All’ombra della manovra finanziaria

dimaiosalviniauto

Uno spettro si aggira per le spiagge, quello della manovra finanziaria, e due sembrano essere i cavalli di battaglia: la flat tax per la Lega e la riduzione del cuneo fiscale (e salario minimo) per il Movimento 5 stelle. Nel frattempo è passato quasi inosservato il rapporto annuale dell’Inps e in particolare il capitolo sulla distribuzione dei redditi e l’andamento dei salari. Come già anticipato da Banca d’Italia, i salari sono al palo e la distribuzione dei redditi è sempre più diseguale con benefici limitati ai decili più alti della distribuzione.

Imprese 2 – Lavoratori 0

Il governo precedente aveva già segnato un punto a favore delle imprese e a scapito dei lavoratori. L’arroganza del Partito Democratico ha portato da un lato all’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori e dall’altra alla pioggia di finanziamenti alle imprese. Per l’esattezza, considerando tutti i programmi di agevolazioni per le aziende dal 2015 al 2018, l’importo contributivo è stato più di 73 miliardi, con quota massima di 20 miliardi nel 2016 (Inps, rapporto annuale). In sostanza, in quattro anni alle imprese sono stati abbonati 73 miliardi di contributi, risorse che costituiscono le pensioni dei lavoratori, il loro diritto alla retribuzione durante la malattia o gli infortuni. Per non tagliare contemporaneamente questi diritti ai cittadini, lo Stato deve farsi carico di coprire il mancato gettito, recuperandolo dalla fiscalità generale. Considerando la contribuzione fiscale per fasce di reddito e categoria professionale è chiaro che gli sgravi contributivi rappresentino un trasferimento di risorse dai lavoratori dipendenti  che continuano a pagare le tasse alle imprese che invece le risparmiano.

Mentre si detassano e deresponsabilizzano le imprese, si continua a sostenere la necessità di aumentare l’età pensionabile o si dà come fatto ineludibile che le nostre pensioni saranno «da fame». Mascherandone le cause: non soltanto gli sgravi ma anche, se non soprattutto, la continua precarizzazione del mercato del lavoro e il ristagno dei salari pongono le basi per l’instabilità del sistema stesso data la discontinuità e capacità contributiva.

Nonostante ciò, il governo continua a seguire l’idea per cui l’unico soggetto che può creare ricchezza per sé e gli altri rimane l’impresa. Con quest’impostazione teorica si tenta di segnare il secondo punto a favore delle imprese anche nella nuova legge finanziaria aggiungendo sgravi alla lunga lista di quelli già previsti per il 2018 per l’occupazione giovanile (proseguimento del programma Garanzia giovani con i suoi piani d’incentivazione e bonus per le trasformazioni dei tirocini extra-curriculari e bonus occupazione neet aggiornato proprio a partire dal 1 gennaio 2018). Ma ancora, sgravi per chi assume giovani genitori, detenuti, disabili, percettori di ammortizzatori sociali, per gli over 50. Inoltre le decontribuzioni per il 50% dei contributi previdenziali per le assunzioni degli under 35 e sgravio del 100% se l’assunzione avviene nel Sud Italia. Oltre al reddito di cittadinanza scontato dalle imprese in caso di assunzione di un beneficiario, su proposta della Lega, il governo propone una riduzione del cuneo fiscale attraverso il mancato contributo delle imprese al finanziamento della Naspi (indennità di disoccupazione) per un ammontare di 4 miliardi con il quale finanzierebbe il salario minimo «senza gravare sul bilancio delle imprese».

Si sta insomma riducendo la capacità del welfare sociale e in particolare dell’indennità di disoccupazione per alleggerire il carico delle imprese. Infatti, la Lega non è intenzionata a scaricare nessun costo del salario minimo sulle imprese imponendo una scelta tra salario minimo e welfare che è esattamente ciò che ha proposto Di Maio, titolare del Ministero del Lavoro e dello Sviluppo Economico: per non far gravare il costo dell’eventuale aumento salariale sul settore produttivo, o meglio per non intaccare la profittabilità delle imprese e scaricare la crescita zero e gli anni di crisi interamente sui lavoratori, questo sarà esonerato dalla contribuzione alla Naspi. In sostanza, se da un lato si cerca di porre i lavoratori sullo stesso livello (salariale), dall’altro la platea di lavoratori precari e disoccupati si ritroverebbe senza un ammortizzatore sociale allargando le disuguaglianze all’interno del mercato del lavoro.

Flat tax per salari al palo

Come già discusso in un altro articolo, la questione delle disuguaglianze in Italia è preoccupante e lo conferma nuovamente il rapporto annuale dell’Inps.

Già Banca d’Italia aveva ribadito il ristagno ventennale dei salari in Italia, il rapporto annuale Inps non fa che rendere ancor più evidente il blocco della crescita salariale a partire dagli anni Novanta e a seguito dell’eliminazione della scala mobile. In realtà, l’attacco ai lavoratori era già iniziato qualche anno prima, quando anche il Partito Comunista Italiano cedette alle teorie e ricette liberiste del poi premio Nobel Franco Modigliani secondo cui l’inflazione era causata dall’eccessivo costo del lavoro. A nulla servì l’opposizione di altri intellettuali, economisti critici più vicini alle teorie marxiste, come Roberto Convenevole che nel libro Processo inflazionistico e redistribuzione del reddito (Einaudi, 1977) spiegò che l’inflazione in realtà non era causata dal livello dei salari interni, ma da shock esogeni e processi di flussi di profitti tra diversi settori produttivi e in particolare dall’industria ai servizi.

L’attacco ai salari non si è ancora fermato. L’effettivo blocco della crescita dei salari avvenuto nell’ultimo decennio del Novecento, è proseguito costante fino a oggi con significativi cambiamenti strutturali del mercato del lavoro. Infatti, da un lato aumentano i part-time, i contratti a tempo determinato e si allarga la foresta di contratti atipici diretti alla minimizzazione del salario e dall’altro, riporta sempre l’Inps, si riducono le settimane lavorate. Questo permette anche di spiegare come sia possibile avere un aumento degli occupati in un contesto di crescita zero del Pil, come confermato dall’ex presidente dell’Inps Tito Boeri.

Da qui è anche possibile capire meglio l’andamento dei salari per decili di reddito. Dal 1984, anno in cui si abolisce la scala mobile, l’ultimo percentile di reddito reale inizia la sua ascesa proprio a scapito del primo decile. Dagli anni Novanta la tendenza s’inverte con tassi di crescita dell’ultimo percentile molto vicini a quelli del primo per poi superarli nettamente a partire dalla crisi del 2007. Un’interpretazione (tristemente) realistica di questo puzzle è che si sta decisamente perdendo la lotta di classe o, peggio, che gli storici attori sociali (sindacati e partiti della sinistra) hanno abdicato alla lotta tra salariati e capitalisti in nome di un neoliberismo «rappacificatore». Questo implica, però, un forte aumento delle disuguaglianze certificato in tutti i rapporti istituzionali.

A conferma di tale lettura, l’Inps presenta una stima dei contributi alla crescita del reddito totale da lavoro secondo la distribuzione dei redditi: il 90% più povero ha contribuito alla crescita della retribuzione del fattore lavoro per il 63% contro il 27% di coloro che si trovano tra il novantesimo e novantacinquesimo percentile e del 10% del top-one-percent. Tuttavia, guardando all’interno del top 1%, impressiona la dinamica del top 0,01% che ha visto crescere il suo reddito da lavoro del 298%, quasi quattro volte il valore della crescita totale del reddito da lavoro (il 77% sul totale della distribuzione). In un recente contributo sull’evoluzione della disuguaglianza in Europa, Thomas Blanchet, Lucas Chancel e Amory Gethin confermano che per coloro che si trovano al di sotto della media di reddito (il 50% più povero) i redditi sono aumentati in media del 30-40%; tra il cinquantesimo e novantesimo percentile, i tassi di crescita dei redditi sono stati tra il 40 e il 50%, mentre all’interno dell’ultimo 0,1% più ricco si osservano tassi di crescita del 100% e chi si trova all’interno del top 0,01%  ha visto crescere i propri redditi di ben il 300% tra il 1980 e 2017. Thomas Piketty, Emmanuel Saez e Gabriel Zucman si sono invece concentrati sugli Stati Uniti e anche in questo caso dal 1980 al 2014 la crescita dei redditi lordi per il top 0,01% è pari al 453%, e al 423% in termini netti, evidenzando come il sistema fiscale americano non sia assolutamente in grado di contrastare le disuguaglianze.

Nonostante le strepitose performance dei più ricchi, da anni si prosegue imperterriti nel mantra della riduzione generalizzata della tassazione sui redditi. L’ultima proposta che si prepara a essere discussa in tema di legge finanziaria è la flat tax, fortemente voluta dalla Lega. Nell’attuale contesto socio-economico, l’introduzione dell’aliquota unica può soltanto danneggiare i lavoratori che non vedrebbero nessun risparmio fiscale rispetto ai larghi benefici che otterrebbero gli appartenenti ai percentili più alti di reddito (secondo una simulazione Cgil sugli effetti della flat tax), mentre vedrebbero sicuramente un peggioramento nei servizi di welfare essenziali quali la sanità, strumenti di sostegno, accesso a un’educazione di qualità (fondamentale per la riduzione delle disuguaglianze, specie intergenerazionali) a seguito del minor gettito fiscale.

Capitale e lavoro

Credere nell’equilibrio degli interessi tra capitale e lavoro è la più grande illusione propagandata dal pensiero (neo)liberale. I proprietari del fattore capitale e i possessori del fattore lavoro hanno interessi diametralmente opposti, con i primi diretti a massimizzare il rendimento del capitale, ovvero i profitti, che implica la minimizzazione dei costi, ovvero dei salari. Ne consegue che ad aumenti di quote di capitale in rapporto al prodotto totale dell’economia aumenta la capacità di quest’ultimo di porre maggior pressione al ribasso sui salari.

Questa tendenza, comune a tutta l’Europa e favorita dalla quasi completa globalizzazione e finanziarizzazione dell’economia, è una delle principali cause della caduta dei salari e della polarizzazione della distribuzione dei redditi. Infatti, i proprietari di capitale hanno da un lato la possibilità di un investimento reale da cui ottenere il plusvalore, dall’altro la capacità di ottenere rendite dalla proprietà di capitale (finanziarie o immobiliari) senza un effettivo impiego produttivo. In sostanza, a quote crescenti di capitale, aumenta la sua concentrazione e accumulazione penalizzando i detentori del fattore lavoro che si collocano nella coda sinistra della distribuzione. Unica eccezione è costituita dai «super-dirigenti» ovvero detentori di fattore lavoro che si collocano nei percentili superiori della distribuzione. Tuttavia, anche in questo caso, partendo dalla fonte lavoro è possibile accedere alla proprietà di capitale, specialmente finanziario, aumentando la concentrazione della distribuzione. Difatti, sempre Piketty nello studio prima citato riporta come la crescita delle disuguaglianze a seguito dell’aumento vertiginoso dei redditi della coda destra della distribuzione sia stata prima il risultato dei redditi da lavoro (dei super-dirigenti), poi dagli anni 2000 si è trasformato in un fenomeno trainato dai redditi da capitale.

Questo significa che esiste un legame tra distribuzione funzionale – quota del reddito nazionale che va al capitale in forma di profitti e al lavoro – e distribuzione dei redditi personali: ad aumenti della quota profitti si assiste a una crescente disuguaglianza nei redditi, come confermato in uno studio congiunto Ilo-Ocse.

L’Inps certifica questa tendenza anche in Italia, ma apparentemente l’intero panorama politico non sembra preoccuparsene e, anzi, il governo presenta proposte da inserire nella prossima manovra finanziaria dirette esclusivamente ad aggravare la situazione attuale. Insomma, qualunque sia il colore politico oggi, a quanto pare, per i lavoratori non resta che piangere.

Luca Giangregorio

PhD student in Social Sciences presso l’Università Pompeu Fabra di Barcellona.

6/8/2019 https://jacobinitalia.it

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