Amazon: l’informazione, i diritti e l’ignavia

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Come troppo spesso accade nel nostro Paese, in modo particolarmente evidente da alcuni anni a questa parte, la quasi totalità della stampa quotidiana e periodica ha semplicemente ignorato i risultati di una straordinaria inchiesta condotta da un giornalista del Sunday Mirror; la pagina domenicale del popolare quotidiano londinese, tra i più venduti del Regno Unito: The Daily Mirror.
Solo grazie a un breve articolo di Lorenzo Palmisciano, pubblicato da Franco Cilento sul suo blog http://www.lavoroesalute.org, abbiamo appreso l’esistenza di un’inchiesta condotta da un certo Alan Selby; giornalista/investigatore.
Fattosi assumere presso il magazzino Tilbury, nell’Essex, una contea dell’Inghilterra orientale, Selby ha condotto – in incognito, naturalmente, dotato solo di una mini telecamera – un’indagine sulle condizioni di lavoro dei dipendenti Amazon; gigante multinazionale dell’e-commerce.
Quanto accertato, documentato e denunciato dal solerte giornalista non lascia alcun margine di dubbio.
A ben vedere, mentre in Italia (a Castel San Giovanni, provincia di Piacenza) e in Germania, appena qualche settimana fa, i dipendenti del colosso commerciale – fondato dall’imprenditore statunitense Jeffrey Preston Bezos – hanno scioperato lamentando basse retribuzioni e condizioni di lavoro “sfavorevoli”, i colleghi sudditi di Albione aggiungono ben altri motivi di insoddisfazione!
Solo a titolo di esempio, è sufficiente riportare qualche passaggio dell’esperienza vissuta dal giornalista nel magazzino che aveva la dimensione di 11 campi da calcio:
“ho trascorso cinque settimane nel nuovissimo magazzino a Tilbury, in cui è impossibile distinguere il giorno dalla notte, sotto il controllo delle telecamere e con la spada di Damocle di un licenziamento immediato in caso di mancato raggiungimento degli standard imposti”;
“servivano cinque minuti per raggiungere il bagno, da alcune delle mie postazioni di lavoro”;
“il mio corpo doleva dappertutto e il mio fitness tracker mi ha mostrato che camminavo per almeno 10 miglia (16,09 Km) quasi tutti i giorni”;
“sono solo in una gabbia chiusa a chiave, a 10 piedi (circa 3 m.) dal mio collega più vicino, un robot si avvicina e spinge verso di me una torre di scaffali”;
“ho nove secondi per afferrare e lavorare un articolo da spedire per l’imballaggio: l’obiettivo è 300 articoli l’ora”;
“ho trovato il personale addormentato in piedi, stanco di lavorare fino a 55 ore a settimana”;
“le pause temporanee per il bagno, gli obiettivi impossibili e le condizioni di lavoro estenuanti e intollerabili sono tra i reclami più frequenti”;
“la paga oraria è pari a 8,20 sterline (9,27 euro), appena una sterlina in più del salario minimo legale del Regno Unito”;
“il personale, lì, è solo bestiame per servire i robot”.

Ebbene, ancora non si era spenta l’eco dello straordinario (e drammatico) reportage di Selby che Amazon si è ritrovata di nuovo “sotto i riflettori” e sulla prima pagina di Franco Cilenti.
È accaduto perché la “gallina dalle uova d’oro” (nel 2017 Amazon ha fatturato 7,3 miliardi di sterline) di Jeff Bezos ha brevettato un braccialetto elettronico wireless capace di velocizzare la ricerca dei prodotti presenti in magazzino, monitorando ogni movimento delle mani, vibrando per indicare la direzione giusta e cronometrando tutti gli spostamenti dei lavoratori.
La notizia ha, naturalmente, prodotto non poco sconcerto tra coloro che non hanno mai nascosto di ritenere che troppo spesso l’innovazione tecnologica, nelle società capitaliste e in regime del profitto, non attenua – come pure potrebbe – le fatiche dei lavoratori, ma, al contrario, le rinnova e le inasprisce.
È stata anche prospettata la possibilità che: “In un sistema come quello in cui viviamo, caratterizzato dalla progressiva cancellazione dei diritti dei lavoratori, esistono dubbi sulla possibilità che Amazon possa utilizzare questo nuovo strumento legalmente. Il braccialetto, infatti, si configura a tutti gli effetti come uno strumento di controllo dei dipendenti, lasciando spazio, a possibili violazioni della privacy”.
Espressioni, queste, che riflettono, evidentemente, un più che legittimo dubbio: la possibilità di un uso scorretto e illegale del braccialetto. Niente di più, però, di una legittima preoccupazione espressa pubblicamente.
Considerati i precedenti di Amazon, pareva, quindi, molto comprensibile la scelta – da parte dei “soliti noti”, strenui e solerti difensori “a prescindere” delle ragioni dei datori di lavoro e “licenziatori” per principio – di osservare quasi un “religioso silenzio”.
Non è stato così; l’apparente calma è durata lo spazio di un mattino e la “tregua” è stata infranta!
Se ne è fatto carico e interprete – esprimendo le solite certezze e le ormai classiche dichiarazioni di principio – il senatore Pd, Pietro Ichino.
Non spreco tempo, nel riportare le affermazioni attraverso le quali – minimizzando il problema – si è tentato di ridicolizzare coloro i quali hanno denunciato i possibili rischi legati al “braccialetto”; preferisco evidenziare fino a quale punto taluni riescano a fare finta di credere ancora alla Befana: o, peggio ancora, mentire sapendo di mentire! In sostanza, ignorando volutamente le già gravi irregolarità delle quali si è resa responsabile la multinazionale statunitense, costoro si limitano ad evidenziare che il decreto legislativo 151/2015, modificando la previgente legislazione, ha escluso gli strumenti ordinari di lavoro – computer, cellulare, gps (e braccialetto?) – dall’obbligo della contrattazione preventiva tra le parti, limitandolo (l’obbligo) ai soli apparecchi installati con finalità di controllo a distanza. Ergo, è come se costoro avessero affermato che poiché le eventuali violazioni delle norme di legge sono sanzionate penalmente, possiamo stare tranquilli; evidentemente, a loro insindacabile giudizio, la sola esistenza della legge funge da deterrente rispetto ad eventuali malevoli intenzioni di infrangerla. Non solo. l’apoteosi dell’ingenuità, o, per meglio dire, il punto limite della ignavia – che caratterizza tali tipi di considerazioni – è rappresentato dalla evidente certezza che il datore di lavoro che volesse utilizzare tali strumenti per finalità di controllo a distanza, si preoccuperebbe, prima di ogni altra cosa, di comunicarlo alle rappresentanze sindacali!
Ne consegue, quindi, che il braccialetto ai polsi dei lavoratori Amazon avrebbe, a sentire costoro, un unico scopo:” Aumentare la produttività e ridurre la fatica”.
“Beati coloro che mostrano di avere solo certezze e nessun dubbio!”, direbbe un falso saggio.
Al massimo, a loro parere, si tratta di valutare, ai sensi del decreto legislativo 81/2008, la compatibilità del nuovo strumento con il benessere psico-fisico del lavoratore.
Di conseguenza, considerate le garanzie previste dalla legge, “La risposta del sindacato e dei lavoratori dovrebbe essere più meditata e consistere, per un verso, nel controllare che il nuovo strumento sia compatibile con il benessere del lavoratore, possibilmente consentendogliene la scelta e che non contenga dispositivi capaci di trasmettere a una centrale dati relativi a quantità o qualità della performance individuale”.
Cosa dire?
In un Paese: a) che in ambito europeo detiene il poco onorevole primato dell’evasione fiscale e contributiva, b) in cui l’introduzione di riforme che hanno ridotto, in misura esponenziale, i diritti dei lavoratori, non ha realizzato, in sostanza, nessuno dei risultati economici sperati, c) che presenta una classe imprenditoriale abituata, in massima parte, ad essere “alimentata” attraverso la elargizione di contributi e sgravi di Stato e, contemporaneamente, rincorrere la concorrenza attraverso il solo contenimento del costo del lavoro, d) in cui uno tra i politici più accreditati a ricoprire (ancora) la carica di Primo ministro, nel prossimo governo della Repubblica, è un soggetto che preferì rinunciare alla iscrizione alla Federazione nazionale dei Cavalieri del lavoro per anticipare l’eventuale decadenza dal titolo; così come era già decaduto, appena alcuni mesi prima, dalla carica di Senatore, e) in cui il leader del Centrodestra, è un condannato, in via definitiva, a 4 anni di reclusione (di cui 3 coperti da indulto e il rimanente in affidamento ai servizi sociali) per frode fiscale, un reato intollerabile, tra quelli possibili, per un amministratore pubblico; si resta letteralmente esterrefatti e con la sensazione di essere al “festival dell’ignavia”.
In definitiva, appare chiaro ai più che oggi, purtroppo, siamo in una situazione tale in cui anche quando i rischi di comportamenti lesivi della dignità e libertà dei lavoratori vengono solo potenzialmente rilevati, s’innesta, comunque, un meccanismo di sistematica e strenua “difesa d’ufficio” da parte di coloro che s’industriano a sostenere – sempre e comunque – le ragioni dei datori di lavoro; anche quando si è di fronte a precedenti oggettivamente indifendibili.

Renato Fioretti

Esperto di diritti del lavoro

Collaboratore redazionale del periodico cartaceo Lavoro e Salute

11/2/2018

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