Aggressioni in sanità, utenti o delinquenti?

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Questa nota analitica vuole esere propedeutica alla comprensiore dei richi che affrontano le professsionis sanitarie, rischi non contemplati da chi diffonde l’idea che lavoratrici e lavorati siano dei fannulloni, dei menefreghisti, dei nemici dei cittadini.

Quindi questo tema delle aggressioni in sanità dovrebbe essere affrontato con un metro di misura adeguato alle realtà socile detrminatosi con i percorsi di privatizzazione che hanno portanto i cittadini a considerare ormai non più raggiungibile un diritto dovuto dallo Stato e i fatti lo stanno a dimostrare. Quello che non possono dimostrare, essendo stati esautorati dalla comprensione della politica e incapaci di individuare le responsabilità vere che si nascondono dietro il lavoro quotidiano delle professioni sanitarie, in ogni occasione di disservizio, o di totale assenza di cura e assistenza, la loro indignazione razionale.

Vogliamo così giustificare le aggressioni verbali e a volte fisiche? Saremmo dei masochisti in quanto molti di noi sono lavoratrici e lavoratori di sanità pubblica, e altri acnora lo sono stati: vogliamo solo dimostrare che la realtà racconta altro che la narrazione velenosa della stanpa e delle TV, nonchè dei politici che hanno creato, da decenni, la fine di un diritto di civiltà.

Il tema della sicurezza psicofisica degli operatori sanitari durante il loro lavoro di cura e assistenza è da non sottovalutare, ma va affrontato come una delle tante problematiche che affliggono il nostro quotidiano lavorativo. Una delle tante, ma senza vivere questo problema come il più importante, a scapito delle coercitive condizioni di lavoro imposte da politiche di tagli al personale che ci costringono a carichi di lavoro produttori di stress e disaffezione alla professione; di repressione della nostra libertà di parola e della stessa agibilità sindacale, pienamente riconosciuta sulla carta, ma ostacolata nei fatti anche sulla sicurezza del lavoro, a partire dalle malattie professionali. Il problema è reale ma non nella dimensione scandalistica fomentata da televisioni e giornali .

Gli ultimi dati

I casi accertati che sono imputabili a minacce e aggressioni sui luoghi di lavoro e che hanno interessato gli operatori sanitari riguarda nel 37% è “concentrato nel settore assistenza sanitaria, che include ospedali, case di cura, istituti, cliniche e policlinici universitari, il 33% nei servizi di assistenza sociale residenziale, che comprendono case di riposo, strutture di assistenza infermieristica e centri di accoglienza, mentre il restante 30% nell’assistenza sociale non residenziale”.
L’operatore sanità sconta sulla sua pelle le conseguenze dei tagli operati ai servizi di cui è innanzitutto vittima. Le aggressioni scaturiscono spesso dalla ignoranza, dalla impotenza del paziente o dei suoi cari.
L’aggressività verso l’operatore socio sanitario fotografa il malessere dei cittadini verso la sanità pubblica che non funziona perchè anni di austerità, e talvolta di malagestione, hanno fatto si’ che il servizio pubblico perdesse credibilità ed efficienza e con essa ne pagassero le conseguenze anche lavoratori e lavoratrici costretti ad operare in continua emergenza.

Se concordiamo che la rabbia nasce dalla poca risposta ai cittadini allora ci sembra un vero e proprio stato di confusione se non si riconosce che dovremmo avere tutti, infermieri, medici e OSS, la lungimiranza di leggere la rabbia verbale degli utenti sempre più impoveriti di diritti elementari come l’esigenza di una efficace risposta, nei tempi e nel merito, ai bisogni di ascolto, anche quelli emotivi.

Ecco, questo è l’indirizzo politico prioritario per non cadere in proposte improprie e pericolose per un rapporto di dialogo con i cittadini.
La salute e la sicurezza delle lavoratrici e dei lavoratori ci sta a cuore e dissentiamo dalla propensione alla militarizzazione, la riteniamo incivile e improduttiva perchè non si tratta solo di imparare tecniche di autodifesa (anche psicologiche) per disinnescare eventuali comportamenti aggressivi e scongiurare il peggio, il ragionamento da cui partire è ben altro: per restituire dignità al servizio sanitario e ai suoi operatori, perchè il servizio possa funzionare. Se agli occhi dei cittadini la sanità pubblica diventa sinonimo di inefficienza, significa che poco o nulla si è fatto, anzi chi gestisce a livello regionale i servizi socio sanitari è attento piu’ alle dinamiche dei tagli e del contenimento di spesa, anche con esternalizzazioni e appalti, che alla erogazione di un servizio degno di questo nome.

Se i tempi di attesa per un visita o al Pronto soccorso non vengono abbattuti, se non la smettiamo di poggiare intere cliniche sull’opera gratuita degli specializzandi, se non rinnoviamo la forza lavoro, se non aumentano gli organici, se non si investe in strutture piu’ moderne (invece di destinare fondi alla sanità privata), le conseguenze sono solo negative.

Sarebbe fondamentale chiederci tutti se è paradossale aggredire coloro cui si chiede soccorso?

Domanda ingenua se dimentichiamo cosa hanno significato per i cittadini e gli operatori dieci anni di de-finanziamento del SSN che hanno pesantemente degradato l’organizzazione delle strutture e reso difficile l’erogazione dei servizi sanitari.

Quindi, come non considerare che il numero maggiore delle proteste aggressive si verifica nelle strutture dove
la risposta ai bisogni di cura è inadeguata e ancora peggio impedita dalla chiusura di ospedali o dal loro accorpamento, da strutture fatiscenti con poco personale e infinite liste di attesa?
Non dobbiamo cadere nella trappola della guerra tra gli ultimi, tali siamo anche noi operatori sanitari, ricordandoci che questa guerra rientra nei piani di chi da decenni debilita il S.S.N. lasciandoci lavorare in prima linea senza gratificazioni professionali, stipendiali e anche di collaborazione dirigenziale. Gli atti deprecabili hanno mandanti verso i quali dovremmo indirizzare la rabbia.
Eppure qualcuno già pensa alla pistola Taser nei Pronto Soccorso, in mano ai vigilantes o agli stessi medici e infermieri.

Non ci illudiamo: una pratica di cura senza divergenze e conflitti non esiste. Anche perché spesso il conflitto, prima che rispetto a visioni della vita e del bene rappresentate da altri, nasce nel profondo di noi stessi, quando ci avviamo per la strada tortuosa della cura: ci accompagnano tante ambivalenze, delle quali non sempre siamo consapevoli.
Siamo sfidati a conciliare valori contrastanti per indagare le deleterie problematiche, conseguenti a tanti fattori di debilitazione della sanità pubblica, che spesso trovano sbocco solo nella guerra tra chi, malato e operatore, dovrebbe stare in un fronte unito. Servirebbe non solo a non considerare più il malato un cliente – che nella logica aziendalista non ha mai ragione – a servirebbe anche a rispondere efficaciamente allo snaturamento del ruolo professionale e relazionale degli infermieri.

Siamo di fronte a una realtà che nessuno, dagli infermieri ai medici, dai dirigenti aziendali ai sindacati delle professioni e confederali, può sottovalutare. Siamo convinti che il conflitto sia indotto dalla deregolamentazione in atto delle relazioni fra simili che permette in ogni ambito la sopraffazione verbale e fisica che fa di ogni luogo dove si esprimono interessi e bisogni un campo di battaglia dove, però, la spuntano sempre quelli che hanno più strumenti sociali e culturali e li usano come distanziatori contro chi ne è privo o quasi e si trova in uno stato di soggezione.

La quasi scomparsa della contrattazione sindacale ha privato i dipendenti pubblici di ogni ruolo propositivo e quindi di cosciente protagonista del proprio ruolo sociale e contrattuale per la soddisfazione dei bisogni altrui.
E la scelta di far venir meno il peso del dipendente – con il suo valore di equilibrio tra diritti e doveri- ricorrendo a figure esternalizzate ha ulteriomente precarizzato il quotidiano lavorativo. In questa situazione prevale il deleterio individualismo che massifica il proprio ego, caratteriale e professionale.
La militarizzazione delle relazioni, in atto nella società, porta alla barbarie e le telecamere o presenza delle pistole nei luoghi di lavoro e di studio è confacente allo strapotere contro la ragione e non al contenimento degli atti violenti contro chi lavora, o l’insopportabile indolenza cotro i malati e i loro familiari chi ha indole violenta a prescindere se ne frega di essere ripreso. La telecamera non parla delle motivazioni di nessuna delle parti.

Tre le cause primarie del rischio di conflitto tra utenti e operatori

. la progressiva riduzione della dotazione di posti letto in corsia, che ha drasticamente ridotto la possibilità di assorbire i ricoveri d’emergenza non programmati come sono quelli provenienti dai Pronto Soccorso.

. il blocco del turn over per il personale. I carichi di lavoro sempre più pesanti si ripercuotono ovviamente di più nell’attività dei Pronto Soccorso, per definizione più stressante e comunque attiva 24 ore su 24.

. l’assenza di una riforma dell’assistenza territoriale, funzionale un filtro dell’emergenza con la possibilità di gestire a domicilio o in strutture ambulatoriali le piccole emergenze, riducendo così gli accessi ai Pronto Soccorso ospedalieri, soprattutto quelli non appropriati che sono ancora il 30% del totale.

Molte sono le attività lavorative, anche in campo sanitario, che comportano dei rischi ma chi le svolge non potrebbe rifiutarle senza cambiare professione: si pensi ad un radiologo, ad un infettivologo, ecc. che per quanto protetti non possono considerarsi a rischio potenzialmente zero, eticamente il , potenziale, rischio si giustifica nel tentativo di eliminare o ridurre il rischio dei cittadini afferenti al luogo di cura. Certamente, ma questo sta alla volontà e capacità di non esimersi dal lottare, anche sindacalmente, per non accettare l’imposizione di un rischio al solo fine di aumentare il profitto aziendale.

Quel rischio molteplice, quasi disconosciuto, che si chiama “malattia professionale”. E’ un nemico vero che aggredisce silenziosamente, e impunemente dato che la stragrande maggioranza dei casi si manifesta nel tempo e quasi il più delle volte non viene riconosciuto e risarcito, se mai il risarcimento può essere considerato una panacea, mentre è una vera e propria accettazione del rischio che i lavoratori non sono consapevoli del rischio determinato da un’organizzazione del lavoro che non mette in conto la salvaguardia della loro salute e sicurezza sul lavoro.

Le malattie professionali più diffuse

Il settore sanitario occupa circa il 10% dei lavoratori dell’Unione europea, ed è pertanto uno dei più grandi settori occupazionali, con un’ampia gamma di professioni. Le donne rappresentano circa il 77% della forza lavoro.
Nella sanità i disturbi muscoloscheletrici degli arti superiori e del collo rappresentano il secondo tasso più elevato di incidenza tra le patologie correlate al lavoro, subito dopo il settore edilizio.

Il personale sanitario è esposto a diversi rischi durante lo svolgimento delle attività quotidiane, quali il sovraccarico biomeccanico, le posture incongrue, i movimenti scoordinati e/o ripetuti. Posture di lavoro scorrette vengono spesso assunte nell’assistenza al letto del paziente, ma anche in ambito chirurgico o durante le attività di laboratorio.

In molti casi di intervento professionale lavoratrici e lavoratori sono esposti anche a rischi legati all’utilizzo di sostanze chimiche (disinfettanti, gas anestetici, detergenti, ecc.) oltre che a medicamenti che, soprattutto in sede di preparazione, possono entrare in contatto con la pelle o penetrare nelle vie respiratorie e provocare reazioni locali o sistemiche, come le malattie cutanee, più spesso di origine tossico-irritativa che non allergica, affezioni nasali, patologie sinusali, oculari e asma. L’impiego di alcuni strumenti di lavoro, quali aghi, siringhe, bisturi, comporta un rischio di puntura o taglio con possibile trasmissione ematica di agenti biologici quali il virus HIV e il virus dell’epatite B. Radiazioni ionizzanti e non ionizzanti rappresentano un altro potenziale rischio.

Nelle strutture sanitarie, oltre al personale sanitario (medici, infermieri, ecc.), sono esposti a rischi anche il personale di supporto, vedi OSS, e tecnico e i laboratoristi e gli anestesisti, i tirocinanti, gli apprendisti, i lavoratori a tempo determinato, i lavoratori somministrati e gli studenti che seguono corsi di formazione sanitaria.

Le addette e gli addetti alle pulizie sono esposti a pericoli e rischi che variano in funzione dello specifico luogo di lavoro.

Un’altra causa frequente è la ”acariasi “ dovuta alle frequenti occasioni di contatto e quindi di trasmissione di parassiti tra pazienti infetti o portatori e operatori sanitari, che possono fare da tramite per altri pazienti o contrarre essi stessi l’infezione”.

Inoltre negli ambienti sanitari “sono presenti numerosi agenti capaci di scatenare manifestazioni morbose di tipo allergico (orticaria da contatto, riniti allergiche, asma e dermatiti da contatto). I principali agenti allergizzanti presenti in ambiente sanitario sono, tra gli agenti chimici, i detergenti, i disinfettanti e alcuni farmaci. Un ulteriore fattore di rischio è rappresentato dagli acari della polvere che possono annidarsi in coperte, cuscini, materassi. I guanti in lattice rappresentano attualmente il fattore di rischio di patologia allergica più rilevante in ambito sanitario”.
Il lattice – “contenuto anche in diversi manufatti di comune utilizzo in ospedale (cerotti, contagocce, tappi dei flaconi di farmaci, componenti di siringhe, lacci emostatici, cateteri vescicali, cateteri per clisteri, palloni AMBU, bracciale dello sfigmomanometro, ecc.)” – “in chi è sensibilizzato a tale materiale, può causare sintomi immediati, cioè entro un’ora dal contatto, oppure ritardati, entro 24 – 72 ore dal contatto”.

PS. Evitiamo di parlare delle centinaia di morti e di infortuni negli ospedali e nelle RSA durante la pandemia. Sono di opinione pubblica e ne abbiamo dato conto con decine di pagine, di inchieste e testimonianze dirette su Lavoro e Salute.

Franco Cilenti

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