Abbiamo preso le peggiori bufale sull’immigrazione e le abbiamo verificate

Complici le ultime ondate di sbarchi e le proteste di “cittadini esasperati” in varie parti d’Italia—in particolare a Treviso e a Roma—il genere letterario della bufala anti-immigrati è tornato con prepotenza su giornali, siti e social network.

Negli ultimi mesi diverse testate avevano provato a sfatare alcune credenze e falsi miti sull’immigrazione. Ad esempio, facendo chiarezza sui numeri, era stato distrutto lo spauracchio ” invasione,” era stata smontata la bufala dei 30 euro al giorno ricevuti da ogni migrante—che, tanto per ricordarlo, è la cifra che va alle strutture di accoglienza, mentre ogni ospite riceve il lusso di 2,5 euro—o la storia delle case popolari e i vantaggi per gli stranieri a scapito degli italiani.

Dal momento che non c’è nulla di più eterno di una bufala, specialmente se razzista, queste convinzioni continuano a circolare indisturbate nonostante i sempre più numerosi articoli e precisazioni. Abbiamo quindi deciso di raccoglierne qualcuna tra quelle più diffuse in questo momento.

Al di là dei casi di chi scambia un gruppo di turisti per profughi e lancia l’allarme, una parte della popolazione è fermamente convinta che a chi sbarca sulle nostre coste venga offerta una vacanza all-inclusive nelle strutture più esclusive del paese.

Effettivamente in Italia ci sono alberghi che ospitano migranti, la maggior parte delle volte in attesa che la richiesta d’asilo sia valutata. Diversa stampa ed esponenti politici non si sono fatti sfuggire l’occasione di costruire sopra questa circostanza storie secondo cui chi arriva non solo viene messo in hotel di lusso, ma se ne lamenta pure.

A maggio sono usciti vari articoli che raccontavano di una protesta di migranti assegnati a un hotel di Campiglia, in provincia di Livorno. Secondo quanto scritto inizialmente su alcuni siti e quotidiani, la struttura non sarebbe stata di loro gradimento perché sprovvista di wi-fi e tv, e non abbastanza vicina al mare. I migranti sarebbero dunque stati spostati in una nuova destinazione “un hotel dotato di più comfort,” “con piscina, wifi nelle camere e televisione.”

La notizia ha fatto il consueto giro del web fino alla precisazione della Questura, che ha chiarito che le lamentele non c’entravano nulla con le comodità, ma erano legate solo a motivi religiosi: “Per evitare di creare anche conflitti etnici sono stati trasferiti in quattro miniappartamenti di una struttura ricettiva a 100 metri di distanza.”

Un giornalista de Il Tirreno è andato dopo qualche giorno a trovare i migranti nella nuova struttura. L’articolo lascia intendere che facciano la bella vita e che si lamentino ancora, nonostante uno dei ragazzi intervistati racconti che si annoiano perché vivono lo stesso giorno da un anno e mezzo: “Chiediamo solo che ci diano i documenti che abbiamo chiesto per poter essere liberi di realizzare i nostri sogni in Italia. Qui, lontani dal centro del paese, siamo in trappola.” L’articolo prosegue obiettando che “i 13 africani potrebbero spostarsi dall’hotel; nessuno li trattiene o li osserva a vista,” salvo poi precisare che possono allontanarsi per tre giorni, dopo i quali il loro status di richiedenti asilo decade.

A parte questo, ci sono stati altri episodi di proteste in strutture recettive. Le notizie sono poco verificabili, ma girando su internet si trovano presunte lamentele più varie e fantasiose, come le troppe auto in sosta nei pressi dell’albergo.

L’ospitalità negli alberghi fa parte del sistema dei cosiddetti Cas, cioè centri per l’accoglienza straordinaria: in situazioni di carenza di posti, infatti, i prefetti possono rivolgersi a strutture non propriamente dedicate a questo scopo per chiedere disponibilità a ospitare migranti. Gli hotel accettano specialmente in bassa stagione, dietro il pagamento dei famosi 30 euro a persona.

Diverse associazioni lamentano che l’unico requisito essenziale richiesto alle strutture in convenzione sia quello della disponibilità dei posti, con il rischio di improntare il servizio di ricezione solo al profitto. Lo scorso agosto a Tabiano Terme, i migranti sono stati tenuti letteralmente “imprigionati” dentro un hotel, con scarse cure mediche e senza soldi. Considerando anche che, ad esempio, un profugo non è un turista, e ha bisogno di avvocati, mediatori, assistenza. Pochi giorni fa, invece, all’ex Hotel Alpi di Bolzano le forze dell’ordine hanno sedato una sollevazione di migranti ospitati. La richiesta non era di una vasca idromassaggio, ma di “latte, beni di prima necessità e documenti.”

La maggior parte delle volte comunque, l’accoglienza negli alberghi è assolutamente ordinaria: un letto, un pasto e un posto dove lavarsi. Salvo poi far passare per lusso il fatto che vengano pulite le stanze e cambiata la biancheria, come in servizi televisivi di questo tipo.

A parte gli hotel, comunque, nei Cas rientrano anche altri tipi di strutture, come vecchi centri o casolari, dove le condizioni—senza alcun controllo—sono ben lontane dall’essere quelle di una vacanza.

Collegata alla storia degli hotel c’è una delle pretese attribuite ai migranti: una connessione internet. Anche il caso di Livorno era stato fatto passare, inizialmente, esclusivamente per un problema di assenza di internet nell’hotel assegnato.

Qui non si tratta di bufale; è probabile che queste proteste si siano effettivamente verificate e che siano proprio quello che sembrano: richieste di collegamento a Internet. D’altra parte, se sbarchi in un paese straniero e lontano dopo un lungo viaggio in mare in cui rischi la vita, che necessità dovresti avere una volta arrivato di comunicare con il mondo?

A Taranto un gruppo di volontari ha fatto un’assemblea con i migranti ospiti del centro d’accoglienza della città da cui è emerso che una delle maggiori esigenze era un collegamento internet per tenersi in contatto con la famiglia lontana, che molti non sentivano da prima della partenza. Hanno fatto una colletta e comprato un modem, spendendo in tutto 100 euro.

Sempre sul fronte comunicazioni, un cavallo di battaglia degli argomenti anti migranti è il fatto che questi avrebbero con sé uno smartphone, il che li renderebbe meno meritevoli di aiuto. Anzi, possedere un cellulare assume quasi una connotazione negativa.

Il sito SalernoNotizie (e anche altri), raccontando l’arrivo di 800 persone lo scorso settembre, parla di ” sbarco d’élite“: gli scafisti sono stati identificati grazie a foto sui cellulari dei migranti e “tutti avevano scarpe ed erano in ottime condizioni, tanto da scattarsi selfie non appena attraccati al molo.” Questo sbigottimento verso il possesso di un oggetto che era considerato da ricchi negli anni Novanta si ritrova un po’ ovunque come argomentazione che ” i poveri profughi” in realtà tanto poveri (e tanto profughi) non sarebbero.

Durante le proteste a Casale San Nicola a Roma, il vicepresidente di CasaPound Andrea Antonini denunciava che a bordo del pullman che portava i migranti al centro di accoglienza”non sembravano esserci siriani o eritrei in fuga dalla guerra ma immigrati nordafricani sulle cui facce più che devastazione abbiamo visto sberleffo: dito medio alzato e smartphone alla mano per riprendere i residenti a piedi mentre loro percorrevano la strada che li portava al centro di accoglienza nell’autobus con l’aria condizionata.” Di queste immagini, tuttavia, non c’è traccia.

Alessandro Gilioli, nel suo blog su L’Espresso, fa notare che un cellulare di un certo tipo è necessario, per esempio perché “attraversare il deserto del Sudan e della Libia senza telefonino equivale a votarsi al suicidio sicuro.” Inutile dire che chi scappa da una guerra non è detto sia nulla tenente, ma tralasciando questo, mi sembra che nel 2015 l’equazione ho uno smartphone – non mi manca niente non funzioni proprio benissimo.

Il sito Articolo21 ha ripreso recentemente una riflessione pubblicata sul sito di un’organizzazione no profit impegnata in Africa su come gli occidentali vedono i migranti, in particolare quelli che riconoscono come rifugiati: trovano “difficile conciliare le immagini di giovani eritrei o siriani in fuga dalla violenza, dall’oppressione o dalle brutali guerre civili con un concetto apparentemente opposto di quegli stessi individui che utilizzano Facebook, Twitter o smartphone.” Secondo l’analisi, dunque, un vero rifugiato è chi “soffre in modo permanente,” perdendo compassione ed empatia quando si comporta “non da vittima.”

Nei giorni scorsi la questione smartphone è stata sollevata anche da un consigliere comunale di Pordenone che ha denunciato il bivacco dei migranti tra i giochi dei bambini nei parchi della città, “passando le giornate a usare cellulari e tablet,” come cittadini qualunque.

Claudia Torrisi

19/9/2016 su www.vice.com con video

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