Almaviva: anche per il giudice è stato un ricatto!
Ricordate? Quasi un anno fa, a Roma, c’è stato il più grande licenziamento degli ultimi vent’anni: i 1660 dipendenti di AlmavivA Contact Roma sono stati mandati a casa dopo che, con un referendum, avevano rifiutato una proposta di accordo che tagliava il salario e i diritti pregressi. Molti di loro hanno fatto ricorso contro quel licenziamento e 153 hanno vinto: il 16 Novembre scorso un giudice del Tribunale del Lavoro di Roma ha accolto completamente il ricorso, dichiarando discriminatorio il licenziamento e condannando l’azienda al reintegro dei lavoratori e al pagamento degli arretrati.
È interessante leggere le motivazioni della sentenza: capita, a volte, che un giudice si renda conto degli abusi e delle prepotenze compiute quotidianamente dalla nostra classe padronale anche in barba a leggi sempre più permissive. In pratica il giudice denunciato l’assenza di giustificato motivo oggettivo, sottolineando in particolare il gioco delle tre carte col quale l’azienda ha “spostato” la crisi ora da una parte ora dall’altra, al solo scopo di imporre a tutti i suoi dipendenti il ricatto di condizioni peggiori senza che costoro avessero la possibilità di unirsi. Una strategia improntata al più classico del divide et impera, quella di padron Tripi, che si è scontrata con l’orgoglioso rifiuto dei lavoratori romani che, come hanno ricordato di recente, sanno benissimo che un lavoro è tale se è degno e se è pagato il giusto, altrimenti si chiama ricatto e schiavitù.
Il giudice smonta in due righe il pretesto secondo il quale era difficile, per l’azienda, spostare le commesse da una sede all’altra, ricordando che le professionalità coinvolte a Roma erano le stesse presenti in altre sedi, quindi non c’era alcuna particolare difficoltà logistica o formativa (aggiungiamo noi che il trasferimento immediato in altre sedi delle telefonate dirette a Napoli nei giorni dell’agitazione dei lavoratori partenopei mette una pietra tombale su ogni ridicola e pretestuosa difficoltà addotta dal management).
Ma il momento culminante della sentenza, proprio in riferimento alla recente accettazione napoletana di condizioni peggiorative del salario, è quando il giudice scrive: “E’ propria questa alla fine la ragione per la quale i lavoratori di Napoli (che hanno accettato la riduzione) sono stati salvati e tutti e solo i lavoratori del sito di Roma sono stati licenziati: quest’ultimi non hanno voluto accertare una presunta misura sperimentale di contenimento del costo del lavoro che certamente ledeva i propri diritti e altrettanto certamente violava l’art. 2120 c.c., essendo, peraltro, il diritto al tfr incomprimibile(“in ogni caso”, art. 2120, comma 1 cod. civ) e potendo le parti sociali certamente definire cosa debba rientrare nella retribuzione di cui al comma 2 (per il quale la quantificazione del tfr è pari “all’importo della retribuzione dovuta per l’anno stesso divisa per 13,5”) da prendere in considerazione (art. 2120, comma 3), ma non certo di stabilire che la “retribuzione” non rientri in sostanza nella nozione di ….”retribuzione” (i grassetti sono nostri).
Nella prima sottolineatura è chiara l’interpretazione del Tribunale: i romani sono stati licenziati perché hanno rifiutato il ricatto salariale: non per crisi, non per difficoltà economiche o logistiche. La seconda è una “zeppata” a quelle sigle che premevano, quel pomeriggio fuori al MISE e anche dopo, perché i lavoratori sottoscrivessero l’accordo: i sindacati e l’impresa, ricorda il giudice, possono definire che cosa rientra nella retribuzione ma non possono certo dire che la retribuzione – il TFR in questo caso – non rientra nella retribuzione”.
Quest’ultimo passaggio, crediamo, andrebbe stampato e affisso alle bacheche sindacali di tutti i call-center italiani, dove sindacati che del sindacato hanno solo il nome hanno accettato, fatto passare e promosso “di tutto e di più”, in barba non solo al loro ruolo ma anche, come in questo caso, alla legge. E si dovrebbero vergognare, e tacere, quei dirigenti e rappresentanti che spacciavano quest’accordo come l’unico possibile per salvare il lavoro, mentre in realtà stavano andando a firmare qualcosa non solo di profondamente ingiusto, ma anche di illegittimo.
E si dovrebbero anche vergognare di non aver saputo portare avanti in questi anni una degna battaglia sindacale contro quelle manovre con cui l’azienda ha messo all’angolo i propri dipendenti, mascherate da esigenze tecniche e produttive. Manovre svelate dalla stessa sentenza, che hanno creato una guerra tra lavoratori messi in competizione l’uno contro l’altro, stabilimento contro stabilimento, perché potesse passare il principio “mors tua vita mea”. Un gioco che i padroni fanno da sempre e che i sindacati hanno assecondato puntando di volta in volta a salvare la situazione con accordi al ribasso.
Alla fine, come sempre, a salvare 153 posti di lavoro non è stato un accordicchio – illegale e da quattro soldi – ma la lotta: lotta per la difesa del posto, sì, ma anche e forse soprattutto per la difesa della dignità, dell’orgoglio, della possibilità di guardarsi in faccia la mattina e sapere che non ci si è ancora arresi.
AlmavivA, sul suo sito, ha comunicato alla stampa che nelle altre sentenze i giudici hanno dato ragione all’azienda: anche questa è, come al loro solito, una bugia. Semplicemente non tutti i ricorsi sono uguali e si tratta di pochi singoli casi in cui determinanti possono essere state le mancanze di prove o questioni procedurali. Soprattutto, ha dichiarato di essere pronta a provvedere il reintegro, ma a Catania. L’infamità dei padroni davvero non conosce limiti! Il pretesto è che la sede di Roma è chiusa, e non basta l’aggiudicazione della nuova commessa GSE, basata a Roma, per provvedere diversamente, stavolta col pretesto di garantire la continuità lavorativa ai lavoratori del precedente appalto.
Uno specchio fedele del capitalismo italiano, sciacallo e senza faccia! Sarà perché, nonostante i regali governativi e gli accordi al ribasso, il profitto nel settore call-center, come segnala il quotidiano di Confindustria, continua a scendere?
A chi non accetterà il trasferimento saranno offerte 15 mensilità e l’inserimento nelle famigerate “politiche attive” dell’ANPAL di cui abbiamo di recente avuto modo di parlare.
Nel frattempo, in Francia, il capitale d’Oltralpe si adegua, complice il nuovo governo, al ben più favorevole regime regolativo italiano, e lo supera: con la nuova legge sul lavoro francese, il rifiuto di un abbassamento del salario può ingenerare il licenziamento economico, la cui eventuale illegittimità al massimo potrà portare al pagamento di un indennizzo forfettario, cosa che sarebbe potuta accadere anche nel caso di AlmavivA…insomma, sono i lavoratori in lotta che scrivono la storia e determinano le loro vite, non le interpretazioni più o meno favorevoli di una legge!
Noi, che abbiamo provato a stare al fianco dei lavoratori AlmavivA sin dall’inizio, non possiamo che essere contenti, ma ancor di più siamo motivati a continuare a fare quello che facciamo: solo con l’unità e la determinazione è possibile vincere!
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