Al lavoratore e al pensionato non far sapere
che finanziano il fossile
I principali fondi negoziali della previdenza complementare italiana finanziano il settore fossile con 127 milioni di euro. Una stima al ribasso a fronte di dati necessariamente incompleti. Lo segnala nel dettaglio l’ultima ricerca dell’associazione Re:Common e di Valori presentando un focus sulla Top 10 del settore. Nell’elenco rientrano fondi con un patrimonio di 34,3 miliardi di euro, pari al 69% circa del controvalore totale di tutti i veicoli finanziari italiani della stessa categoria. L’analisi riguarda i primi cinquanta titoli in portafoglio, ovvero le partecipazioni più rilevanti che i fondi sono tenuti a indicare in ogni rendiconto annuale.
Chimici ed Enel: i migliori amici del fossile
Il record assoluto spetta a Fonchim, il fondo pensione complementare per i lavoratori dell’industria chimica e farmaceutica. Tra gli investimenti del fondo – affidati a diversi gestori tra cui Groupama, Eurizon Capital, Generali, Blackrock ed Edmond de Rothschild – le partecipazioni al settore fossile ammontano a 33,6 milioni di euro. Buona parte della cifra (quasi 27 milioni) è investita in azioni del colosso francese Total, ma non mancano le partecipazioni in Électricité de France, Exxon, Snam ed Enel. A proposito di quest’ultima: al secondo posto della classifica c’è proprio Fopen, il fondo pensione dei dipendenti di viale Regina Margherita. Nel suo portafoglio c’è un piccolo investimento obbligazionario nella stessa casa madre e, soprattutto, una serie di partecipazioni rilevanti nei colossi esteri: Exxon, BP e Royal Dutch Shell. Il valore delle partecipazioni ammonta a 21,8 milioni.
Il trasporto pubblico scommette su gas e petrolio
Il fondo pensione dei dipendenti Enel svetta in particolare nella graduatoria relativa, quella del peso degli investimenti sul patrimonio. Nel caso di Fopen, le partecipazioni nel fossile valgono circa l’1,05% di quest’ultimo, un primato percentuale condiviso con Priamo, il veicolo previdenziale dei lavoratori del trasporto pubblico, le cui partecipazioni al settore fossile sfiorano i 16,7 milioni di euro. I titoli? Soliti noti, per lo più, con Eni, Enel, BP, Royal Dutch Shell e Total presenze immancabili. Ma a spiccare sono gli investimenti nel controverso settore del carbone, ben rappresentato dalle quote di Enel, ovviamente, ma anche dalle partecipazioni indirette (ovvero tramite altri fondi) nella tedesca RWE, nella spagnola Gas Natural Fenosa (Naturgy) e nell’australiana BHP Billiton.
Carbone: una presenza ingombrante
Nel comparto fossile, il segmento del carbone – la fonte più inquinante in assoluto – è particolarmente sotto tiro. Di recente, in occasione del vertice sul clima di Katowice, i ricercatori della Ong tedesca Urgewald e la rete internazionale BankTrack hanno reso nota la spaventosa dimensione degli investimenti del settore finanziario nella risorsa:478 milioni di dollari negli ultimi tre anni.
I numeri dei fondi pensione italiani sono ovviamente molto più bassi: 18,9 milioni di euro di titoli in portafoglio. Ma la presenza del carbone, di per sé, resta a modo suo ingombrante. I maggiori investimenti dei fondi riguardano Enel (14,2 milioni); il resto se lo dividono le già citate RWE e BHP oltre alla Israel Electric Corporation e a Électricité de France.
Fondi responsabili?
Istituiti sulla base di accordi tra i sindacati e le organizzazioni imprenditoriali, i fondi negoziali sono riservati a specifiche categorie di lavoratori e sono alimentati sia dal trattamento di fine rapporto (TFR) sia dai contributi volontari.
È il famoso “secondo pilastro” della previdenza, un settore che in Italia conta 35 fondi con un patrimonio di quasi 50 miliardi. Negli ultimi anni, nonostante tutto, il comparto ha iniziato ad assumere qualche iniziativa di tipo «etico». Nel 2017, una ricerca del Mefop, l’agenzia governativa per lo sviluppo del Mercato dei Fondi Pensione, aveva rivelato come il 44% dei negoziali italiani adottasse criteri di sostenibilità. Una percentuale doppia rispetto ai fondi aperti. Qualcosa si muove, insomma, anche se i risultati raggiunti, per ora, lasciano parzialmente a desiderare.
Cometa in chiaroscuro
Emblematico, in questo senso, il caso di Cometa. Nel 2012, ad esempio, il fondo complementare dei metalmeccanici ha definito le “Linne Guida all’Investimento Socialmente Responsabile”. Due anni più tardi, Cometa si è impegnata anche in una campagna di pressione nei confronti del colosso petrolifero USA Chevron. Infine, il fondo ha deciso di pubblicare la propria carbon footprint, ovvero “la misura delle emissioni di gas ad effetto serra associate direttamente o indirettamente a un prodotto, un’organizzazione o un servizio”. La trasparenza sull’impatto ambientale dei suoi investimenti – che è ciò che segnala l’impronta – è lodevole. Ma le partecipazioni del fondo nei comparti oil & gas (Total) carbone (RWE e Iberdrola) e shale gas (Next Era Energy) contribuiscono a un punteggio negativo. L’esposizione totale di Cometa nel settore fossile ammonta a 17,2 milioni di euro.
E i pensionati?
Il clima non sembra preoccupare più di tanto i principali fondi di previdenza italiani, tuttora ben disposti a finanziare il settore fossile. Le loro partecipazioni complessive nelle imprese del comparto, infatti, valgono almeno 800 milioni di euro. Ma la cifra totale è presumibilmente superiore visto che i dati disponibili sono tuttora carenti.
Un’indagine sui primi dieci fondi pensione negoziali italiani (che coprono da soli il 70% del patrimonio totale del comparto) e le prime cinque casse di previdenza della Penisola (79%), rivea come gli strumenti – azioni, obbligazioni, investimenti indiretti attraverso fondi comuni e gestioni patrimoniali- variano, ma il risultato è lo stesso: massa di liquidità destinata a garantire le pensioni future che finisce per finanziare il fossile minacciando il clima nel suo presente.
Basta guardare ai portafogli per scorgere i nomi dei soliti noti come Eni, ovviamente, ma anche Total, Exxon, BP. Per non parlare dei grandi inquinatori tedeschi e cinesi e dei protagonisti della fonte più controversa in assoluto: il carbone. I fondi pensione negoziali, per dire, investono nel coal quasi 19 milioni di euro finanziando cinque diverse società.
Disinvestire: se non ora, quando?
Il fenomeno del disinvestimento dal settore fossile si sta diffondendo sempre più dal Nord America al Nord Europa. Merito delle reti di attivisti di base, delle Ong tradizionali, dei gruppi di analisi e, soprattutto, delle organizzazioni attive in varie forme nel movimento per la giustizia climatica..
Come spesso accade, l’Italia è in ritardo, anche se l’emergenza climatica e le violenze su comunità ed ambiente legate all’espansione della frontiera petrolifera, del gas e del carbone incalzano in maniera drammatica. Il mondo cattolico, spinto anche dalla sensibilità di Papa Francesco e dall’enciclica Laudato Sii, è stato tra i primi a muoversi, ottenendo qualche impegno da parte di alcuni fondi di investimento legati ai missionari o alle strutture della Chiesa. Impegni da verificare e probabilmente allargare.
Solo recentemente, grazie alla spinta delle reti di associazioni europee, la più grande istituzione finanziaria italiana in termini di capitale gestito, ossia Assicurazioni Generali, si è impegnato a smettere di investire nel carbone e a ridurre sensibilmente il suo business assicurativo in questo sotto-settore energetico.
Un segnale importante per il resto del mercato finanziario italiano, tuttora dominato dal sistema bancario nella gestione di fondi e investimenti. Tocca soprattutto alle banche, in altre parole, svegliarsi e seguire l’esempio di Generali ponendosi, nel caso, anche un obiettivo più ambizioso: il disinvestimento dall’intero settore oil & gas.
A livello internazionale, tuttavia, l’attenzione degli attivisti fossil free è sempre più concentrato sui gestori e sui detentori degli asset. Parliamo dei fondi di investimento, ovviamente, e soprattutto dei fondi pensione, che gestiscono una larga fetta della ricchezza finanziaria mondiale. Il fondo pensione norvegese è stato tra i primi a disinvestire dal carbone sotto la pressione dell’opinione pubblica e dello stesso parlamento di Oslo. Da poche settimane è partita inoltre la prima campagna contro BlackRock, che con i suoi 5 trilioni di dollari di asset gestiti è ad oggi il più grande investitore del mondo.
Clima e previdenza
In pochi in Italia si sono posti il problema di guardare con più attenzione a cosa fanno al riguardo i fondi negoziali aperti e le casse di previdenza. Un settore non enorme, ma di sicuro rilevante poiché regolamentato oltre che soggetto, nel caso delle casse, all’obbligo di contribuzione da parte dei professionisti. Ma non è tutto.
L’Inps, il principale gestore italiano, punta notoriamente in via quasi esclusiva sul settore immobiliare. In un’epoca in cui cresce la sensibilità alle emergenze climatiche, ambientali e sociali, in altre parole, i fondi e le casse si affermano in Italia come i principali operatori previdenziali “di mercato” propriamente detti.
Per questo Re:Common e Valori pubblicano la loro ricerca sul settore con uno sguardo al suo appetito per petrolio, carbone e gas. Con l’obiettivo di informare,ma anche di costruire una più ampia pressione per indurre l’Italia e il suo settore finanziario ad assumere per una volta una leadership nel disinvestimento dal fossile. “Non con i miei soldi”, insomma. E “non con i soldi di chi lavora”, ovviamente.
Matteo Cavallito (rivista Valori)
Antonio Tricarico (Re:Common)
20/2/2019 www.italia.attac.org
Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 38 di Gennaio – Febbraio 2019. “Il cambiamento del clima, il clima del cambiamento“
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Sentitevi liberi di contribuire!