Anche tu, come noi, sei un numero
Un ragazzino che muore assiderato viaggiando sul carrello di un aereo è una tragedia. È una tragedia un aereo che esplode in volo, perché colpito da un missile. Una guerra è una tragedia. Il cambiamento climatico, la fame, un continente che brucia sono tragedie, senza dubbio. Ma c’è una tragedia più silenziosa, invisibile, quasi mai in primo piano nelle cronache, che tormenta il nuovo (nuovo?) millennio e della quale non sappiamo, per distrazione o ignavia, quasi nulla. Ce ne parlano – con la consueta attenzione e profondità – il regista Ken Loach e lo sceneggiatore Paul Laverty, in un film tanto doloroso quanto imprescindibile per chiunque avesse velleità di intervento sociale e politico: Sorry we missed you.
È la tragedia di quelle formule, per qualcuno forse suggestive, che si chiamano “gig economy”, in inglese, o, già in modo più appropriato, “economia dei lavoretti”, in italiano. Laddove “lavoretto” non starebbe a indicare piccole riparazioni domestiche o occupazioni al limite dell’hobby, ma, nella realtà, appunto tragica, “lavoro sottopagato e senza garanzie”.
Ricky Turner (Kris Hitchen) abita a Newcastle con la moglie Abbie (Debbie Honeywood) e i figli “Seb” (Ryhs Stone) e Liza Jane (Katie Proctor). Una normalissima famiglia inglese degli anni Duemila. Avevano in progetto, già avviato e quasi in fase operativa, di acquistare una casa, ma la crisi dei mutui l’ha fatto naufragare, costringendoli a stare in affitto. Abbie lavora come assistente domiciliare di anziani e persone con disabilità: trasporti a carico suo, ore di trasferimento da un paziente (“cliente”, come debbono essere chiamati) all’altro non considerate nel computo del salario. “Seb” ha sedici anni. Salta spesso la scuola, per andare a dipingere graffiti sui muri coi suoi compagni di avventura. Liza Jane ha undici anni ed è la testimone partecipe e appassionata dei problemi che si stanno vivendo in famiglia.
Ricky ha fatto mille lavori. Stava nell’edilizia, settore massacrato dalla crisi economica. Dopo molti tentativi, trova lavoro in una ditta di trasporti. Il colloquio di “assunzione” – scritto e recitato in modo impeccabile, dovrebbe essere preso e proposto in qualsiasi corso di formazione sindacale, così da rendere edotti rappresentanti, rappresentati e soprattutto ragazze e ragazzi che si affacciano al mirabolante mondo del lavoro di quale sia lo stato delle cose.
“Noi non ti assumiamo – dice il capoccia a Ricky – Sei tu che ci offri la tua collaborazione. Non lavori per noi. Lavori con noi”.
Risultato pratico: Ricky deve avere un suo furgoncino a disposizione. Deve. La generosissima ditta può affittargliene uno, a 65 sterline al giorno. Se ne acquista uno suo, pagherà 400 sterline al mese. Ma serve un anticipo di 1.000 sterline e per arrivarci Abbie è costretta a vendere la sua utilitaria e a utilizzare i mezzi pubblici per trasferirsi da casa di un assistito a quella di un altro. Tempi di carico, percorrenza e consegna delle merci sono monitorati da una implacabile “pistola”, uno scanner che suona dopo due minuti se l’operatore si è allontanato dal furgone.
Un vecchio amico di Ricky, anch’egli finito a lavorare per la stessa ditta, il primo giorno di lavoro gli regala una bottiglia di plastica vuota. “Ti servirà per pisciare”, gli dice. Ricky lo prenderà come qualcosa a mezzo tra uno scherzo e un affondo, ma si accorgerà a sue spese che l’amico diceva sul serio.
Siamo di fronte alla tragedia quotidiana di una classe – ma il termine non è forse adatto, forse è più corretto passare di sottoclasse, se non di lumpenproletariat, secondo un lessico marxista che ci hanno raccontato essere superato – che vive giorno dopo giorno accumulando debiti, frustrazioni, fatica, tensioni, amarezze, rischi, con un sistema di garanzie quasi del tutto franato o in procinto di franare del tutto, come nell’incontro con una sanità pubblica sempre più precaria.
Nella vasta e fondamentale filmografia di Ken Loach, che dal 1967 conta ormai ventisei lungometraggi, svariate produzioni televisive, tre cortometraggi e quattro documentari c’è un titolo, fra questi ultimi, che andrebbe visto insieme a Sorry We Missed You. È quel The Spirit of ’45, realizzato nel 2013, che racconta l’Inghilterra del secondo dopoguerra, col Partito Laburista al governo, e che descrive quale fosse la carica di cooperazione e solidarietà che si respirava in quegli anni.
Non rimane nulla, di quello spirito. Non solo nell’Inghilterra della Brexit, che ha attraversato, prima degli ultimi governi conservatori, l’epoca del New Labour di Tony Blair e del progressivo smantellamento del welfare, assestando dopo l’era di Margaret Thatcher il colpo forse finale ad un modello sociale che aveva ancora a cuore le persone. (“Non sono clienti – dice Abbie – mi rifiuto di chiamarli così. L’unico principio che ho è di considerarli come mia madre e di prendermi cura di loro come se lo fossero”).
Laverty e Loach sono ben di più e ben altro che meri osservatori di fenomeni sociopolitici. La narrazione e la drammaturgia che mettono in campo nei loro lavori non dimenticano né l’approfondimento dei caratteri psicologici, né la struttura di racconto che deve interessare, appassionare, coinvolgere lo spettatore. Sorry, we missed you è la frase che si trova nelle notifiche di mancata consegna dei corrieri che lavorano come Ricky. Ma davvero, in questi anni e giorni che tutti stiamo attraversando, è qualcosa di più. “Non ti abbiamo trovato”. “Ci siamo mancati”. Formula gentile e asettica per dirci: “non ti abbiamo considerato”, anche tu, come noi, sei un numero da scansionare e poco altro.
Non ci interessa se stai male. Non ci interessa se durante uno dei tuoi viaggi sei stato aggredito, rapinato e pestato a sangue. Tu ci devi solo garantire le consegne nei tempi e nei modi che noi ti abbiamo indicato e, se non lo farai, sarai sanzionato, multato, lasciato a casa.
L’inglese Robert Baden Powell, grande fondatore del movimento degli scout, diceva: “Lasciate il mondo un po’ meglio di come lo avete trovato”. Un film come questo ci racconta e purtroppo ci conferma che lo stiamo lasciando in condizioni ben peggiori di quelle che ci sono state lasciate. Una tragedia. Silenziosa e letale come un cancro.
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SORRY WE MISSED YOU (GB, 2019) regìa: Ken Loach
sceneggiatura: Paul Laverty; fotografia: Robbie Ryan; montaggio: Jonathan Morris; musiche: George Fenton; scenografia: Fergus Clegg; costumi: Jo Slater; trucco: Anita Brolly.
Con: Kris Hitchen (Ricky Turner), Debbie Honeywood (Abbie Turner), Rhys Stone (Sebastian “Seb” Turner), Katie Proctor (Liza Jane Turner).
Produttori: Rebecca O’ Brien, Emihear McMahon; produzione: Sixteen Films, Why Not Productions, Wind Bunch, BFI, BBC Films, Les Films du Fleuve, France 2 Cinéma; distribuzione: Lucky Red; durata: 101’.
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Carlo Ridolfi
Giornalista e coordinatore nazionale della Rete di Cooperazione Educativa
15/1/2020 comune-info.net
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