Agenzie, cooperative, servizi: il volto rispettabile dello sfruttamento 2.0.
TORINO – Una busta paga in negativo. Sulla quale – sottratto l’affitto, il vitto e le utenze di un piccolo appartamento – il credito si era trasformato in debito per un gruppo di facchini provenienti da Pakistan e Senegal. Tanto è bastato perché aMontopoli, piccolo borgo di 10 mila abitanti in provincia di Pisa, venisse alla luce uno delle migliaia di tasselli che compongono il puzzle delle nuove schiavitù. Che oggi, “esattamente come accade con la prostituzione – spiega monsignor Giancarlo Perego, direttore della fondazione episcopale Migrantes – si stanno progressivamente spostando dall’aperto al chiuso, dall’agricoltura al mondo dei servizi e dunque dai campi agricoli verso magazzini e appartamenti”. A emettere quella busta paga, infatti, – tre anni prima che il rogo di Prato scoperchiasse il calderone del caporalato anche in Toscana – era stata una piccola cooperativa interamente gestita da italiani. Che, dietro la facciata bonaria dell’impresa a conduzione familiare, gestiva un giro di sfruttamento con terminali in Asia e in Africa, oltre che in Lombardia e nella provincia toscana.
Situazioni del genere, in Italia, sono sempre più frequenti. A raccoglierli è stato un dossier del Gruppo Abele.
A sentire gli operatori sul campo, la schiavitù 2.0 non avrà più il volto e le mani nodose degli ex braccianti riconvertiti al caporalato: a portare in Italia i nuovi schiavi, sempre più spesso, sono bande di colletti bianchi organizzate in agenzie, associazioni o cooperative sociali. Come a dire che Salvatore Buzzi e i suoi sodali non sono certo gli unici ad aver intravisto un business milionario dietro i flussi migratori diretti nel belpaese. Ma se le cifre dell’agricoltura iniziano a essere progressivamente inquadrate, non si può dire altrettanto per quanto riguarda l’industria e i servizi: “Oggi – continua Monsignor Perego – sappiamo con certezza che situazioni di sfruttamento sono largamente diffuse tanto nel mondo delle badanti e dei servizi di cura, quanto in quelli della ristorazione, del catering, del turismo e di gran parte dei lavori che presentano caratteri di stagionalità. Ma è il passaggio stesso dall’aperto dei campi al chiuso dei servizi a condurre in un mondo nebuloso, difficilmente monitorabile. In cui il ciclo della violenza e del ricatto può perpetrarsi con una facilità perfino maggiore”.
Al netto di un sommerso ancora consistente, i numeri dello sfruttamento nel settore agroalimentare sono, almeno in parte, noti. Stando all’ultimo rapporto “Agromafie e caporalato”, redatto annualmente dalla Flai – Cgil (Federazione nazionale lavoratori agroindustria), nel 2013 almeno 400 mila braccianti stagionali hanno lavorato in condizioni di grave sfruttamento nel nostro paese. Per l’80 per cento si trattava di stranieri, centomila dei quali hanno dovuto fare i conti con condizioni di estremo disagio ambientale e abitativo: tra i migranti impegnati nelle raccolte stagionali, in particolare, il 62 per cento non ha avuto accesso ai servizi igienici, il 64 all’acqua corrente. E il oltre il 70 per cento di quanti, a fine stagione, sono passati per un ambulatorio medico risultavano aver contratto una malattia collegabile alle condizioni lavorative.
Per il mondo dei servizi, al contrario, non esistono a oggi numeri affidabili. “Le uniche cifre che conosciamo – precisa Perego – riguardano il lavoro nero, che interessa il 20 per cento di quanti sono impiegati nella ristorazione e il 15 nella cura degli anziani. Una cifra, quest’ultima, che risulta però in qualche modo falsata, perché il settore è quasi impossibile da monitorare”.
Ma non è solo nei solchi del lavoro irregolare che nascono le nuove forme di sfruttamento. Sempre più spesso, i nuovi schiavi viaggiano in aereo, con i documenti in regola e con un contratto di locazione ad attenderli in Italia. Elementi, questi, che sono sempre funzionali al meccanismo della riduzione in schiavitù, come emerge dai casi venuti finora alla luce; a Torino, il Gruppo Abele ne ha raccolti a decine, in una ricerca condotta con 23 realtà italiane che si occupano di studiare e contrastare il fenomeno.
“Il modus operandi è all’incirca lo stesso della prostituzione – spiega Simona Marchisella dello sportello Vittime di tratta del Gruppo Abele -. Prima di partire, dietro promessa di un contratto vero o fittizio, il lavoratore contrae un debito con intermediari che in molti casi sono già residenti in Italia”. Secondo Marchisella, “più che a singoli faccendieri, ci si trova sempre più spesso di fronte a vere e proprie agenzie di collocamento, che hanno alle spalle organizzazioni criminali che provvedono a tutto: dal visto, al viaggio, al contratto di locazione in appartamento”. Oltre alla cura degli anziani, i settori interessati sono la logistica, la distribuzione, la ristorazione; “al nord – precisa Marchisella – è molto diffuso il volantinaggio, mentre in molti al sud vengono impiegati nell’installazione di pannelli fotovoltaici”. In mancanza di un occupazione, poi, non è raro che questi uomini siano indirizzati verso clan criminali che li utilizzano nelle piazze dello spaccio.
L’identikit degli sfruttati. Per quanto riguarda l’identikit dei nuovi sfruttati, Marchisella precisa che si tratta di individui “quasi esclusivamente di sesso maschile, e di età compresa tra i 18 e i 60 anni; anche se in alcuni casi è stata registrata la presenza di minori”. La maggior parte di loro arriva da Asia, Sudamerica, Africa sub sahariana e Medio Oriente; e in alcuni casi la partenza è avvenuta da aree di crisi, come la Siria o l’Afghanistan. Nelle campagne laziali, ad esempio, è molto consistente la presenza dei Sikh provenienti dal Punjab indiano: secondo una stima della Cgil a fronte di 12 mila in regola ce ne sarebbero altrettanti irregolari, gran parte dei quali in condizione di sfruttamento. In Lombardia, invece, c’è una forte presenza sudamericana, soprattutto di cittadini salvadoregni, che quasi sempre vengono utilizzati in servizi di logistica o volantinaggio. Secondo Marchisella, comunque, “in molti arrivano anche da paesi Comunitari: abbiamo registrato casi che riguardavano cittadini bulgari, rumeni, polacchi e addirittura spagnoli”.
“Molto spesso – continua Marchisella – gli abusi iniziano già prima della partenza: solo per affrontare il viaggio molti hanno contratto un debito con usurai, agenzie specializzate, un parente o un intermediario residente in Italia. A seconda della provenienza, la cifra varia dai 300 alle 50 mila euro, e tende a salire notevolmente se nel ‘pacchetto’ è incluso un posto di lavoro. Per garantire che il debito venga onorato i migranti sono sottoposti a minacce, violenze e ritorsioni: spesso, l’oggetto del ricatto sono i familiari; mentre in alcuni paesi africani non è raro il ricorso a riti voodoo”.
Il mercato dei documenti. Stando alle testimonianze delle organizzazioni interpellate dal gruppo Abele, poi, un altro affare decisamente lucroso riguarda l’emissione di documenti: secondo Carmela Morabito della cooperativa Parsec di Roma, “per i braccianti della provincia di Latina esiste un vero e proprio tariffario, che fissa il prezzo di un nulla osta al lavoro tra i 5 e i 15mila euro, e quello di un certificato medico sui 300 euro”. E anche nella zona di Prato, interessata da un intensificarsi di controlli dopo il rogo dell’anno scorso, secondo Silvia Callaioli della cooperativa Pontedera (Pisa) “è quasi certa l’esistenza di una centrale per la falsificazione di contratti di lavoro e permessi di soggiorno”. Quasi a ribadire, ancora una volta, che il business dei migranti non inizia e non finirà con “mafia capitale”. “E anzi – conclude Monsignor Perego – proprio il processo alla cupola romana potrebbe far luce su un nuovo aspetto della questione: perché, quando i legami d’affari tra i vari clan saranno noti, non è escluso che venga fuori un filo che lega le organizzazioni che si occupavano d’accoglienza a quelle che tengono in piedi sistemi di sfruttamento vero e proprio”.
12/12/2014 Fonte: www.redattoresociale.it
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