione dell’ingresso irregolare, ma non sembra potenziato il sistema di sorveglianza marittima in acque internazionali, per il quale si volevano affidare alla Marina Militare nuove mansioni di monitoraggio, anche al fine di una crescente condivisione intergovernativa delle informazioni. Che comunque è già in atto per effetto dei Regolamenti europei FRONTEX e per la interconnessione tra le agenzie di sicurezza europee e quelle dei paesi di origine e di transito, già prevista a questo livello.
4. Le politiche e le prassi di esternalizzazione delle frontiere
Si assiste dunque al rilancio della esternalizzazione delle frontiere, con la riconferma della collaborazione con autorità di paesi come la Libia, ma anche come l’Egitto, ed adesso la Tunisia, che non garantiscono i diritti umani delle persone migranti. I nuovi tentativi di esternalizzazione rimangono però oggetto di un processo politico, e di mediazioni diplomatiche e militari, ma non rientrano direttamente all’interno di un provvedimento normativo che pure era scaturito dal naufragio, davanti alle coste di Cutro, di un barcone che non era stato soccorso tempestivamente quando si trovava al di fuori delle nostre acque teritoriali. Non appare poi affatto chiaro quali ricadute possa avere la riaffermazione della giurisdizione italiana in acque internazionali, rispetto alla “caccia ai trafficanti” nei territori dei paesi costieri della sponda meridionale del Mediterraneo.
Non si chiariscono neppure le catene di comando ed i livelli di cooperazione operativa con le Guardie costiere di questi paesi, come sarebbe stato diveroso fare dopo la strage di Cutro. Anche con riferimento alle unità militari impegnate in acque internazionali del Mediterraneo centrale nelle operazioni Eunavfor Med IRINI a guida italiana, e Mediterraneo sicuro, della Marina militare italiana. Come si legge nel sito ufficiale della Marina militare ” Con la delibera del Consiglio dei Ministri del 28 dicembre 2017, dal 1 gennaio 2018, i compiti della missione erano stati ampliati a ricomprendere le attività di supporto e di sostegno alla Guardia Costiera e alla Marina Militare libiche per il contrasto dell’immigrazione illegale e del traffico di esseri umani”. Un attività che prosegue ancora oggi, malgrado l’arrivo dei turchi in Tripolitania, dove hanno creato una loro base navale a Khoms, e la situazione in continua evoluzione in Cirenaica, dove il conflitto ucraino ha rafforzato i rapporti tra il generale Haftar e le autorità russe.
Di certo la previsione della portata “universale” del reato di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare,tanto propagandata dal governo Meloni nei giorni della strage di Cutro, non avrà alcun carattere dissuasivo rispetto alle partenze verso le coste italiane, che si attendono sempre più numerose, nè servirà a ridurre il numero delle vittime, che appare in aumento, in corrispondenza non solo del maggior numero di persone che tentano la traversata, ma anche delle rotte sempre più lunghe e pericolose che sono conseguenza degli accordi bilaterali tra gli Stati costieri, per contrastare quella che si definisce soltanto come “immigrazione illegale”. Anche quando sarebbe necessario avviare attività di ricerca e salvataggio, e dare protezione alle persone con lo sbarco in un porto sicuro, senza favorire attività di intercettazioni da parte di guardie costiere che riportano le persone “soccorse” in mare verso centri di detenzione disumani e condizioni di vita che espongono a torture ed a abusi quotidiani. La logica della dissuasione prevale ancora una volta ugli obblighi di salvaguardia dei diritti umani, a partire dal diritto ala vita, con effetti letali che sono sotto gli occhi di tutti, malgrado il rinnovato impegno della Guardia costiera italiana nei soccorsi in acque internazionali.
Nel decreto legge n.20 del 2023, approvato dal Senato, si prevede soltanto l’impegno del governo “a farsi promotore di un rafforzamento della cooperazione dell’UE con le Nazioni Unite, in particolare con l’UNHCR e con l’OIM, per incentivare corridoi umanitari sicuri per l’arrivo in territorio europeo al fine di garantire l’assistenza umanitaria necessaria e il rispetto dei diritti umani dei migranti”. Ma, con riferimento ai corridoi umanitari ed alle procedure di resettlement, di ritrasferimento verso paesi sicuri, dovrebbero essere noti a tutti le limitazioni e gli scarsi risultati, almeno in termini numerici, conseguiti in questi anni dalle organizzazioni delle Nazioni Unite in Libia ed in Tunisia, ed altrettanto si può rilevare per l’Egitto. I corridoi umanitari che sono rimasti aperti verso l’Italia hanno garantito salvezza a poche centinaia di persone. Ma molti rifugiati riconosciuti e registrati dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite (UNHCR) in Libia e Tunisia non riescono ad ottenere documenti di soggiorno nè hanno prospettive concrete di essere rilocati in paesi sicuri. Ancora peggiore la condizione delle persone migranti non registrate dall’UNHCR che spesso finiscono nelle mani di padroni che li schiavizzano, o in centri di detenzione nei quali, anche in quelli gestiti dalle autorità di governo, sono esposti ad abusi ed a violenze quotidiane che i rapporti dell’ONU documentano periodicamente. Le condizioni disumane nelle quali vengono tenuti i migranti intrappolati in Libia costituiscono l’ulteriore fattore di dissuasione che il governo italiano utilizza, trasferendo motovedette alla sedicente guardia costiera “libica” e finanziando le milizie che supportano il governo provvisorio di Tripoli, le stesse milizie che nei rapporti delle Nazioni Unite e nelle denunce alla Corte penale internazionale risultano colluse, se non immedesimate, con le organizzazioni criminali che controllano i centri di detenzione, tanto governativi che informali. Si vuole anche che i migranti sappiano quali sono i rischi del viaggio verso il Mediterraneo, e poi della traversata, per questo si tenta di coinvolgere i paesi di origine con la promessa di qualche migliaio di visti di ingresso, e si arruola qualche giornalista “a disposizione” per convincere le persone a non partire. Il deterioramento delle condizioni di vita, spesso al di sotto del minimo vitale, ed il diffodersi delle guerre su scala interna ed internazionale, come da ultimo in Sudan, produrranno così un numero sempre crescente di persone che tenteranno la fuga, a qualunque costo, anche a costo della vita.
5. Il ruolo ambiguo di Malta, tra abbandono in mare e collaborazione con le guardie costiere “libiche”.
Per quanto riguarda Malta occore giungere alla stessa considerazione,che non si tratta di un paese che può garantire porti di sbarco sicuri, anche se per ragioni diverse. Le autorità di questo paese, che in astratto dovrebbero assumere il coordinamento delle attività di ricerca e salvataggio in un zona enorme, che La Valletta mantiene da tempo per ragioni storiche ed economiche, sono state protagoniste di veri e propri respingimenti collettivi illegali. Le stesse autorità si sono dimostrate in numerose occasioni incapaci di garantire interventi tempestivi e una conseguente assegnazione di un porto di sbarco sicuro, arrivando negli ultimi anni a concludere accordi con le diverse autorità libiche ed a gestire operazioni illegali di respingimento collettivo in acque internazionali. Malta, peraltro, non ha mai sottoscritto gli emendamenti del 2004 alle Convenzioni internazionali SAR e SOLAS e dunque non è obbligata ad indicare un porto di sbarco sicuro (POS) alle numerose imbarcazioni soccorse nella zona SAR di propria competenza, anche quando occasionalmente partecipa alle attività di ricerca e salvataggio. Le conseguenze di questo posizionamento internazionale di Malta, spesso chiamata in causa dalle autorità italiane che contestano alle ONG di “scegliersi” le autorità SAR di coordinamento, sono tristemente evidenti, sia per l’alto numero di vittime su quella che è diventata una delle rotte migratorie più pericolose del mondo, sia per le condizioni di abbandono in mare e di debilitazione che subiscono i superstiti, ai quali si negano opportunità di soccorso, anche attraverso inziative giudiziarie, ed adesso legislative, mirate soprattutto all’allontanamento o al fermo delle navi umanitarie. Le uniche, oltre ai mezzi commerciali che spesso proseguono nella loro rotta senza accorgersi delle piccole imbarcazioni stracariche di migranti, rimaste a presidiare una vasta zona del Mediterraneo centrale dalla quale gli Stati costieri hanno ritirato i loro assetti di soccorso per evitare di dovere poi garantire ai naufraghi, sempre più numerosi, un porto di sbarco sicuro. Malta non ha ratificato l’emendamento alla Convenzione SAR di Amburgo contenuto nella Risoluzione IMO 167-78 del 2004 e dunque non può essere consderata come un paese al quale il comandante della nave che effettua un, soccorso nella vastssima zona SAR attribuita alle autorità di La Valletta, possa essere obbligato a rivolgersi per chiedere coordinamento di soccorsi operati in acque internazionali o l’assegnazione di un porto di sbarco sicuro. Ma la posizione delle autorità maltesi e dei faccendieri che gestiscono i rapporti di collaborazione con le milizie libiche, da Tripoli a Bengasi, e’ funzionale alla politica della dissuasione dei soccorsi operati dalle ONG, nel mirino delle autorita libiche su mandato di italiani e maltesi.
Da utlimo le autorità maltesi, dopo una serie di Memorandum d’intesa con la Libia, e i paesi confinanti (Egitto e Tunisia). hanno reiterato le loro iniziative di respingimento collettivo collaborando con le autorità egiziane, ed una imbarcazione che avrebbe dovuto essere indirizzata verso un porto sicuro in Europa è stata respinta verso L’Egitto. Queste prassi, di respingimento collettivo illegale, denunciate anche da Medici senza frontiere, corrispondono a precise scelte politiche, reiterate nel tempo, e confermano che lo Stato maltese, oltre a collaborare con paesi terzi “non sicuri”, non si coordina con altri Stati costieri che siano in grado di garantire porti di sbarco sicuri, rifiutandosi persino di coordinare interventi di ricerca e salvataggio che si svolgono all’interno della sua immensa zona SAR.
6. Il fallimento della politica estera italiana con gli Stati costieri della sponda sud del Mediterraneo
Il Decreto legge Cutro è stato approvato dal Senato e dovrà essere convertito in legge dalla Camera entro il 10 maggio, in un momento in cui l’inziativa di politica estera a tutto campo lanciata dal governo Meloni dopo il suo insediamento, per coinvolgere i paesi terzi nella lotta contro l’immigrazione “illegale”, e soprattutto per bloccare le partenze, sembra totalmente fallita. Come non sono migliorati i rapporti con le autorità maltesi, a loro volta responsabili di una sistematica violazione degli obblighi di soccorso in mare stabiliti dalle Convenzioni internazionali, e complici con le autorità libiche nelle politiche di intercettazioni in mare e nelle conseguenti pratiche di detenzione arbitraria e di abusi quotidiani inflitte dalle milizie libiche e dai trafficanti, spesso in combutta tra loro, alle persone che vengono riportate in territorio libico.
Eppure alla fine di dicembre dello scorso anno, si intensificavano i contatti per rafforzare la collaborazione con le autorità di Tripoli. Secondo quanto riferito da fonti giornalistiche, “Il Ministro designato dell’Interno libico Emad Al-Trabelsi ha esaminato davanti a una delegazione della sicurezza italiana i piani di sicurezza emessi dal Ministero dell’Interno relativi al fascicolo dell’immigrazione clandestina e le ripercussioni che ne derivano. La delegazione italiana, che ha incontrato Al-Trabelsi presso la sede del Dipartimento Relazioni e Cooperazione a Tripoli, comprendeva funzionari del Ministero dell’Interno, il Comandante in Capo della Polizia, il Direttore del Dipartimento Immigrazione e un numero di funzionari.” Appare evidente come il governo Meloni volesse rafforzare ulteriormente, già dai primi mesi di insediamento, la collaborazione con la sedicente “Guardia costiera libica” nelle sue varie articolazioni, e dare maggiore vigore alle prassi di “respingimenti collettivi su delega”, oggetto di una denuncia alla Corte penale internazionale. Decine di migliaia di persone, ogni anno, intercettate in acque internazionali, anche su segnalazioni delle autorità europee (Frontex) ed italiane, e riportate in territorio libico.
La missione lampo di Giorgia Meloni a Tripoli, lo scorso gennaio, lungamente preparata da incontri al massimo livello dei responsabili dei servizi di sicurezza italiani e libici, e preceduta da un importante acordo dell’Eni con l’ente petrolifero libico (NOC), è stata spacciata come un successo ed ha avuto come immediata conseguenza il regalo di altre cinque motovedette italiane alla sedicente Guardia costiera “libica”. Ma le partenze dalla Libia, soprattutto dalla Cirenaica, sono aumentate esponenzialmente. Non si racconta neppure che le forze politiche e le milizie contrarie al governo provvisorio di Dbeibah hanno prontamente lanciato un segnale di rifiuto degli accordi conclusi con l’Italia, sia a livello politico, con le dichiarazioni di Bashaga, che sul piano militare, con la chiusura a singhiozzo del terminale che dalla Libia porta il gas in Sicilia.
Come avvenuto in passato, si continua a nascondere all’opinione pubblica che la Libia è un paese fallito, spaccato in tre spezzoni controllati da milizie che cercano ancora di prevalere sul piano militare, per affermare quindi una supremazia politica, con il sostegno delle grandi potenze che anche in territorio libico giocano la loro partita globale. Un gioco al massacro tra le diverse tribù che ancora oggi marcano i confini interni al territorio libico, verso le quali si orientano, oltre alle forniture militari europee, camuffate da risorse tecniche per la lotta all’immigrazione irregolare, in un paese che sarebbe sotto embargo, ingenti rimesse di danaro provenienti dai Paesi del Golfo. Rimane ancora determinante, in Cirenaica, il ruolo dell’Egitto di Al Sisi, con il quale si sta trattando per rafforzare le prassi di respingimento ed espulsione collettiva, senza alcun riguardo per il mancato rispetto dei diritti umani in quel paese.
Secondo l’OIM (Organizzazione internazionale delle migrazioni),“la Libia non è un porto sicuro ed il numero delle persone riportate a terra dalla guardia costiera libica non collima con quello delle presenze nei centri di detenzione e questo apre a speculazioni. Queste persone possono essere vendute per lavoro temporaneo o addirittura soggette a richieste di riscatto da parte della famiglia per essere liberate”. Da anni l’OIM (Organizzazione internazionale delle migrazioni) denuncia che solo una minima parte delle persone intercettate in mare dai guardiacoste libici finisce nei centri di detenzione “ufficiali”, mentre la maggior parte di queste persone, subito dopo lo sbarco viene riconsegnata ai trafficanti o a padroni senza scrupoli che li sfruttano fino allo sfinimento, o ne abusano fisicamente. Come aviene per tantissime donne e per i più giovani. Sono questi i “passeggeri” o i “clandestini” che, se riscono a fuggire, sono soccorsi dalle ONG. Sono questi i testimoni degli effetti perversi delle politiche italiane ed europee di esternalizzazione dei respingimenti e della detenzione.
7, La rotta tunisina e la negazione dei diritti fondamentali della persona migrante in Tunisia
Sono rimasti privi di effetti anche i tentativi di supportare le autorità tunisine nel blocco delle partenze o nelle intercettazioni in alto mare, mentre il numero delle vittime sulla rotta tunisina è aumentato in maniera esponeziale. Ed ormai i tunisini che si imbarcano dalle coste di Sfax o di Mahdia sono una minoranza rispetto al numero crescente di migranti subsahariani che il presidente Saied cerca di espellere in tutti i modi. Anche con il ricorso a prassi di polizia violente ed illegali. Ma per il ministro degli esteri Tajani che si è recato in missione a Tunisi lo scorso gennaio con Piantedosi, e poi ancora una volta ad aprile, sarebbero soltanto affari interni della Tunisia ed anzi il ministro ha dichiarato fiducia nei confronti delle “riforme” promosse dal Presidente tunisino, che ormai si è trasformato in un vero autocrate, Con provvedimenti restrittivi delle libertà e misure fallimentari dal punto di vita economico, tanto da costituire il principale motivo per l’aumento delle fughe di tunisini e di subsahariani da quel paese, che si avvia a diventare un ennesimo “Stato fallito”.
La Tunisia e la Libia non possono dunque garantire porti di sbarco sicuri, malgrado gli sforzi diplomatici italiani, e quindi non possono essere designate come autorità competenti a gestire e coordinare attività di ricerca e salvataggio in acque internazionali. In proposito basti il rinvio alle posizioni ed alle Linee guida formulate dalle Nazioni Unite nel 2017 e ribadite con un documento nel dicembre del 2022, per non parlare dei rapporti internazionali (Amnesty, Human Rights Watch) che segnalano in questi paesi pesanti violazioni dei diritti dei migranti ed il mancato riconoscimento effettivo del diritto di asilo, con una diffusa violazione del divieto di trattenimento arbitrario e con casi sempre più numerosi di respingimento collettivo illegale.
Dietro le stragi appena fuori dalla ridottissima zona SAR tunisina ( che corrisponde a non più di 20-25 chilometri dalla costa) sta l’invenzione di una zona SAR “libica” che di fatto nessuno presidia per attività di soccorso, prevalendo in tutte le autorità statali l’intento di dissuadere le partenze, e favorire le intercettazioni, rendendo più pericolose le traversate. Un intento politico criminale, che non diminuisce affatto i tentativi di traversata ma produce soltanto un incremento delle persone abbandonate in mare per la mancanza di mezzi statali di soccorso, e dunque esposte al rischio di naufragio, in misura ancora maggiore da quando si sono perfezionati gli espedienti (anche in forma di decreto legge) per allontanare dal Mediterraneo centrale, quanto più possibile, le navi della società civile.
La politica di dissuazione delle partenze verso le coste italiane praticata dal governo Meloni sembra dunque destinata a fallire, sia sotto il profilo dell’inasprimento delle pene per i reati connessi all’immigrazione irregolare, che sotto il profilo degli accordi con i paesi terzi di origine e transito.
8. Dalla lotta agli scafisti ed ai trafficanti alla sorveglianza di polizia contro le organizzazioni non governative e gli operatori dell’informazione indipendente.
Rimane un ulteriore inasprimento degli strumenti di sorveglianza soprattutto sulle persone più direttamente coinvolte nei soccorsi e nell’assistenza ai migranti in pericolo in mare, con una preoccupante sinergia tra le agenzie di sicurezza europee e le guardie costiere dei paesi di transito, che non esitano ad aprire il fuoco quando devono allontanare le imbarcazioni delle Organizzazioni non governative dall’area dei soccorsi. Eventi che si ripetono spesso a ridosso dei ricorrenti tentativi di criminalizzazione degli operatori umanitari e dei difensori dei diritti umani, lungo un asse della disinformazione di Stato che unisce ormai Roma a La Valletta ed a Bengasi, come si verifica del resto dall’Italia verso la Tunisia o l’Egitto.
Lo sapevamo da tempo, che la sorveglianza di polizia si accaniva contro chi salvava vite in mare, basti pensare come sono partite in Italia le indagini sul caso Iuventa nel 2016, su segnalazioni generiche di Frontex, prontamente rilanciate dallo SCO del Ministero dell’interno, e poi al sottomarino fantasma della Marina militare italiana che la difesa di Salvini sta usando per intorbidare i fatti e capovolgere i ruoli processuali nel procedimento penale in corso a Palermo contro l’ex ministro. Adesso è arrivata la conferma che l’Agenzia europea per il controllo delle frontiere esterne Frontex , in collegamento con Europol, e possiamo agiungere anche Eurosur, opera sistematicamente schedature sulle persone che soccorrono ed assistono o migranti o i naufraghi, anche sulla base di interrogatori di persone appena soccorse, magari prima che queste siano informate della identità degli agenti che fanno le domande e dei diritti di difesa o di asilo che comunque potrebbero fare valere. E’ evidente che dopo l’utilizzo della figura dello scafista criminale si tenta di nascondere responsabilita istituzionali. Per completare questo ennesimo disegno dissuasivo si utilizzano prove raccolte al di fuori delle regole di procedura per eliminare tutti i soggetti che potrebbero ribaltare la narrazione dominante imposta dal governo. E dunque nel mirino dei servizi di sicurezza non finiscono i veri trafficanti, protetti dagli stessi governi con in quali si fanno accordi, ma le organizzazioni non governative e gli operatori dell’informazione indipendente.
Un collegamento multiagenzia era previsto dall’ultimo Regolamento europeo Frontex n. 1896/2019 di Frontex, che stabiliva un raccordo permanente tra tutte le agenzie di sicurezza europee e le polizie dei singoli Stati membri, ed anche questo era ampiamente noto, mentre emerge soltanto adesso come al centro delle attenzione delle forze di polizia non ci fossero i trafficanti, o i presunti scafisti, ma gli operatori umanitari delle ONG. Le finalità di questi controlli sono evidenti, ed anche i risultati. Nessun vero trafficante arrestato nei paesi di origine e transito a seguito di indagini condotte da Frontex, per le coperture offerte alle organizzazioni criminali dagli stessi governi con cui si stipulano Memorandum d’intesa contro l’immigrazione illegale, ed invece si moltiplicano i processi mediatici contro chi salva vite in mare e presta assistenza a terra, chiamato a rispondere dell’accusa di agevolazione dell’ingresso irregolare. Ed anche una selva di arresti eclatanti e poi di condanne contro scafisti per necessità, alcuni dei quali, se assistiti da avvocati che si impegnano nella loro difesa, ottengono l’assoluzione, magari dopo anni di ingiusta carcerazione preventiva.
9. Il ruolo di Frontex nelle attività di respingimento su delega ai paesi terzi.
Sono invece sempre più evidenti le prove di una crescente interazione tra le diverse agenzie europee che si occupano della sicurezza e del controllo delle frontiere e le autorità di
polizia dei paesi della sponda sud del Mediterraneo. Statewatch ricorda come leimmagini raccolte dai droni dell’Agenzia europea per la sicurezza marittima (EMSA) siano state immediatamente valutate dalle Guardia costiera delle nazioni territorialmente responsabili, dunque anche dalle autorità libiche, e contestualmente inviate al quartier generale di Frontex ed integrate nel Sistema di sorveglianza delle frontiere (EUROSUR) per una loro analisi da parte dell’agenzia europea e del net- work di controllo di tutti gli Stati membri UE che hanno frontiere esterne. Tutti i dati raccolti da Frontex e scambiati con altre agenzie di controllo, sono utilizzati per rilevare e prevenire le migrazioni sin dalla fase iniziale. I dati di EUROSUR e dei centri nazionali di controllo delle frontiere costituiscono il cosiddetto “Common Pre-frontier Intelligence Picture” che consente di estendere l’area di sorveglianza
di Frontex sino al continente africano.
L’8 gennaio 2020, Joseph Borrell, Alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, rispondendo ad un’interrogazione parlamentare, ha negato che siano mai state fornite informazioni da Frontex alla Guardia costiera libica nell’ambito delle operazioni di sorveglianza previste dal Regolamento UE (n. 656/2014) ed effettuate dagli Stati membri alle loro frontiere esterne in cooperazione con l’Agenzia. “Ciò si è verificato tuttavia nell’ambito dell’“Eurosur Fusion Service — Multipurpose Aerial Surveillance (MAS)”, ha dovuto poi ammettere lo stesso Commissario Borrell.“durante l’attività di sorveglianza aerea MAS nell’area di pre-frontiera – dal 2017 sino al 20 novembre 2019, quando Frontex ha individua- to situazioni di pericolo nella regione SAR libica, l’Agenzia ha informato in 42 casi il Centro di coordinamento delle ricerche dello Stato membro più vicino, Eunavfor
MED così come le autorità libiche”. Oggi, dal numero di intercettazioni condotte in acque internazionali dalle motovedette libiche, si può ritenere che queste prassi di cooperazione operativa proseguano, magari con un diverso posizionamento degli attori internazionali, dopo l’arivo sulla scena libica della Turchia, ed il più recente ruolo giocato sul terreno da milizie paramilitari collegate alla Russia, ma la materia è stata sottoposta ad una rigida censura e non sono più disponibili dati ufficiali.
La carenza di informazioni ufficiali costituisce un tratto caratteristico comune di Frontex e delle autorità italiane. I più recenti rapporti di Frontex non fanno più riferimento ad attività di ricerca e soccorso nel Mediterraneo centrale. Analoga chiusura si riscontra da parte delle autorità nazionali, malgrado il Piano SAR nazionale del 1996, e poi quello aggiornato nel 2020, prevedessero precisi obblighi di comunicazione in capo alle autorità marittime. Basta confrontare i dati ufficiali forniti dalla Guardia costiera italiana fino al 2018 con l’attuale silenzio delle autorità marittime italiane di fronte alle richieste di informazioni sui soccorsi e con i dati più recenti forniti dall’OIM, per avere la prova di come si sia creato uno “spazio vuoto” a livello operativo ed a livello informativo, proprio sulle rotte del Mediterraneo
centrale, uno “spazio vuoto”, sottratto a qualsiasi giurisdizione, che dovrebbe valere
come deterrente, come strumento di dissuasione, rispetto alle partenze di imbarcazioni cariche di migranti in fuga dalla Libia e dalla Tunisia.
Diverse sentenze degli organi giurisdizionali italiani attestano la gravità degli abusi subiti dai migranti intrappolati in Libia e l’elevato livello di collusione tra le milizie ed i trafficanti, nei passaggi cruciali dai porti ai centri di detenzione (e viceversa). Non si può nascondere, proprio sulla base delle testimonianze convergenti dei sopravvissuti che sono riusciti ad arrivare in Italia, confermate in diversi procedimenti penali. quanto avviene nei centri di detenzione libici dopo il blocco in mare e la riconduzione a terra. Ed è in base a queste stesse testimonianze, ben oltre la caccia agli scafisti nell’intero globo terraqueo, che si potranno accertare le responsabilità per la complicità italiana ed europea, anche quando non si riscontri un diretto coordinamento, con le attività di intercettazione in mare da parte della sedicente Guardia costiera “libica”, che si è voluto ritenere autorità di controllo esclusivo nella zona SAR “libica”, inventata nel 2018 proprio a seguito del Memorandum
d’intesa tra l’Italia e il governo di Tripoli concluso nel febbraio del 2017. Un preciso disegno politico, che nasce in Italia già con i Protocolli operativi tra Italia e Libia del dicembre 2007, che poi è stato avallato anche dall’Unione Europea con la Dichiarazione di
Malta del 3 febbraio 2017. Un disegno politico di chiara portata elettorale, che si è tradotto in prassi omissive che hanno leso i diritti fondamentali delle persone migranti ed in molti casi hanno prodotto naufragi in acque internazionali con migliaia di morti e dispersi. Che altrimenti si sarebbero forse evitati, o quanto meno ridotti, se gli Stati costieri avessero continuato a garantire un immediato coordinamento delle operazioni di ricerca e salvataggio (SAR), finalizzato alla salvaguardia della vita umana in mare, anche nelle acque internazionali, indipendentemente dalla ripartizione delle zone SAR, come si era verificato nel 2014 (con l’operazione Mare Nostrum) e nel 2015, con le missioni di soccorso operate quell’anno nell’intero Mediterraneo centrale dalle navi inviate dall’agenzia europea Frontex.
10. La classificazione degli eventi di soccorso come eventi di immigrazione irregolare. Cosa manca nel decreto Cutro, e cosa comporta il Decreto legge n.1 del 2023 contro le ONG.
Il Decreto legge n.1 del 2023, ormai approvato in via definitiva dal Parlamento, continua intanto a produrre i suoi effetti nefasti, mantenendo una totale discrezionalità in capo alle autorità marittime, e tramite queste al ministro dell’interno, nella classificazione, e quindi nella distinzione dei casi di sorveglianza, di allerta e di distress. Si consente così di escludere la ricorrenza di una situazione di pericolo immediato,come è successo in occasione dela strage di Cutro, classificando l’evento di soccorso come evento migratorio, una distinzione che invece può essere apprezzata soprattutto dal comandante della nave più vicina. Date le caratteristiche delle imbarcazioni sulle quali i migranti vengono fatti partire, per il sovraccarico ed il loro equipaggiamento, la situazione di pericolo immediato (distress) va invece riconosciuta nella generalità dei casi, come purtroppo è confermato dai naufragi sempre più frequenti. Come è stato ritenuto dalla Procura della Republica di Agrigento nella richiesta di archiviazione, nel mese di gennaio del 2020, di uno dei procedimenti penali che hanno riguardato comandante e capo-missione della nave Mare Ionio di Mediterranea, e come hanno confermato altre successive sentenze di archviazione di procedimenti intentati contro le ONG.
Sotto questi profili, non possono essere ignorati dai giudici interni, e dallo stesso tegislatore nazionale, i principi ricavati dalle Convenzioni internazionali richiamati nella sentenza del Tribunale di Roma (sentenza n. 14998 del 2 dicembre 2022 (dep. 16 dicembre 2022), sul caso Libra, che pur contenendo la dichiarazione dell’avvenuta prescrizione dei reati, fornisce una ineccepibile ricostruzione delle fonti normative e dei profili di responsabilità. In quel caso proprio uno scambio di competenze tra Malta e l’Italia, e le scelte dei comandi militari, ritardavano la dichiarazione del caso di distress (pericolo immediato) e gli interventi di soccorso conseguenti, contribuendo ad aggravare le conseguenze mortali del ribaltamento del barcone. Fatti e fonti normative internazionali, richiamate dal Regolamento europeo n.656 del 2014, che non possono essere trascurate dal legislatore nella adozione di provvedimenti legislativi che possono incidere sulla vita o sulla morte delle persone che si trovano in difficoltà in alto mare.
Anche Il Consiglio d’Europa ha chiesto al governo italiano il ritiro del decreto legge “anti ONG” n.1 del 2023 che costituiva all’inizio dell’anno un intervento anticipatore del Decreto legge Cutro approvato ieri dal Senato, parificando i soccorsi dei naufraghi ad eventi di immigrazione irregolare, e si sollecitava anche la fine della guerra ai soccorsi umanitari, ma la Meloni ha deciso di “tirare dritto”.
La campagna mediatica e politica contro le ONG è ripresa più forte di prima ed i porti di destinazione assegnati alle navi umanitarie dopo i socorsi in acque internazionali sono sempre più lontani. Nell’ultimo caso dei soccorsi operati da Humanity One, addirittura, si è imposto il porto di sbarco di Ravenna. Per l’acquescenza della maggior parte delle ONG, che neppure ricorono contro queste decisioni illegittime, il piano di allontanamento dei soccorsi operati dalle navi della società civile sta avendo succeso, nel senso che la percentuale dei socorsi operati da queste navi è ormai sceso al 7 per cento del totale, mentre sembra irrilevante per i ministri e per la Meloni la crescita esponenziale delle vittime che si perdono nel Mediterraneo centrale. E nessuno sembra ricordare il ruolo centrale di Frontex e dei coordinamenti operativi delle Guardie costiere italiana e maltese nei rapporti con le autorità libiche, in quella vasta zona di ricerca e salvataggio che si continua a definire come zona SAR (search and rescue) “libica”. Quando neppure si riesce ad intravedere una Libia con istituzioni governative unitarie e guardia costiera sotto una guida centralizzata. Non si comprende come l’IMO, l’Organizzazione internazionale del mare delle Nazioni Unite continui a riconoscere l’esistenza di una zona SAR priva dei requisiti richiesti dalle Convenzioni internazionali. Anzi si comprende benissimo, se si pensa alle pressioni italiane nel 2017, perchè la Libia, dopo il Memorandum d’intesa Gentiloni-Minniti del 2 febbraio di quell’anno, avesse riconosciuta una “sua” zona di ricerca e salvataggio, che su concorde intendimento delle autorità italiane e libiche, con la complicità dei maltesi, è diventata uno spazio di dissuasione dei soccorsi operati dalle navi delle Organizzazioni non governative.
11. Responsabilità europee e nazionali per i mancati soccorsi in acque internazionali
L’Agenzia Frontex è collegata anche in base al Regolamento europeo n.1896/2019 con l‘operazione IRINI di Eunavfor Med, a guida italiana, punta “di diamante” dell’azione esterna dell’UE nel Mediterraneo centrale, che ha il compito di sorvegliare le coste libiche per prevenire contrabbando di petrolio, traffico di armi e immigrazione clandestina. Una missione che sorveglia e non soccorre, anche se è ubicata nella parte orientale della cosiddetta zona SAR “libica”, quella delle rotte che partono dalla Cirenaica, dalla zona di Tobruk in particolare. I più recenti dati su questa operazione confermano come non abbia concorso a salvare neppure un naufrago, mentre è attiva nel monitoraggio delle imbarcazioni delle ONG che, malgrado tutti gli ostacoli frapposti dai governi degli Stati costieri, continuano a soccorrere ed a garantire lo sbarco in un porto sicuro. Dal 2017 Frontex ha ritirato tutti gli assetti navali che potevano socorrere e mantiene soltanto piccole imbarcazioni che collaborano con la Guardia di finanza nelle attività di law enforcement e qualche assetto aereo che segnala ai libici le imbarcazioni da intercettare in acque internazionali. Per questa ragione occore eliminare tutti i possibili testimoni di operazioni di “soccorso” in alto mare, che in realtà nascondono veri e propri respingimenti collettivi su delega europea.
La “guerra” di Frontex contro le organizzazioni non governative si è inasprita da quando queste ultime hanno denunciato, anche al Tribunale penale internazionale, l’operato dei vertici di Frontex e degli agenti di polizia che ne fanno parte, per avere partecipato o gestito direttamente respingimenti collettivi illegali, detenzioni arbitrarie o per avere inflitto trattamenti inumani o degradanti. Non sono bastate neppure le dimissioni forzate del Direttore dell’agenzia Fabrice Legeri, travolto dalle accuse di opacità e di complicità nei respingimenti collettivi, scaturite da una indagine interna dell’OLAF, il nucleo antifrode del Parlamento europeo, per un cambio nella linea di attacco dell’agenzia contro le ONG.
Putroppo la giustizia internazionale è assai lenta, e sul piano nazionale lo scandalo delle intercettazioni di avvocati, docenti universitari, giornalisti nel processo Iuventa a Trapani è rimasto senza conseguenti sanzioni, e quindi rimane diffuso un senso di totale impunità per qualunque abuso di polizia commesso in attività di indagine contro gli operatori umanitari. Del resto la costruzione del “nemico interno”, identificato in chi assiste a terra persone in condizione di irregolarità o salva i migranti in mare, e la criminalizzazione dei soccorsi umanitari, sono operazioni mediatico-politiche ormai ampiamente riuscite con gli esiti elettorali che vediamo. Alle quali si cerca di dare adesso nuovi impulsi con atti di natura amministrativa, come i fermi delle navi umanitarie, che possono tramutarsi in sequestri o confische, in base al nuovo Decreto legge n.1 del 2023, se dalle indagini di polizia, in particolare dalle intercettazioni o dagli interrogatori dei naufraghi, si arriva a costruire una qualsiasi accusa di violazione delle regole di soccorso imposte dal governo per decreto, magari in violazione di Convenzioni internazionali o di Regolamenti europei.
Il dossier sulle schedature di massa operate da Frontex ed Eurosur conferma come la sfida per la democrazia in Europa nei prossimi anni si giocherà sullo scontro tra i governi, ormai quasi tutti di destra, che dettano una linea anche al Consiglio ed alla Commissione europea, e le Organizzazioni non governative, dunque con i cittadini solidali, con quella che una volta si definiva “società civile”, ma che oggi appare dispersa in mille rivoli e priva di una rappresentanza politica in Parlamento che ne difenda le ragioni. A rischio le Carte dei diritti fondamentali e le Costituzioni nazionali, il principio di separazione dei poteri e dunque lo stato di diritto, base della democrazia europea. E’ in gioco anche la libertà di associazione, perchè appare chiaro l’intento del governo di “fare fuori” tutte le ONG che non si pieghino ai suoi ordini.
12. Si rinnovano gli attacchi contro le Organizzazioni non governative
Dopo la strage di Cutro, e le pesanti accuse rivolte da più parti a chi non ha coordinato tempestivamente le attività di soccorso prima e dopo il tragico schianto del caicco proveniente dalla Turchia, ma anche dopo una serie di “incidenti” nel Canale di Sicilia, ed a nord delle coste libiche, sta ripartendo un pesante attacco politico-mediatico contro i soccorsi operati da navi civili. Navi anche di piccole dimensioni, finanziate dalla società civile, già colpite dal Decreto legge n.1 del 2023 che, intitolato falsamente sulla “gestione dei flussi migratori”, che nulla c’entrano con i soccorsi in mare, mirava esclusivamente a criminalizzare le attività di ricerca e salvataggio ancora operate dalle poche ONG presenti nel Mediterraneo centrale, imponendo porti di sbarco lontanissimi, con una evidente finalità dissuasiva, con pesanti pene pecuniarie e nuove possibilità di sequestro e confisca delle navi umanitarie. Si può dire adesso compiuta una svolta radicale, rispetto a quanto avveniva fino al 2017, nel rapporto tra soccorso civile e sistema istituzionale di ricerca e salvataggio in mare, centrato sui comandi della Guardia costiera (Centro di coordinamento dei soccorsi – IMRCC) e della Marina militare (CINCNAV). Che oggi diventano i principali accusatori degli operatori umanitari impegnati a soccorrere vite umane in acque internazionali, in aree nelle quali spesso le autorità statali, soprattutto quelle maltesi, hanno dimostrato di non arrivare ad effettuare la doverosa attività di ricerca e salvataggio (SAR). Perchè sono tante le vittime di zone SAR, zone di ricerca e salvataggio (search and rescue) istituite dagli Stati e riconosciute dall’IMO (Organizzazione internazionale del mare) per salvare persone in pericolo (distress) e non per contrastare quella che si continua a definire soltanto come “immigrazione clandestina”. Eppure dal 2015 al 2017 le navi del soccorso civile avevano svolto un ruolo essenziale per la salvaguardia della vita umana nelle acque del Mediterraneo centrale.
Nel 2017 le imbarcazioni delle Ong erano stabilmente inserite nel dispositivo di soccorso della Guardia costiera italiana, come si evince dai Rapporti annuali delle Capitanerie di porto. E si operavano anche 30 interventi in una giornata con una piena collaborazione tra unità civili e militari. Migliaia di persone che si potevano sbarcare in diversi porti, a rotazione, senza impegnare troppo a lungo le navi per trasferimenti vessatori, ma con un rapido ritorno nelle aree di soccorso. Tutto il contrario di quanto avviene adesso, con una situazione che a Lampedusa diventa esplosiva, perchè il vuoto che hanno fatto nella zona SAR libica, ed in quella maltese, dopo l’allontanamento delle ONG, ed il ritiro degli assetti navali europei, ha moltiplicato il numero dei barconi che puntano sulle coste italiane più vicine, dunque le isole delle Pelagie, ed arrivano in autonomia, se non fanno naufragio prima.
Da ultimo, la scoperta che una nave venduta da una ONG a Malta nel 2020 fosse stata riutilizzata per trafffici illeciti e quindi per la fuga verso l’Italia di centinaia di migranti partiti da Bengasi, ha riacceso le polemiche sulla complicità tra operatori umanitari e trafficanti. Una tesi già smentita da decine di archviazioni decise dalla magistratura italiana, ed anche da sentenze di assoluzione dei giudici di Malta, come nel caso della nave Lifeline, in precedenza Sea Watch 2, su cui si è voluto costruire l’ennesima campagna diffamatoria contro le ONG. Ma quella nave, prima della partenza per l’ultimo viaggio verso le coste italiane, stracarica di migranti, si trovava nel porto di Bengasi in una area controllata dalle milizie che operano per il governo di quella città. Allora, quali livelli di compicità tra trafficanti ed autorità libiche di governo in Cirenaica, zona dalla quale si verifica il maggiore incremento delle partenze, si continuano a nascondere ? E quali rapporti sotterranei intercorrono tra le autorità maltesi e le guardie costiere libiche che operano push back su delega, operando anche ai limiti meridionali della vastissima zona SAR maltese ?
13. I crimini contro i migranti in transito in Libia e la collaborazione con le Guardie costiere libiche come crimini di sistema.
In Italia si sono rinnovati accordi e impegni finanziari con il governo di Tripoli che, in base a quanto accertato sulla situazione in Libia da importanti sentenze della nostra giurisprudenza, confermate anche della Corte di Cassazione, avrebbero dovuto essere revocati, perchè la Libia, ancora oggi, non può essere definita un “paese terzo sicuro. A livello europeo, al di là del sostegno economico che l’Unione garantisce agli Stati membri puù esposti per concludere accordi di riammissione o di respingimento con i paesi terzi della sponda sud del Mediterraneo, le prassi operative dell’agenzia Frontex comportano una continua collaborazione con le autorità libiche e tunisine per il tracciamento e l’intercettazione in acque internazionali delle imbarcazioni stracariche di migranti che tentano di raggiungere le coste italiane. Già nel 2017, nel Report annuale di attività della Guardia costiera si dava atto di “accordi con il paese africano” (Tunisia) e della “concentrazione di assetti aereonavali nella zona di Lampedusa (particolare menzione merita il velivolo Osprey del Progetto MAS di Frontex”. Si tratta di una collaborazione che viene ancora oggi mediata dalle autorità marittime italiane, ed in minima parte maltesi, con l’esclusivo obiettivo di contrastare quelli che vengono considerati come meri eventi di immigrazione irregolare, cd. Law Enforcement, anche quando le imbarcazioni sono in evidente pericolo di affondamento, secondo gli stessi indici di distress stabiliti dal Regolamento europeo n.656 del 2014. Ma per Salvini si tratta soltanto di difendere la sedicente Guardia costiera “libica”che, secondo quanto ha dichiarato, ha salvato migliaia di vite.
Si tratta di nuovi crimini contro l’umanità, per i quali è difficile accertare responsabilità penali individuali sul piano nazionale, ed ancora di più a livello internazionale, per la frammentazione e l’occultamento delle catene di comando e per l’affermazione della sostanziale insindacabilità delle scelte politiche sorrette dal consenso internazionale e dalla maggioranze elettorali, come si sta verificando nel processo all’ex ministro dell’interno Salvini a Palermo per il caso Open Arms. E come è emerso nel corso del processo sulla strage dei bambini dell’11 ottobre 2013, il caso Libra, nel quale il Tribunale di Roma, pur accertando la avvenuta prescrizione dei reati contestati agli imputati, ha riconosciuto pesanti responsabilità in capo ai vertici operativi dell’organizzazione italiana dei soccorsi in mare, senza però risalire ai vertici militari e politici che ne indirizzavano le attività. Rimangono limitate possibilità di sanzione, contro questa nuova tipologia di crimini contro l’umanità, da parte dei tribunali internazionali. E rimane assai importante il lavoro di inchiesta e di denuncia delle Nazioni Unite e del Consiglio d’Europa.
La condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’Uomo per i casi di trattenimento arbitrario a Lampedusa e per i respingimenti collettivi in Tunisia, ha in parte oscurato le conclusioni di una Commissione di inchiesta delle Nazioni Unite che nei mesi scorsi si è recata in Libia che ha accertato, con un rapporto molto dettagliato, estese violazioni dei diritti umani in danno di cittadini libici e della popolazione migrante presente nel paese, con una grave complicità in crimini contro l’umanità da parte degli Stati europei e dell’Unione Europea. Che supportano le diverse istituzioni libiche, tra queste la sedicente Guardia costiera “libica”,per tentare di bloccare le partenze e favorire i respingimenti collettivi illegali verso i paesi di origine. Secondo gli ispettori ONU, gli Stati europei non sarebbero direttamente responsabili, ma “il sostegno da loro fornito ha favorito i crimini commessi“. Si aggiunge dunque un ulteriore tassello alle accuse di concorso in crimini contro l’umanità, che da tempo sollecitano un accertamento delle responsabilità penali internazionali degli Stati e dei loro agenti istituzionali. Una responsabilità che potrebbe essere accertata anche in capo all’Italia, ed alle autorità politiche e militari che hanno concluso, confermato ed eseguito gli accordi bilaterali con le autorità libiche. Per non parlare del ruolo oscuro giocato dall’Italia in Sudan, dal Processo di Khartoum lanciato nel 2014 da Renzi, agli accordi bilaterali stipulati con il dittatore sudanese Bashir nel 2016, con l’estradizione in Italia di un falegname scambiato per uno dei principali trafficanti africani. Fino a questi giorni di rivolta dei corpi paramilitari contro l’esercito governativo, che sta insaguinando ancora una volta l’intero paese, e di nuovo il martoriato Darfur. Conflitto che sta generando una nuova fuga di profughi, in particolare di quelli provenienti dal Corno d’Africa, che avevano trovato a loro volta rifugio in Sudan, con un effetto domino che si ripercuoterà sui paesi di transito fino alle sponde del Mediterraneo.
Sono anni che si denunciano i crimini commessi in Libia ai danni dei migrantii ma le istituzioni italiane, ed anche il Parlamento, sembrano non accorgersene. Le responsabilità degli autori di queste politiche di morte sono ormai evidenti e le Nazioni Unite le individuano in modo sempre più circostanziato.
Al di là delle denuncie di una società civile verso cui il ministro dell’interno Piantedosi si dichiara insofferente, occorre impegnarsi perchè la magistratura italiana e la giurisdizione europea, operando davvero su scala “universale”, accertino e sanzionino tutti i casi di abusi finora impuniti e i crimini contro l’umanità che sono diventati ormai crimini di sistema. E su tutto questo occorre combattere il raggelante senso comune diffuso nella popolazione italiana, sempre più caratterizzato da assuefazione ed indifferenza rispetto alle tante vittime in mare, ed ancora in più verso coloro che sono inghiottiti dai campi lager in Libia, o che il governo tunisino si appresta a respingere o ad espellere al di fuori del proprio territorio.
14. Restituire protagosnismo alle vittime, per sanzionare i crimini contro i migranti, per imporre una diversa politica dei controlli di frontiera e dei soccorsi in mare
Abbiamo constatato i limiti della tutela penale individuale, sia a livello nazionale che internazionale, e la difficoltà di ricostruire nuove categorie giuridiche, come quelle di crimini contro l’umanità o di popolo migrante, bene individuato nella sentenza del Tribunale permanente dei Popoli nella sessione di Palermo, nel dicembre del 2017. L’attuale quadro politico nazionale, e l’impasse che si registra a livello europeo, prima di importanti scadenze elettorali già in vista nel prossimo anno, rendono difficile ipotizzare modifiche legislative che costituiscano una svolta rispetto alle politiche ed alle prassi che abbiamo qui messo in evidenza.
Prima di ricostruire nuove categorie giuridiche formali, o fattispecie penali da utilizzare sul piano nazionale o internazionale, riteniamo che sia necessario restituire protagonismo alle vittime e rendere i migranti che sono riusciti ad arrivare in Italia, ma anche quelli che sono ancora intrappolati nei paesi di transito, dei soggetti attivi. Che, non solo a livello individuale, ma anche con organizzazioni da loro create, possano dare voce alle denunce, fornire testimonianze che inchiodino i responsabili delle politiche di dissuasione delle migrazioni e di abbandono in mare, in modo da contribuire anche a ribaltare le falsità di sistema rilanciate da un apparato mediatico, politico e poliziesco, che continua ancora oggi a capovolgere il principio di realtà e il sistema gerarchico delle fonti normative. Di fatto un vero e proprio attentato alla democrazia, attraverso la negazione dei principi che garantiscono i diritti fondamentali della persona, nella Costituzione, nei Regolamenti e nelle Direttive dell’Unione Europea, nelle Convenzioni internazionali. Su questo terreno occorre un cambio di prospettiva, per ricostruire nuovi percorsi di solidarietà su scala transnazionale, non solo in Europa, ma anche con quanti sono ancora in un paese di transito, o sono stati ricacciati indietro nei paesi di origine. In un momento in cui prevalgono logiche di conflitto armato, che stanno dilagando in tutte le parti del mondo dovunque vi sia una questione di spartizione di risorse, sembra questa l’unica strada percorribile per affrontare il fenomeno strutturale ed irreversibile delle migrazioni fuori da un ottica meramente securitaria, e profondamente disumana, per gli effetti che produce sulle persone, incluse quelle già cittadine dei paesi di destinazione, altrimenti abbandonate ad una logica di cupo individualismo e di paura dell’altro.
Fulvio Vassallo Paleologo
21/4/2023 https://www.a-dif.org/
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