AIDS/HIV. XXIV Conferenza sui Retrovirus ed Infezioni

SECONDO BOLLETTINO

Stati Uniti, calo di nuove infezioni da HIV del 18%
Secondo alcuni dati raccolti dai centri statunitensi per il controllo e la prevenzione delle malattie (CDC), dal 2008 il numero delle infezioni annuali da HIV si è ridotto complessivamente del 18%, a prova del fatto che una prevenzione e un trattamento adeguati sono soluzioni efficaci. Da un’analisi più approfondita dei dati emergono tuttavia significative differenze demografiche e geografiche.
“Il nuovo approccio nazionale alla prevenzione dell’HIV sta avendo ottimi risultati,” ha commentato Jonathan Mermin dal CDC.
Il numero di infezioni annuali da HIV sul territorio statunitense è calato complessivamente del 18%: secondo le stime, nel 2008 si registravano 45.700 casi, contro i 37.600 del 2014. Tra gli adulti eterosessuali il calo è stato del 36% (da 13.400 casi a 8600), ma la diminuzione più significativa è emersa tra i giovani consumatori di sostanze stupefacenti per via iniettiva con un calo del 56% (da 3900 casi a 1700).
Tuttavia, il ritmo delle nuove infezioni contratte dal gruppo dei maschi gay e bisessuali è rimasto stabile, attestandosi a circa 26.000 nuovi casi all’anno. L’unico gruppo in cui dal 2008 al 2014 non si sono registrate diminuzioni complessive nell’incidenza annuale di infezioni da HIV è stato quello degli MSM.
Analizzando nello specifico il gruppo dei maschi gay e bisessuali, le infezioni annuali sono aumentate solo nella fascia d’età dai 25 ai 34 anni e sono diminuite, invece, nei gruppi appartenenti alla fascia superiore e inferiore. Se tra gli ispanici sono stati riscontrati tassi più alti, tra i maschi neri non sono emerse variazioni che invece sono state rilevate nel gruppo dei maschi bianchi.
La percentuale di pazienti con infezione da HIV non diagnosticata è pari al 15%: i gruppi più a rischio sono quello dei maschi ispanici gay e bisessuali (21%) e i maschi neri gay e bisessuali (20%).
Secondo i ricercatori del CDC, le suddette riduzioni, nei casi in cui sono avvenute, sono state possibili grazie alle misure prese per aumentare il numero di pazienti HIV-positivi che si sottopongono al test, assumono terapie antiretrovirali efficaci e hanno ottenuto una carica virale non rilevabile.
Dato che la PrEP a base di Truvada è stata approvata nel 2012 e dato che si è iniziato a somministrarla effettivamente solo nella seconda metà del 2013, è probabile che questo tipo di terapia abbia esercitato un ruolo più marginale nelle riduzioni delle infezioni da HIV (i dati dello studio sono infatti stati raccolti nel periodo 2008-2014).
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Esiti avversi di gravidanza: rilevata minore incidenza rispetto ad altre terapie grazie ad un regime a base di efavirenz
Secondo uno studio sulle nascite condotto in Botswana tra il 2014 e il 2016, presentato martedì alla Conferenza sui Retrovirus ed Infezioni Opportunistiche di Seattle del 2017 (CROI), la somministrazione di un regime di farmaci antiretrovirali a base di efavirenz, tenofovir e emtricitabina durante la gravidanza ne riduce gli esiti avversi.
Dopo numerose ricerche sui possibili effetti dannosi dell’efavirenz per il feto, che nel corso di studi di coorte non hanno portato a correlazioni tra il farmaco e il rischio di malformazioni congenite, nel 2013 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha consigliato la somministrazione di regimi a base di efavirenz a prescindere dallo stadio della gravidanza in corso.
È sconcertante, tuttavia, che non siano ancora stati condotti studi che dimostrino i rischi legati alla somministrazione di regimi a base di altri farmaci antiretrovirali (ART). È stata questa la prima analisi osservazionale condotta per valutare gli esiti avversi della nascita all’esposizione in utero di svariati regimi ART.
Lo studio ha esaminato un campione di 47.027 nascite, delle quali 11.932 esposte ad infezione da HIV e 5780 esposte alla somministrazione di terapia antiretrovirale durante la gravidanza.
Gran parte delle nascite incluse nel campione di studio sono risultate nella morte del feto, in mortalità perinatale, in nascita prematura di 32 settimane e in peso del neonato inferiore alla normalità. Tra gli esiti avversi della gravidanza si annoverano anche le nascite premature di 37 settimane.
La combinazione di due diversi esiti negativi della gravidanza è risultata più frequente in neonati esposti all’HIV (34%) rispetto a quelli non esposti all’infezione (24%).
I risultati variano a seconda del regime ART somministrato:
• Efavirenz/tenofovir/emtricitabina: 36% esiti avversi, tra cui 12% esiti gravi
• Nevirapina/tenofovir/emtricitabina: 42% esiti avversi, tra cui 18% esiti gravi.
• Nevirapina/zidovudina/lamivudina: 47% esiti avversi, tra cui 21% esiti gravi.
• Lopinavir/ritonavir/tenofovir/emtricitabina: 48% esiti avversi, tra cui 20% esiti gravi.
• Lopinavir/ritonavir/zidovudina/lamivudina: 45% esiti avversi, tra cui 23% esiti gravi.
Il rischio relativo di ogni evento avverso della gravidanza è stato calcolato mettendo a confronto ogni regime con quello a base di efavirenz; le differenze nei rischi relativi si sono rivelate statisticamente significative.
“I risultati dello studio dimostrano che potrebbero esserci delle differenze importanti [nelle nascite] a seconda del regime somministrato”, ha dichiarato la Dottoressa Rebecca Zash durante una conferenza stampa. È tuttavia necessario proseguire le ricerche per comprendere i meccanismi responsabili degli esiti negativi della gravidanza, soprattutto tra le popolazioni che presentano un’alta conta dei CD4 e in quelle dove invece l’HIV è trattata adeguatamente.
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Riduzione delle IST: è possibile – non in tutti i casi – grazie alla PPE contro le IST in pazienti che già assumono la PrEP
La somministrazione ai maschi gay in PrEP dell’antibiotico doxiciclina come profilassi post-esposizione in caso di rapporti programmati ha ridotto l’incidenza di sifilide e clamidia del 70% ma non ha avuto alcun effetto contro la gonorrea, IST antibiotico-resistente.
I maschi gay che vorrebbero assumere la PrEP contro l’infezione da HIV sono spesso già ad alto rischio di altre infezioni sessualmente trasmissibili (IST). La profilassi pre-esposizione è efficace contro l’HIV ma non contro le altre IST: l’individuazione di altre modalità di prevenzione dalle IST durante la PrEP risulta pertanto prioritaria.
I dati raccolti provengono da uomini che hanno preso parte allo studio francese Ipergay. In questo gruppo sono stati randomizzati 212 pazienti in modo tale che a metà dei partecipanti fosse somministrata la doxiciclina dopo possibili esposizioni alle IST e all’altra metà non fosse somministrato l’antibiotico. Al gruppo di intervento è stata fornita una copertura bimestrale di antibiotico ad ogni visita, con un limite massimo di assunzione pari a sei pillole a settimana. Secondo le indicazioni degli studiosi, l’assunzione doveva avvenire entro 72 ore da una possibile esposizione ad una IST: nella pratica, la maggior parte dei partecipanti ha usufruito del farmaco entro 24 ore dalla potenziale esposizione.
Nel periodo di follow-up di circa nove mesi, 45 partecipanti del gruppo di controllo e 28 del gruppo di intervento avevano contratto almeno un’infezione sessualmente trasmissibile, risultato che corrisponde a incidenze annuali molto alte, rispettivamente del 70% e del 38%. Nel gruppo di intervento la riduzione dell’infezione da clamidia e quella da sifilide è stata rispettivamente del 70% e del 30% rispetto al gruppo di controllo.
Tuttavia, non c’è da stupirsi che la doxiciclina non risulti essere efficace contro la gonorrea: il 50-75 % dei ceppi francesi di questa IST sono infatti molto resistenti alle tetracicline.
Per quanto riguarda la clamidia e la sifilide, sono stati rari i casi di sviluppo di farmacoresistenza.
Il presente studio clinico fornisce le prove necessarie per stabilire una correlazione nei maschi gay tra la profilassi contro le IST e la riduzione di sifilide e, forse, anche altre infezioni sessualmente trasmissibili. Risulta comunque difficoltosa l’individuazione di un tipo di antibiotico che riesca a superare la farmacoresistenza della gonorrea.
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Profilassi con isonazide: riduce il rischio di morte del 37%
Il follow up a lungo termine dei partecipanti allo studio Temprano condotto in Costa d’Avorio ha dimostrato che una terapia semestrale di trattamento di profilassi con isoniazide (conosciuta anche con l’acronimo inglese IPT, Isoniazid preventive tratment) riduce il rischio di mortalità del 37%.
L’isonazide può prevenire lo sviluppo di tubercolosi attiva (TBC) in pazienti affetti da tubercolosi latente (infezione da tubercolosi che può essere tenuta sotto controllo dal sistema immunitario). Sono numerosi gli studi che hanno evidenziato la correlazione tra la somministrazione di IPT e il rischio di infezione da TBC o morte in pazienti con HIV; tuttavia, la maggioranza dei partecipanti a questi studi non assumeva una terapia antiretrovirale (ART) o aveva preso parte a brevi periodi di follow up. Anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità, però, raccomanda ai pazienti con HIV un ciclo di un anno e mezzo di profilassi con isonazide.
Lo studio Temprano ANRS 12136 ha valutato due tipologie di intervento diverse: somministrazione immediate della terapia ART e un ciclo semestrale di IPT, randomizzando i partecipanti in ciascuno degli interventi. I ricercatori hanno asserito che, in un follow up di due anni e mezzo, solo l’azione dell’IPT ha portato ad una riduzione del 35% di gravi malattie HIV-correlate o addirittura del tasso di mortalità.
Il nuovo studio ha evidenziato che la probabilità di morte entro i sei anni successivi ammontava al 6,9% nei pazienti che non avevano assunto IPT e al 4,1 % nei pazienti che erano invece stati sottoposti alla terapia: questi valori sono pari ad un calo del rischio di morte del 37%. Nello studio non sono stati raccolti dati sulle cause dei decessi.
Apparentemente, la differenza nel rischio di morte varia nel tempo, evidenziando l’impatto a lungo termine dell’isoniazide mai osservato nei precedenti studi. Questa correlazione potrebbe essere dovuta all’elevata capacità di assorbimento della terapia ART e all’alta conta dei CD4 raggiunta nel periodo finale del follow up del presente studio. Non è da scartare la possibilità che il trattamento preventivo a base di isoniazide abbia un effetto più duraturo in contesti con un basso tasso di trasmissione di TBC.
Lo studio fornisce prove inconfutabili riguardo all’efficacia di questo trattamento, che però viene tuttora rifiutato da alcune nazioni per la cura dei pazienti con HIV. Il timore che l’IPT porti ad una resistenza all’isoniazide in pazienti con TBC attiva non diagnosticata si è dimostrato infondato, come ha affermato il Dottor Anani Badje durante una conferenza stampa. Il dottore ha continuato dicendo che risulta necessaria l’implementazione di una politica chiara sulla somministrazione dell’IPT per superare l’attuale riluttanza tra gli operatori sanitari/medici.
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Malformazioni dell’utero in donne con HIV: trattamento o vigile attesa?
Secondo uno studio statunitense presentato a CROI, per molte pazienti con HIV sarebbe preferibile un monitoraggio costante degli stadi iniziali delle malformazioni uterine rispetto al trattamento farmacologico. I cambiamenti cellulari pre-cancerogeni (CIN-2) nelle pazienti soggette a terapia antiretrovirale (ART) sono regrediti senza ulteriori terapie in più del 75% dei casi.
Alle donne che presentano CIN-2 viene solitamente consigliata una terapia che può includere l’asportazione chirurgica dei tessuti colpiti. Se da una parte questa possibilità può prevenire lo sviluppo di un cancro alla cervice, dall’altra parte potrebbe anche essere la causa sia di nascita prematura che di complicazioni durante la gravidanza.
Per offrire una consulenza migliore alle donne in età fertile con CIN-2, i ricercatori hanno condotto un’analisi di valutazione del rischio di progressione dei cambiamenti cellulari nelle donne sotto i 46 anni che hanno partecipato allo Women’s Interagency HIV Study. A tutte le 116 partecipanti era stata diagnosticata tramite biopsia la presenza di cambiamento cellulare di tipo CIN-2 e la maggior parte di queste era anche affetta da HIV (tranne 14 partecipanti).
La prognosi più diffusa, a prescindere dal trattamento somministrato, è stata la regressione a CIN-1 o la non rilevabilità di malformazioni, verificatasi nel 62% delle donne positive all’HIV e nel 71% delle donne non affette.
La terapia Art è stata associata ad una significativa riduzione del 78% nella progressione di CIN-2 proprio come un’alta conta dei CD4 è stata collegata a una scarsa probabilità di progressione della lesione.
Lo studio suggerisce pertanto che per le pazienti con HIV che pianificano una gravidanza e con una carica virale controllata dalla terapia ART si possa optare per una gestione conservativa di CIN-2 tramite un costante monitoraggio, invece che ricorrere immediatamente all’intervento.
Un ulteriore studio in materia condotto in Kenya ha messo a confronto due forme di trattamento per lesioni alla cervice in pazienti HIV positive: in contesti a basso reddito, il trattamento somministrato consiste solitamente nella crioterapia (congelamento chimico delle cellule). Un’alternativa a questo processo è la LEEP, procedura di escissione elettro-chirurgica ad ansa, in grado di rimuovere le cellule malformate tramite stimolazione elettrica.
Lo studio clinico randomizzato controllato ha scoperto che le pazienti HIV-positive che presentavano lesioni alla cervice (CIN-2 o CIN-3) trattate con crioterapia erano soggette, in un periodo di follow up di un anno, ad un 64% di probabilità di ricaduta rispetto a quelle trattate con LEEP.
I risultati dello studio indicano che la crioterapia potrebbe non essere la soluzione ottimale per le pazienti con HIV, per le quali il cancro alla cervice ha conseguenze ridotte; sarebbe pertanto necessaria una revisione delle linee guida fornite dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.
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La versione in pdf del bollettino è disponibile cliccando qui.

17/2/2017 www.lila.it

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