Aggressioni negli ospedali, rischio lavorativo o ordine pubblico?

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di Marco Caldiroli

Tecnico della Prevenzione. Presidente Medicina Democratica

Il tema delle aggressioni nei luoghi di lavoro non è una “novità”. E’ parte di quei fattori di rischio lavorativo oggetto di attenzione anche normativa solo negli ultimi anni. L’ambito è quello dei rischi psico-sociali, in particolare legati alla organizzazione del lavoro e ai rapporti tra struttura gerarchica di una impresa e i lavoratori/lavoratrici: in questo caso i rischi sono principalmente interni, nelle frizioni dei rapporti tra lavorator* e i rappresentanti della “struttura di comando”. Spaziano dal tema normato (in qualche modo) dello stress lavoro-correlato ai fenomeni di mobbing, questi ultimi non ancora pienamente definiti e per lo più considerati come eventi non legati alle condizioni lavorative ma a rapporti personali nocivi che si tende a non riconoscere come insiti nella organizzazione d’impresa.

Caso distinto, ma con identici effetti sui lavorator*, è quello relativo ai rischi da aggressione nell’ambito di attività/servizi ove vi è contatto con persone esterne alla organizzazione lavorativa inclusi utenti di servizi pubblici (rivolti al pubblico in senso generale).

Tutti questi casi, ognuno con la particolarità e l’estensione connessa con il tipo di attività e le occasioni che determinano rischi psico-sociali, vanno considerati nel documento di valutazione dei rischi. Rammento che valutare i rischi significa, nella pratica, fare un “selfie” alla propria attività (con l’ausilio del RSPP; del RLS e del medico competente) individuando le criticità e identificando un percorso di riduzione/eliminazione dei rischi come pure di “gestione” dei rischi “residui”, non eliminabili. Obiettivo di una valutazione è definire misure di prevenzione e protezione e individuare un formale “piano di miglioramento” nel quale si indicano gli obiettivi, i tempi, le modalità di verifica e i soggetti responsabili della attuazione. Ricordo questi passaggi perché un documento di valutazione dei rischi (DVR) è tutto meno che un volume di carta, più o meno dettagliato e completo, da mettere nel cassetto e mostrare all’organo di vigilanza in caso di ispezione. E’ invece un documento di lavoro da utilizzare in modo continuo (e modificare ogni qualvolta è opportuno) su cui i diversi attori della sicurezza dovrebbero mantenere un confronto continuo (non solo nella riunione annuale) sottoponendo a verifica costante e modificandolo all’occorrenza il “piano di miglioramento”.

Mantenere un DVR come un “work in progress” è ancor più necessario a fronte di rischi connessi e assai variabili in relazione al “fattore umano”, alle diverse soggettività che compongono e realizzano un luogo di lavoro che non è semplicemente un insieme di strutture edilizie e di macchine. Ogni luogo di lavoro ha delle particolarità che vanno considerata anche sotto il profilo delle “influenze esterne”. Abbiamo agli estremi rapporti conflittuali tra lavoratori e utenti connessi a procedure complesse e/o contorte e ove la difficoltà dell’utente può scontrarsi con la indifferenza dell’operatore fino al “tipico” caso della rapina (in banca, in posta ecc). La casistica delle aggressioni in campo sanitario le pone, per lo più, in una situazione “intermedia”. Chi scrive ha avuto esperienze di minacce e “quasi aggressioni” nel momento in cui la “controparte”, un datore di lavoro sottoposto a ispezione, capiva che avevo rilevato delle violazioni normative e quindi sarebbe stata attivata una procedura sanzionatoria e/o giudiziaria nei suoi confronti. E’ la “tipica” reazione che può anche sfociare in violenza nei confronti dell’operatore che rappresenta funzioni pubbliche anche quando è palese la violazione. Monta la rabbia per esser stati “beccati”, tant’è che la prima difesa è quella di indicare all’ispettore di andare altrove che troverà altrettante e più gravi violazioni. Ci è difficile considerarci “colpevoli” e, istintivamente, ci autoassolviamo (o meglio ci perdoniamo) dell’errore e può risultare insopportabile che qualcun altro, pubblicamente, ce lo rinfacci.

La numerosità e la gravità di casi di aggressioni, fino all’omicidio, ad operatori sanitari in particolare nei punti di contatto con l’utenza più sensibili come i pronto soccorso degli ospedali mostra una sfiducia divenuta patologica tra servizi pubblici e alcuni utenti. Anche in questo caso gli aggressori porteranno a discolpa condizioni di necessità o di altro genere allontanando da sé ogni responsabilità e spostarla sulla struttura, come fanno evasori fiscali, abusivisti edilizi ecc.

Definito il “contesto” occorre chiedersi cosa sia avvenuto negli ultimi anni, dopo la pandemia covid quando gli operatori sanitari erano osannati come “eroi”, fino all’attuale frequenza e gravità delle aggressioni. Forse ci sono dei fattori che “predispongono” i pronto soccorso e più in generale i servizi sanitari a un rapporto servizi/utenti travisato fino alla violenza. C’entra una visione della sanità, o più in genere dei servizi pubblici, basato su un rapporto “privatistico”: “io pago il servizio con le tasse” (per chi le paga), mi è dovuto tutto e immediatamente con un risultato positivo “garantito” come se andare al pronto soccorso equivale a riparare l’auto dalla concessionaria.

Se questa è la “propensione” degli utenti che può arrivare, per gli esagitati del momento, a aggressioni fisiche, vuol dire che un obiettivo della L. 833/1978 non è stato raggiunto. Nella riforma sanitaria vi è infatti, primo obiettivo “la formazione di una moderna coscienza sanitaria sulla base di un’adeguata educazione sanitaria del cittadino e delle comunità”. Il tema era comunque all’attenzione anche prima del covid, nel 2007 il Ministero della Salute aveva diffuso una “raccomandazione” sul tema ed ha affiancato le difficoltà crescenti per mantenere un servizio adeguato della medicina territoriale con relativo “ospedalocentrismo”, arrivo ai pronto soccorso di persone che, per la minore gravità/urgenza, non dovrebbero trovare come unica risposta l’Ospedale. La maggiore pressione sui pronto soccorso, a sua volta, ne ha ridotto le capacità di risposta, determina la fuga degli operatori per condizioni e quantità di lavoro critiche. In una relazione presentata dall’Osservatorio nazionale sulla sicurezza degli esercenti le professioni sanitarie e socio-sanitarie, nel 2023 sono stati censiti 16mila episodi di aggressione con 18mila operatori coinvolti (in maggioranza donne, questo non è un aspetto secondario); luoghi con maggiore frequenza : – servizi di emergenza-urgenza; – strutture psichiatriche ospedaliere e territoriali; – luoghi di attesa; – servizi di geriatria; – servizi di continuità assistenziale. Nel 72 % dei casi l’autore della aggressione è il paziente stesso.

Lo ricordiamo ancora una volta, nel decennio 2011-2021 sono stati chiusi 125 ospedali, sono circa 30mila i medici mancanti come pure 7.000 infermieri e sono stati “persi” 100mila i posti letto. Il PNNR non ha portato a sostanziali modifiche, oltre ai tagli e alla incapacità di molte regioni di impiegare proficuamente le risorse aggiuntive a disposizione, soprattutto dal lato della formazione e delle assunzioni di operatori sanitari.

Per quanto detto sopra appare evidente che questa criticità è uno degli effetti dello smantellamento progressivo della sanità pubblica. I numerosi studi sulla questione alla fine incorrono in questo nodo.

La risposta più recente è una smania “militarizzatrice” del governo attuale e nell’appesantire pene per reati già previsti dal codice penale (e già rivisti recentemente, con la L. 113/2020). Sulla prima tendenza va ricordato che fino a 10/15 anni fa era usuale che gli Ospedali pubblici principali (proprio perché dotati di pronto soccorso) contenevano un presidio permanente della polizia di stato. Il motivo era quello di disporre di un intervento immediato in caso di pazienti le cui ferite erano riconducibili a possibili reati (omicidi, ferite da armi da fuoco, gravi infortuni sul lavoro ecc). Una presenza con altra finalità, eventi esterni, poteva in ogni momento coprire eventi interni. Non si trattava di “vigilanza armata” ma, appunto, di un presidio con una funzione pubblica articolata (si pensi alla utilità di una presenza del genere quando si presenta al Pronto Soccorso una donna vittima di violenza famigliare).

La raccomandazione ministeriale del 2007 proponeva che ogni struttura si dotasse di un piano di prevenzione della violenza a partire da azioni di monitoraggio, con l’apporto degli operatori.. Vi era anche un elenco di indicazioni, sia relative alle strutture (caratteristiche dei luoghi di accoglienza e cura) sia di gestione degli accessi e del rapporto con gli operatori (prevedendo ad esempio sempre la presenza di almeno due operatori), la formazione degli operatori su tecniche di rapporto con gli utenti e di disinnesco di situazioni in fase di degenerazione (v. https://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_721_allegato.pdf ). Quante di quelle misure sono state adottate ? A settembre 2022 la Giunta della Regione Lombardia deliberava “l’istallazione di sistemi di videosorveglianza ad uso interno alla struttura sanitaria con adeguata cartellonistica e di sistemi di allerta rapida delle Forze dell’ordine (pulsanti di chiamata, ecc…); • l’attivazione di un servizio di sicurezza interno che garantisca adeguata presenza in rapporto alle aree individuate e considerate a maggior rischio e dalla tipologia e dalla numerosità di accessi, con una copertura che non potrà 3 essere inferiore alle 12 ore; • il periodico aggiornamento, nel rispetto della normativa vigente in materia di privacy, agli accompagnatori dei pazienti circa lo stato di avanzamento del percorso di diagnosi e cura; • la creazione di ambienti accoglienti per utenti e accompagnatori nelle sale di attesa anche attraverso la realizzazione di “colonne di ricarica“ per tutte le principali marche di smartphone e tablet, l’installazione di schermi televisivi con collegamento ai principali canali nazionali e la presenza di distributori automatici di bevande e snack, curando, in particolare modo e per quanto riguarda l’offerta di vending, la qualità nutrizionale delle bevande e degli alimenti forniti”. A parte gli snack e la televisione per mantenere calmi gli animi, si tratta di una parziale riproposizione della raccomandazione del 2007 evidentemente non pienamente applicata.

Detto questo appare evidente che l’unica risposta “centrale” è di carattere punitivo e coglie l’occasione per veicolare un messaggio che conduce letteralmente ad una ennesima guerra tra poveri per evitare di andare al nodo vero del problema, lo smantellamento della sanità pubblica che distrugge anche la fiducia delle persone nei servizi. Da più parti invece si è indicata la via della prevenzione, da costruire tutti i giorni a partire da un piano straordinario di assunzioni di personale e di attuazione di quel potenziamento della sanità territoriale pur formalmente presente nei programmi (a partire dal PNRR) e magari una puntuale verifica sulla attuazione di quelle raccomandazioni del 2007.

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