Amazon e l’inchiesta del NYT sui licenziamenti “automatici”: siamo macchine o persone?
Mesi di reportage e centinaia di interviste per un solo protagonista, il gigante Amazon. In vista della possibilità che il colosso stia per diventare “il più grande datore di lavoro degli Stati Uniti, avvicinandosi al milione di lavoratori”, lo stesso ha attirato l’attenzione del New York Times, che ha svolto un’inchiesta al JFK8, ovvero il centro smistamento costruito da Amazon nella Grande Mela.
Tutto ruota attorno al licenziamento della signora Dayana Santos, un’impiegata praticamente modello “ripetutamente elogiata dai suoi capi”. Il dubbio è sorto da subito: perché licenziare un buon dipendente? Da questa domanda parte il rapporto investigativo del Times, che ha evidenziato importanti criticità nel modello di gestione dei lavoratori, nello specifico tra il rapporto licenziamenti-assunzioni.
Il periodo in questione è quello di “massima pressione pandemica” e i dipendenti coinvolti sono circa 5.000. La comprensibile riluttanza a rispondere, da parte di molti dei lavoratori, ha portato i giornalisti e le giornaliste a trascorrere diverse ore alla fermata dell’autobus fuori dal JFK8, per raccogliere le esperienze dei dipendenti, al fine di comprendere il rapporto sproporzionato.
Dopo quasi 200 interviste, è emersa un’immagine definita “molto più precisa con i pacchi che con le persone”, come si legge nell’articolo. Sotto accusa è finito il sistema automatizzato di gestione dei dipendenti, attraverso un’indagine giornalistica che non è stata affatto gradita, tanto che, poco prima della pubblicazione dell’articolo, la signora Santos e gli altri dipendenti ingiustamente licenziati hanno avuto notizia del fatto che potevano essere riassunti.
Ma in cosa ha fallito il sistema automatizzato? Facciamo un esempio: il dipendente chiede un permesso che gli viene accordato, e fin qui nulla da recriminare, se non fosse che quel permesso anziché risultare tale viene segnalato come assenza ingiustificata e il dipendente viene licenziato. Che problema c’è, starete pensando, basta avvisare dell’errore. Già, ma avvisare chi esattamente, considerato che il lavoratore si ritrova a doversi confrontare con ulteriori menù automatizzati creati a loro volta per risolvere questo tipo di casistiche, menù che tuttavia, si rivelano fallimentari.
Altro esempio, come riporta Il Foglio, è quello del dipendente in malattia per avere contratto il Covid, ma comunque interessato da notifica che lo invita a presentarsi sul posto di lavoro perché l’automatizzazione non tiene conto dei motivi dell’assenza. L’inchiesta non si ferma qui, e riporta ancora un altro “errore di rilevazione” del sistema, che riguarda il TOT, ovvero il Time off tasks, parametro relativo alla misurazione del “tempo di produttività” del lavoratore, già noto per aver portato a numerosi licenziamenti tra il 2017 e il 2018 per una pura questione di produttività, detta semplice: quanto corri sul posto di lavoro? Quanto sei veloce? Hai tempi morti, quanti e perché?
La stessa Dyana Santos è stata segnalata dal sistema per il valore troppo alto del suo TOT, dopo essere arrivata in ritardo a causa dell’autobus, ed essere stata assegnata ad un reparto differente dal suo, con ulteriore perdita di tempo, speso per la sua ricerca e per la sua individuazione. Tempo “improduttivo” che l’avrebbe condotta verso l’ormai noto licenziamento.
Per quanto, a seguito dell’inchiesta, lo stesso Jeff Bezos abbia annunciato che non si potrà più licenziare in base a una giornata negativa misurata dal parametro del Time off tasks, sta di fatto che la percentuale di turnover dei dipendenti Amazon è del 150%, ogni anno, il può implicare solamente una mobilità dei ruoli in verticale, ma una precarietà di tutti gli altri dipendenti: “Amazon aveva cercato di far crescere rapidamente la propria attività creando una gigantesca macchina semiautomatica per l’assunzione e la gestione, ma quel sistema spesso inciampava” (NYT). Così “mentre l’azienda si vantava della creazione di posti di lavoro […] doveva sostituire l’equivalente dell’intera forza lavoro del magazzino ogni otto mesi” (NYT).
Una conferma di quella che potremo chiamare “teoria contro la pigrizia” di Bezos, di cui ha parlato David Niekerk, ex vicepresidente del colosso americano, al New York Times. Il senso è che un dipendente stabilizzato perde di motivazione e quindi diventa pigro, abbassando gli standard della tanto agognata produttività. Concludo con una riflessione aperta: quanto influisce il nostro click, su questo sistema di iper produttività? Quanto potere abbiamo, come consumatori, di depotenziare questo meccanismo? In un’ottica di coerenza, siamo d’accordo con questo tipo di “politica aziendale”? Ed ecco che da due scelte, ne resta solo una. È semplice. Pensiamoci.
Elena Mascia
9/8/2021 https://www.intersezionale.com
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