Ammalarsi curando gli altri
Serena, nome di fantasia, ha 47 anni e una voce ferma e sorridente che ogni tanto si incrina, racconta la sua storia con partecipazione e fermezza. Soprattutto con l’amarezza di chi sa di essere viva per puntiglio – il suo – e per fortuna. Descrive condizioni di lavoro, quelle di chi si occupa dell’assistenza domiciliare dei malati, con rabbia: la rabbia che le viene dal non riuscire a dare risposte tempestive a tutti e tutte. È arrivata ai servizi territoriali, dopo anni al pronto soccorso dell’ospedale di una media città lombarda, con 90 giorni di ferie arretrate per non essersi potuta mai fermare. E ora è sola a rispondere ai bisogni dei cittadini dopo aver dovuto affrontare in solitudine il coronavirus.
Quando è cominciata la sua avventura con il Covid-19?
Ho cominciato a stare male verso la fine di aprile. Per più di due mesi sono stata male, davvero male. Avevo dolori muscolari molto forti, febbre alta, è durata 60 giorni. Dopo una settimana dai primi sintomi ho cominciato a non riuscire più a respirare bene e una grandissima stanchezza che mi rendeva impossibile fare qualunque cosa.
È stata ricoverata in ospedale?
No. Quando mi hanno eseguito il tampone mi hanno mandato al pronto soccorso perché già non riuscivo a respirare, mi hanno fatto tutti gli esami di protocollo, una radiografia al torace, non si vedeva polmonite bilaterale e quindi mi hanno mandata a casa. La prima settimana è andata abbastanza bene: febbre alta, dolori, ma tutto gestibile, sembrava una brutta influenza. Poi ho cominciato ad avere una difficoltà respiratoria importante: avevo a casa il saturimetro, monitoravo da sola l’ossigeno ed effettivamente era basso, ho chiamato il mio medico e mi sono fatta prescrivere l’ossigeno.
Chi l’ha assistita in quei due mesi?
Nessuno, sono rimasta sola perché l’Ats (Azienda tutela della salute n.d.r) mi ha divisa dal mio compagno e sono rimasta per più di due mesi chiusa in casa da sola. Stavo talmente male che non riuscivo nemmeno a camminare, per cinque, sei giorni non ho mangiato nulla perché non riuscivo ad arrivare in cucina.
Oggi come sta?
Faccio ancora fatica a respirare sotto sforzo, i dolori muscolari ci sono ancora. Ho ripetuto una Tac torace la settimana scorsa e ci sono ancora esiti della polmonite, che non mi permettono di avere una funzionalità polmonare normale. Il mio medico di base il sospetto della polmonite l’ha avuto quasi subito e ha attivato l’Usca, ma solo dopo l’insistenza forte del mio medico sono venuti a vedermi. Una visita penosa: mi hanno detto che la polmonite non c’era, mentre io continuavo a dire che non poteva non esserci visto che non respiravo e avevo febbre ormai da più di 40 giorni. A luglio, su prescrizione del pneumologo, ho fatto una Tac: lì si è visto non solo l’esito della polmonite, ma anche una compromissione delle arterie polmonare e suclavia. Mi sono salvata perché da prima del tampone ho cominciato a prendere l’eparina.
Quando è tornata a lavorare?
Il 6 agosto, anche se lo pneumologo mi aveva consigliato di rimanere a casa. Ancora non riuscivo a camminare, facevo fatica a respirare, ero stanchissima. Io ho voluto rientrare perché ero molto depressa, speravo che tornare al lavoro mi aiutasse. Ero depressa non solo per i due mesi di malattia e di reclusione, ma anche perché la tanto agognata libertà poi si è rivelata deludente. Quando finalmente, essendo negativa, l’Ats mi ha autorizzata alla fine dell’isolamento, sono uscita, ma non riuscendo a muovermi e stancandomi anche solo per andare a buttare la spazzatura nel cassonetto, mi sono rinchiusa in casa e sono appunto caduta in depressione. Ed allora sono tornata, sperando di dare una mano al servizio e una a me. Dal medico competente ho avuto solo l’esonero dalle valutazioni domiciliari, speravo almeno all’inizio anche in una riduzione di orario ed è stato veramente difficile, per me, stare in servizio dalle 8.30 del mattino alle 4.30 del pomeriggio. Però ce l’ho fatta. Ora sto decisamente meglio, la stanchezza ha cominciato a migliorare verso la fine di settembre, e cammino meglio. Mi sono rimasti i dolori muscolari e spesso la difficoltà a respirare. E poi psicologicamente devo dire mi ha lasciato strascichi importanti, ho una serie di ansie e paure per me e per i miei familiari che non avevo mai avuto.
C’è stata un’assunzione di responsabilità da parte dell’Azienda nei suoi confronti?
Il medico competente ha aperto l’infortunio all’Inail, poi mi ha detto che avrei dovuto eseguire il tampone 14 giorni dopo la fine dei sintomi. Ora io i sintomi li ho ancora adesso, quindi anche su questo ho dovuto autogestirmi. Dopo 62 giorni di reclusione non ne potevo più e, nonostante stessi ancora molto male, ho comunque chiesto che mi venissero fatti i due tamponi per verificare se comunque, nonostante i sintomi, mi fossi negativizzitata. Per fortuna i due tamponi sono risultati negativi. Sono stata per un mese comunque distante da tutti perché, avendo ancora tutti i sintomi, non mi fidavo, però il medico competente, essendoci i tamponi negativi, mi ha chiuso l’infortunio a giugno. Alle mie proteste, ha detto che il medico di base avrebbe potuto mettermi in malattia ‘normale’. Insomma, è come se lui pensasse che le infermiere utilizzino il Covid per non andare a lavorare. Il mio medico si è arrabbiato, ha detto che io non avevo una malattia qualunque ma ero ancora nel pieno delle conseguenze da Coronavirus, quindi mi ha riaperto l’infortunio. Questo è stato il riconoscimento che ho avuto dall’azienda. Insomma, non proprio una bella storia.
Roberta Lisi
6/11/2020 https://www.collettiva.it
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