Aborto. A proposito di “Difesa della vita”
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Nessun uomo potrà mai capire l’intensità dei sentimenti d’una donna, quando scopre di essere incinta. Nessun uomo mai saprà che cosa significa provare quell’altissimo senso di espansione di sé di fronte a una gravidanza voluta e sperata, né quell’abisso di angoscia di fronte a una gravidanza che, per mille motivi, non si può o non si deve portare a termine. No, nessun uomo. Quindi, nessun uomo dovrebbe mai permettersi di decidere del corpo di una donna.
Ma le istituzioni politiche, come gli Stati, o quelle giuridiche, come la Corte Suprema degli Stati Uniti, bypassano senza remore la volontà delle donne, e, in nome di “principi intangibili”, decidono del loro destino.
E questo non è altro che la riedizione del vecchio codice patriarcal-maschilista. Quello che è in discussione non è la “difesa della vita”, ma il potere sul corpo e la capacità generativa della donna. Come da secoli accade. La violenza sul corpo femminile e il potere sovrano di decidere sul frutto del concepimento e sui figli che nascono è stata sempre una prerogativa dello strapotere maschile. Nell’antichità, i neonati non voluti erano abbandonati e, se qualcuno li allevava, era per farne degli schiavi. Nel Medioevo e oltre erano depositati nelle “ruote” delle chiese e cresciuti come
trovatelli.
E’ una grande mistificazione sostenere che la legge 194 è la “legge che permette l’aborto”. Sono abbastanza anziana per ricordare molto bene la grande quantità di donne che, quando io ero ancora una ragazza, ricorrevano all’aborto clandestino, alle “mammane”, perché “non ci possiamo permettere un altro figlio, mio marito non vuole”. E ricordo anche delle ragazze che ci hanno rimesso la vita. La 194 ha avuto, caso mai, il merito di arginare la piaga degli aborti clandestini. L’aborto clandestino era frequentissimo, anche fra le donne cattoliche, prima che quella legge venisse approvata, ma era sempre una scelta “pilotata” da volontà maschili (padri, fratelli, mariti), pericolosissima per le donne. Nessuno ci trovava niente da ridire perché erano “affari privati”. Al massimo, le donne ne parlavano con i confessori, dai quali erano ulteriormente, pesantemente colpevolizzate!
Certo, la scelta di interrompere una gravidanza non è mai, per una donna, una scelta facile. Neppure in condizioni di tutela sanitaria. Non lo è da un punto di vista fisico, perché è comunque un intervento doloroso. Non lo è sul piano psicologico, perché interrompere un processo di vita che senti dentro di te è sempre una ferita traumatica. E, per chi crede, non lo è soprattutto sul piano morale.
Però nessuno, se non la donna stessa, può e deve decidere in merito al proseguire o meno la gravidanza, perché lei, e solo lei, ne conosce le più profonde, intime ragioni. E la sua scelta deve essere tutelata.
Certo, se una donna, anche sola e senza partner maschile, anche senza mezzi, quel figlio dovesse volerlo, dovrebbe essere supportata in questa sua scelta, sempre, non solo fino alla nascita del bambino, e poi, chi s’è visto, s’è visto. Perché l’impegno di un figlio dura tutta la vita!
Sarebbe però molto meglio se tutte le donne avessero la possibilità di evitare gravidanze indesiderate, con i metodi anticoncezionali che oggi ci sono e sono efficaci. La contraccezione, checché ne dicano molti “moralisti”, non è mai la stessa cosa che l’aborto! Purtroppo, però, moltissime donne vivono ancora in contesti culturali in cui il loro corpo deve essere sempre a disposizione del maschio – padrone e non hanno autonomia di scelta. Senza contare che moltissime gravidanze sono anche conseguenza di stupri e di violenze. In questi casi l’immoralità più immonda è quella di imporre alla donna di tenersi il figlio della violenza!
Per quanto riguarda le donne statunitensi, la recente decisione della Corte Suprema, che non riconosce l’interruzione di gravidanza come diritto sancito dalla Costituzione e lascia la decisione all’arbitrio dei singoli Stati dell’Unione, sancisce una violenza giuridica e politica, perpetrata in un contesto di “civiltà” che si dice a favore dei “diritti umani”. E tutto questo, con la giustificazione di essere “pro Life”. Che poi, sembra molto strano essere “a difesa della vita” quando si permette ai propri cittadini di possedere liberamente armi da usare “per ogni evenienza”. E che dire dei sedicenti “pro Life” che non si fanno scrupolo di massacrare chi non la pensa come loro?
Ma trovo anche aberrante chi, in casa nostra, intende impedire alle donne di decidere in maniera autonoma sul proprio corpo, in condizioni di sicurezza sanitaria, con il pretesto di voler difendere la vita, quando poi sbraita per la chiusura dei porti contro gli immigrati che fuggono da guerre, persecuzioni o devastazioni climatiche. E chi, in nome di principi cristiani, intende imporre le proprie decisioni sull’aborto e sull’eutanasia. Infischiandosene sia delle condizioni esistenziali delle donne che scelgono, anche se con dolore, di interrompere una gravidanza sia di chi non ce la fa a sostenere più una vita che è una continua sofferenza. Eppure, sul Vangelo è scritto “Non caricate gli altri di pesi che voi non toccate nemmeno con un dito”!
Inoltre, se si afferma di voler “difendere la vita” come si possono poi, coerentemente, sposare le cause di chi vuole la guerra? E i bambini morti sotto le bombe? E quelli che restano mutilati a vita? E quelli che non possono curarsi, per la mancanza di medicine? E i figli dei migranti, che muoiono a decine tra le onde del mare o nei campi profughi, abbandonati da tutti?
Senza contare poi le altre cause di mortalità infantile: vi sono bambini che muoiono di povertà e denutrizione; quelli che muoiono di schiavitù oppure che sono vittime di tratte criminali. Aiutare questi bambini a vivere non è forse un preciso dovere di tutti?
Purtroppo per questo non bastano pochi o tanti atti di carità individuali, per quanto benemeriti. Occorrono scelte politiche ed economiche ben precise,
Occorre agire sui macrosistemi economici e imporre una riduzione di consumi e una redistribuzione delle risorse, affinché nessun bambino muoia perché si trova in condizioni svantaggiate. La vita la si difende non solo al suo inizio o alla sua fine, per affermare un principio o, peggio!, per imporre un potere, ma soprattutto durante, nel lunghissimo iter dell’esistenza, e questo richiede un impegno ben più consistente, costante e operativo. E non credo, in tutta onestà, che la Corte Suprema e i governi antiabortisti degli Stati Uniti, nonché i tanti moralisti antiaborto di casa nostra invitino a impegnarsi concretamente anche in questa direzione.
Rita Clemente
Scrittrice. Collaboratrice redazionale del mensile Lavoro e Salute
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