Agguato al lavoro

Viaggio all’interno del «sistema Prato», il distretto industriale in cui regna lo sfruttamento selvaggio. E dove i picchetti sindacali vengono aggrediti da mazzieri

«Il lavoro in Italia è senza contratto». Una semplice frase che da sola racconta il complesso «sistema Prato», uno dei maggiori distretti industriali d’Italia, dove l’illegalità regna sovrana. A raccontarlo è un operaio che incontriamo al picchetto dei Sudd Cobas davanti alla pelletteria Confezioni Lin Weidong, a Seano, frazione del comune pratese di Carmignano, il 13 ottobre scorso, nel giorno del corteo antimafia promosso dal sindacato dopo l’aggressione squadrista ai lavoratori in sciopero. 

«Non lavoro in questa fabbrica – racconta l’operaio –, sono qui per solidarietà con i compagni aggrediti e per chiedere diritti. Per tre anni ho lavorato senza nessun contratto, a nero, 12 ore, 7 giorni su 7, per pochi soldi. Non avevamo né ferie né malattia. Quando siamo andati a chiedere diritti al padrone, lui ha parlato in maniera furba. Ha detto che lo stato ruba i soldi a noi e a lui, che senza contratto è meglio. Due anni fa l’ispettorato è venuto in fabbrica, ma il giorno dopo lavoravamo ancora 12 ore. Allora ci siamo rivolti ai Sudd Cobas. Ce lo hanno consigliato altri operai. Abbiamo scioperato e ora lavoro 8 ore per 5 giorni. Io i soldi li voglio in busta paga, voglio potermi assentare se sono malato, andare in ferie, avere una vita oltre il lavoro». 

L’aggressione squadrista

L’agguato risale alla notte del 9 ottobre scorso e ha riacceso i riflettori sulla violazione dei diritti sul lavoro, tutt’altro che consolidati. Cinque uomini travisati hanno fatto irruzione al presidio sindacale, assaltando con spranghe di ferro le persone presenti, fino ad arrivare alle intimidazioni proferite in perfetto italiano: «La prossima volta vi spariamo!». In quattro fra lavoratori e sindacalisti hanno dovuto ricorrere alle cure mediche del pronto soccorso; e sull’episodio la Procura di Prato ha aperto un’indagine per vari capi d’accusa, che pendono anche sullo stesso titolare.

Il sindacato Sudd Cobas in quei giorni aveva lanciato lo «Strike day», uno sciopero in serie e a oltranza in cinque aziende del comparto, per rivendicare contratti regolari per gli operai, ottenendo il riconoscimento degli straordinari alla Stireria Sofia, la sottoscrizione di 40 ore settimanali alla Fabbrica Zipper e Stireria Tang, la regolarizzazione degli addetti all’azienda 3Desy. All’appello mancava appunto la pelletteria, dove si è verificata l’aggressione.

«Queste violenze succedono perché sono successe prima e nessuno ha pagato – ha detto Luca Toscano delegato dei Sudd Cobas il giorno del corteo – Ci sono 26 operai feriti con teste spaccate o braccia spezzate e nessun processo. Queste cose continuano ad accadere perché c’è un terreno fertile, perché per anni in questa città si è parlato di operai sfruttati 12 ore al giorno come dei violenti, solo perché si mettono davanti ai camion e dicono che vogliono un contratto regolare. Non bisogna poi stupirsi se qualche padrone interpreta lo squadrismo come una legittima difesa. Noi diciamo che lo sfruttamento quotidiano è la violenza e il diritto di sciopero è l’autodifesa».

Made in sfruttamento

Da tempo ormai i sindacati di base e i movimenti locali denunciano come il settore tessile di Prato sia «distretto fra sfruttamento, incidenti mortali e repressione dei diritti», con un ritorno quasi ottocentesco a dinamiche delle relazioni industriali, che si pensavano ormai consegnate alla storia. Quello che è successo il 9 ottobre non è una novità nei macrolotti pratesi. Ricordiamo le morti sul lavoro dei giovani operai Sabri Jaballah e Luana D’Orazio, uccisi per la manomissione di macchinari in due diverse aziende tessili del distretto, tuttora attive e foriere di profitti ai titolari. E poi, gli scioperi delle grucce a Gruccia Creations, TexPrint, Acca, Digi e Dreamland – solo per citare i casi in cui gli aggressori non avevano una divisa indosso –, che hanno registrato analoghi assalti di picchiatori, spesso ingaggiati dagli stessi proprietari per sbarazzarsi delle proteste e nella maggior parte dei casi poi rimasti impuniti. Tanto da far parlare Luca Toscano di «atto squadrista di stampo mafioso. Stavolta gli aggressori erano italiani, persone assoldate da un sistema mafioso che controlla il distretto e cerca di mettere a tacere i lavoratori e il sindacato che li organizza».

Uno degli elementi di discontinuità in questa vicenda emerge proprio dalla nazionalità degli aggressori, che uscirebbe dal dualismo – certo secondario a quello di classe – dei padroni di origine cinese e dei lavoratori sfruttati per la maggior parte di nazionalità pakistana o provenienti dall’Africa sub-sahariana. Questo aspetto ha paventato la saldatura fra gruppi d’interesse orientali e criminalità organizzata anche nostrana, in un territorio sempre più noto per le infiltrazioni mafiose e al centro di traffici che, inizialmente da stracci e rifiuti, nel tempo sono passati alla ricettazione di merci e al business con la droga, trovando a Prato anche un terreno fertile per il riciclaggio, come dimostra la maxi-inchiesta sul clan Terracciano. 

Il corteo antimafia del 13 ottobre

Al corteo promosso per il 13 ottobre, ci sono state adesioni che in questi anni non si erano mai viste. Oltre alle consuete bandiere dei Sudd Cobas e allo striscione del Collettivo di Fabbrica ex Gkn, c’erano gli striscioni della Fiom e della Cgil Toscana, ma non quella di Prato, oltre a sindaci e assessori con tanto di fascia tricolore. «A nessuno chiederemo dove è stato finora, ma solo dove sarà da adesso in poi», scrivevano i Sudd Cobas nei giorni precedenti sui social. E in effetti, per la Cgil era la prima volta al macrolotto. Complice probabilmente l’imminenza della stagione referendaria sul lavoro e il ritrovato attivismo del sindacato di Maurizio Landini.

Sulla questione, Toscano è intervenuto poco prima che partisse il corteo: «Tra gli anni Sessanta e Settanta era la Cgil a fare quello che stiamo facendo: montare le tende, i gazebi, richiedere i diritti per i lavoratori. Forse è proprio perché questo non è stato fatto negli ultimi vent’anni, che ci troviamo a Prato in una situazione in cui abbiamo una zona economica speciale, dove i capitali possono venire e fare quello che vogliono». Già, i capitali, ma quali? Secondo i dati della Camera di Commercio di Prato il distretto conta oggi su circa 1.800 aziende del tessile tradizionale, a fronte di quasi 4.000 mila del comparto moda e confezione a prevalente conduzione cinese, ma nessuno dice che queste fabbrichette lavorano in appalto per i grandi brand, che impongono prezzi bassissimi, avallando così il sistema di sfruttamento. Prendiamo ad esempio il caso Montblanc, impresa multinazionale detenuta da una holding finanziaria con un fatturato pari al Pil della Slovenia, le cui borse vengono realizzate nei laboratori illegali, pagate dalla casa madre 40 euro a pezzo e rivendute nelle vie del lusso a 1.400 euro. 

Rendite convergenti

Nel distretto tessile di Prato la vocazione manifatturiera è sempre più residuale, rispetto alla terziarizzazione dell’economia dei servizi e soprattutto del passaggio dal rischio d’impresa alla rendita finanziaria e immobiliare, che ha visto storiche famiglie dell’imprenditoria locale trasformarsi in sicuri affittuari di capannoni, dove si lavora giorno e notte, nella totale mancanza di legalità e sicurezza. Anche il sistema dei controlli mostra il fianco alla decadenza attuale. Ci si limita a controlli spot, facilmente aggirabili, con sanzioni irrisorie, che vengono semplicemente messe a bilancio dalle aziende, e l’apparente regolarizzazione con contratti part-time, solo per tornare a lavorare come prima non appena l’Ispettorato ha voltato l’angolo. Basta vedere i dati sugli accessi al Sistema Antitratta Toscano Interventi Sociali (Satis), attivato nel 2019 dal Comune di Prato, al quale collaborano associazioni di categoria e organizzazioni sindacali: appena una cinquantina in cinque anni.

Per Confindustria Toscana Nord vale la tesi auto-assolutoria del «distretto parallelo», che si discosta dagli interessi delle aziende autoctone, indicando nella «paura di passare da razzisti» (cit. Corriere Fiorentino, 18/10/2024) le ragioni dell’immobilismo politico. Ma in realtà, dovremmo indagare sulla connivenza fra mondi che hanno barattato le prospettive di progresso collettivo per posizioni di rendita, fatte di «porte girevoli», magari con sindacalisti prestati alla politica, fino a veri e propri profili illeciti, finiti anche al centro delle indagini della Direzione Antimafia. 

Emblematico a proposito è il caso dell’ex-comandante della caserma dei carabinieri di Prato, il tenente colonnello Sergio Turini, finito a maggio scorso agli arresti domiciliari per corruzione e abuso in atti d’ufficio insieme all’imprenditore Riccardo Matteini Bresci – eletto poco prima Presidente della categoria Tessile proprio della Confindustria locale –, in seguito ad intercettazioni svolte dagli inquirenti fra soggetti coinvolti nella cosiddetta «guerra delle grucce».

Un simile epiteto deriva anche dalla scia di violenza a cui sembrano ricorrere i principali concorrenti del settore per accaparrarsi commesse e dettare il livello dei prezzi, facendo registrare accoltellamenti, incendi dolosi come quello appiccato a luglio scorso alla ditta Logistica Xin Shun Da, o intimidazioni, come il più recente rogo notturno dell’auto di un imprenditore, con il ritrovamento di una bara nello stesso parcheggio con la foto del proprietario.

La campagna 8X5

La campagna sindacale «8×5» da alcuni anni rivendica l’applicazione di contratti lavorativi a otto ore per cinque giorni settimanali, scoperchiando un vaso di pandora, accuratamente riposto fra gli interessi corporativi e indicibili di proprietari dei capannoni, imprenditori senza scrupoli e collaboratori corrotti anche fra illustri colletti bianchi. «Prato si deve svegliare – ha scritto il Sudd Cobas sulle sue pagine web pubblicando le foto del corteo notturno per il centro storico, organizzato immediatamente dopo l’aggressione – a essere aggrediti sono gli operai, sono gli invisibili che lavorano 12 ore al giorno nei capannoni. Svegliamo la questura, la prefettura, il Comune: Prato la svegliamo noi. Basta aggressioni mafiose contro chi sciopera».

Il paradosso di questo sistema brutale è che il comparto tessile sta vivendo l’ennesima crisi produttiva, che rischia di esaurire a breve le ore di cassa integrazione, in cui si trovano ora molti addetti. Eppure nelle «zone economiche speciali», come vengono definite dai portavoce del Sudd Cobas, di uno dei distretti manifatturieri più grandi d’Europa lo sfruttamento gira a pieno ritmo, con paghe da 4 euro l’ora. A fronte dei fallimenti istituzionali o peggio delle connivenze, a smascherare questa deriva restano forme di agitazioni sindacali come picchetti agli stabilimenti e blocchi delle merci, non a caso nel mirino dell’ennesimo decreto repressivo targato Piantedosi con il DL.1660. Del resto lo stesso ministro vantava nel dibattito parlamentare di averlo elaborato anche a questo scopo, tanto da rappresentare il precipitato della criminalizzazione del diritto di sciopero. 

Valentina Baronti collabora con le testate indipendenti fiorentine Fuori Binario e La Città Invisibile ed è autrice del libro La fabbrica dei sogni (Alegre, 2024).

Tommaso Chiti attivista e coordinatore regionale del progetto Antifascist Europe della fondazione Rosa Luxemburg, è laureato in Studi europei alla facoltà Cesare Alfieri dell’università di Firenze.

19/10/2024 https://jacobinitalia.it

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