Acqua, nucleare: cosa resta dei referendum, 5 anni dopo
Oltre ventisette milioni di cittadini italiani il 12 e 13 giugno del 2011 parteciparono a un referendum popolare, votando 4 quesiti. 25.935.372 dissero sì all’abrogazione di una norma volta ad obbligare le società che si occupano dei servizi pubblici locali ad affidare la gestione tramite gara a una società per azioni; 26.130.637 dissero sì a una modifica della tariffa del servizio idrico integrato, eliminando la componente “remunerazione del capitale investito”; 25.643.652 dissero sì all’abrogazione delle nuove norme che avrebbero consentito la produzione nel territorio nazionale di energia elettrica nucleare; 25.736.273, infine, dissero sì all’abrogazione della norma relativa al “legittimo impedimento” del Presidente del Consiglio dei ministri e dei ministri a comparire in udienza penale.
Tre dei quattro quesiti riguardavano, quindi, ambiente e diritti. E cinque anni dopo rispondiamo alla domanda “che cosa è successo?”.
Acqua, il referendum tradito
Secondo Giulio Citroni, che insegna Scienza politica all’Università della Calabria, e da un dozzina di anni studia i processi di governance nei servizi pubblici locali, “il referendum del 2011 è stato forse in questi anni il punto di massima chiarezza e la fonte di massima stabilità normativa raggiungibile”, tanto che nel 2012 la Corte Costituzionale “emette una sentenza fondamentale, che stabilisce che i tentativi di reintrodurre l’obbligo di gara sono anticostituzionali perché contradicono lo spirito e la lettera del referendum” (“Dismissioni! E poi?”, Guerini e associati, 2016). Chi ha votato il 12 e 13 giugno 2011, sostiene Citroni, lo ha fatto in modo non equivoco “contro l’obbligo di privatizzazione, contro la messa a profitto della gestione dei servizi idrici”.
Cinque anni dopo, non è cambiato (quasi) niente. Anzi, a livello governativo si assiste allo stravolgimento della legge per la ri-pubblicizzazione dell’acqua: il testo nato dalla proposta di iniziativa popolare del 2007 è stato approvato alla Camera, il 20 aprile scorso, in una versione che ne stravolge profondamente i contenuti (qui la nostra analisi).
Ma non c’è solo questo: il Governo guidato da Matteo Renzi ha deciso di muoversi lungo una direzione contraria al referendum, soprattutto con i decreti attuativi della legge Madia sulla riforma della pubblica amministrazione, i cui obiettivi espliciti, riportati nella relazione di accompagnamento, sono “la riduzione della gestione pubblica ai soli casi di stretta necessità” e il “rafforzamento del ruolo dei soggetti privati”.
Negli stessi decreti attuativi, inoltre, ritorna la previsione -per i servizi a rete- di “adeguatezza della remunerazione del capitale investito” nella composizione della tariffa: è l’esatta dicitura che oltre 26 milioni di cittadini avevano abrogato nel 2011.
Il Forum italiano dei movimenti per l’acqua, tra i promotori del referendum, è così oggi impegnato nella campagna “Stop Madia”. Il nuovo Testo unico sui servizi pubblici locali di interesse economico generale, decreto legislativo attuativo dell’art. 19 della L. 124/2015 (Legge Madia), è all’esame del Consiglio di Stato e della Conferenza unificata Stato-Regioni, e verrà approvato in via definitiva -con tutta probabilità- entro la fine del mese di giugno.
Sullo sfondo, continuano i processi di aggregazione, che vedono protagoniste le società quotate in Borsa (la lombarda A2a, la emiliano-romagnola HERA, la ligure-piemontese IREN, la laziale ACEA): a inizio luglio, però, l’Autorità garante per la concorrenza e il mercato dirà la sua sulla sostanzialmente fusione tra le multi-utilities A2a e LGH Group (società attiva nel lodigiano, nel cremonese e nel bresciano). La prima -di cui sono azionisti i Comuni di Milano e Brescia- potrebbe assumere una “posizione dominante”. La valutazione dell’Antitrust potrà offrire spunti importanti.
Solo a Napoli, con l’esperienza di ABC, e la trasformazione di ARIN spa in soggetto di diritti pubblico, si è pienamente realizzato ciò che la volontà popolare aveva espresso nel 2011, ovvero -prendendo in prestito l’interpretazione della Corte Costituzionale- “rendere estraneo alle logiche del profitto il governo e la gestione dell’acqua” (qui la storia di ABC Napoli, da Ae 172).
E qualcosa ha da insegnarci anche la vicenda romana, con le elezioni amministrative in corso: il Movimento 5 stelle ha paventato la possibilità di sostituire il management di ACEA, di cui il Campidoglio controlla il 51%; alcune società di analisti, però, sottolineano che un nuovo indirizzo alla politica industriale dell’azienda, prerogativa dell’azionista, potrebbe rappresentare un potenziale “pericolo” per gli altri azionisti, specie se questi interventi inseriscono in agenda temi come un aumento degli investimenti e una riduzione degli utili.
Nucleare, un risparmio di almeno 20 miliardi di euro
Cinque anni fa, ENEL aveva già individuato i siti in cui costruire quattro nuovi impianti nucleari, dal costo iniziale stimato di almeno 4,5 miliardi di euro: avrebbero dovuto consentire la generazione del 25% dell’energia elettrica prodotta ogni anno nel nostro Paese. Cantieri aperti nel 2013, si scriveva.
La vittoria dei “Sì” nel referendum, ha bloccato ogni investimento. E per fortuna, perché nel frattempo il mercato elettrico ha cambiato pelle. Basti pensare che le 4 nuove centrali nucleari avrebbero avuto una capacità complessiva di 6.400 Mw, mentre tra il 2013 e il 2014 le aziende proprietarie di centrali termoelettriche alimentate da carbone e gas naturale hanno chiesto la messa fuori esercizio, ovvero il distacco dalla rete, di una dozzina di impianti per una potenza complessiva di 7.788 Mw.
Anche ENEL -azienda quotata in Borsa, ma partecipata dallo Stato- si adattando al nuovo mercato elettrico: tra il 2015 e i primi mesi del 2016 ha diretto al ministero dello Sviluppo economico una richiesta di “messa fuori servizio esercizio” di 5 impianti, per una potenzia installata pari a 1.550 Mw, quasi quanto una centrale nucleare.
Che cosa è successo, nel frattempo? Nel 2009, l’anno in cui il governo iniziò a parlare di un ritorno al nucleare, il 74,8% dell’energia elettrica prodotta in Italia arriva da fonti non rinnovabili (gas naturale e carbone, su tutte); nel 2011, l’anno del referendum, la percentuale era scesa al 71,9%. Nel 2014 (ultimo dato aggregato disponibile), questa percentuale è scesa al 56,2%. A crescere sono state le fonti rinnovabili: +231,9% per l’eolico, +3294,6% per il fotovoltaico.
Nel 2008, inoltre, si stimava che tra il 2005 e il 2020 i consumi elettrici nel nostro Paese potessero crescere del 36,5%, fino a 423 Twh/anno. In realtà, i consumi sono cresciuti solo fino al 2007, e da allora sono scesi in termini assoluti del 10 per cento circa.
Luca Martinelli
fonte: Altraeconomia, 11 giugno 2016
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