Al via il crowdfunding per ridare ‘Lucha alla città’
Una raccolta fondi per poter partecipare all’asta giudiziaria e comprare la sede della Casa delle Donne Lucha Y Siesta, la palazzina anni Venti in via Lucio Sestio, 10, zona Roma est, fra il Parco degli Acquedotti e quello di Tor Fiscale.
A lanciare l’idea è il neonato comitato ‘Lucha alla città‘, espressione delle attiviste che animano la casa, che si trova proprio nello stabile di proprietà dell’Atac, l’azienda del trasporto pubblico romano. E che oggi rischia lo sgombero: l’edificio è infatti inserito nell’elenco di immobili che fanno parte del piano di concordato con cui il Comune tenta di salvare la partecipata di Roma dal fallimento.
Le attiviste difendono la Casa delle donne, un progetto che da più di 10 anni, esattamente dal marzo 2008, anno in cui l’edificio è stato occupato e rimesso in condizioni di agibilità, è stato il fulcro di un movimento collettivo che ha dato accoglienza abitativa e sociale alle donne in difficoltà, nonché uno spazio di cultura, eventi e iniziative utili per la comunità.
Il 15 settembre la Casa delle donne ha riportato un primo successo, ottenendo il rinvio del distacco delle utenze, previsto proprio in quel giorno.
Il grande sostegno di cittadinanza e associazioni ha permesso infatti di sventare il grave disagio che avrebbe comportato alle residenti della casa la sospensione dei servizi. Ma il futuro del centro di accoglienza per donne e minori è tutt’oggi ancora incerto.
La strada per continuare a far vivere questo luogo materiale e simbolico di autodeterminazione del femminile è tutta in salita, dal momento che la palazzina deve essere all’asta entro il 2021.
“L’apertura di un comitato ampio” racconta a inGenere una della attiviste, Simona “ha l’obiettivo molto ambizioso di costruire una sorta di proprietà collettiva e di mettere a punto lo strumento giuridico che ci consenta di presentarci all’asta e di poter acquistare la casa, restituendola alla comunità”.
Lo stabile, secondo le attiviste, deve essere mantenuto comune e pubblico, aperto a tutti. E le donne di Lucha y Siesta chiedono che il Comune dia al comitato un diritto di prelazione per l’asta. “Essenzialmente”, continua Simona “ci sono davvero molte persone che desiderano che il luogo continui a vivere e ad avere la sua mission, e cioè quella di battersi per un mondo più giusto, a partire dalle donne”. E aggiunge: “Al momento stanno aderendo singole associazioni, strutture e sindacati. Poi partirà la fase del crowdfunding vero e proprio. Ma occorre una mediazione politica perché dobbiamo ottenere un diritto di prelazione e la possibilità di acquistare il bene in una forma rateizzata”.
La campagna sarà nazionale e internazionale. “Ci stanno dando una mano non solo alcune professioniste, alcuni artisti e artiste ma anche alcune agenzie di comunicazione che abbiamo coinvolto e collaboreranno pro bono per questa grande battaglia”. Che non sarà di breve durata: “L’obiettivo è così ambizioso, che la strada è lunga. Dovremo raccogliere un milione o un milione e mezzo per acquistare il bene. Dunque, andrà avanti almeno un paio di anni.
Secondo le stime delle attiviste, la casa in questi 11 anni di attività avrebbe fatto risparmiare all’amministrazione non poco. Tradotto: più di 4 milioni di euro fra sportello di ascolto, centro antiviolenza, costruzione di percorsi di fuoriuscita e di autonomia.
Infatti, per la Convenzione di Istanbul, firmata dall’Italia l’11 maggio 2011, una metropoli come Roma dovrebbe disporre di 300 posti per donne vittime di violenza. Ma ce ne sono soltanto 25. E invece di valorizzare un patrimonio reale e simbolico costruito negli anni – lamentano le attiviste – si pensa a smantellarlo.
“In questi ultimi due anni in cui stiamo cercando delle soluzioni” mette in chiaro Simona “ci siamo scontrate con un muro di gomma. Con nessuna volontà di riconoscere e quindi risolvere una questione che riguarda il valore sociale e culturale di quello che si fa a favore delle donne, del femminismo e della parità di genere”.
E conclude, con una punta di amarezza: “esiste soltanto una mentalità speculativa, senza alcun interesse nel costruire le condizioni affinché la situazione difficile che vivono tante donne in Italia non ci sia più”.
Elena Paparelli
23/09/2019 www.ingenere.it
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