Antirazzismo, istruzioni per l’uso. Continuando sui luoghi comuni da sfatare riprendiamo il discorso da dove era stato interrotto ( parte seconda, la prima parte pubblicata il 24 ottobre)
Torna in questi giorni il mai rimosso “allarme sicurezza”. Anche qui, senza far finta di non vedere le criticità che ci sono soprattutto in alcuni quartieri popolari dove l’assenza di prospettiva favorisce anche circuiti criminali, autoctoni e stranieri, guai a provare a verificare dimensioni e cause della questione. Se mediaticamente trovano sempre più spazio i reati commessi presumibilmente da cittadini stranieri è altrettanto vero che è necessario che tali situazioni vengano affrontate per quelle che sono, questioni sociali in cui, accanto al reato da perseguire (il reato è commesso da una persona non da una comunità) si tratta di garantire ai territori maggior intervento delle amministrazioni, servizi, risorse di cui debbono essere beneficiari autoctoni e non. Se alcune sacche di microcriminalità crescono all’interno delle comunità straniere va svolto un intervento che non può tradursi nella caccia indiscriminata allo straniero. Diritti e servizi sarebbero un investimento che invece le politiche liberiste sottraggono alle fasce più vulnerabili, indipendentemente dalla nazionalità. La disperazione nella crisi è in alcune zone del Paese dilagante, si prenda atto di come spesso si traduca in depressione senza ritorno, a volte in tragedie che trovano spazio in ambito familiare, altre in circuiti di devianza. Non è buonismo, parola quanto mai abusata ma prendere atto dell’interezza di un contesto e non solo di un suo punto apicale di problematicità. Si scrive a lungo e giustamente di reati maturati nel degrado, commessi soprattutto da giovani maschi a volte stranieri, si rimuovono velocemente quei delitti in cui è “lo straniero” a essere vittima. Evidentemente restano vite di serie B.
In subordine ma con costante incremento, vanno crescendo islamofobia e paura generata dagli eventi connessi al terrorismo di matrice fondamentalista. A parte il “futile” particolare che la maggior parte delle persone che giungono in Italia professa la religione cattolica bisogna fare un altro salto di riflessione. Andrebbe quantomeno specificato che chi fugge dai Paesi in cui si vagheggia il califfato è di solito preso fra gli attacchi integralisti, quelli dei regimi finora imperanti e i bombardamenti umanitari occidentali. Altro che terroristi infiltrati. Più complesso è il tema di coloro che, nati e cresciuti in Occidente si sentono chiamati ad una Guerra Santa. Finora hanno agito recandosi a combattere nei Paesi di origine o in quelli in cui è più forte il conflitto. Per impedire che avvengano tragedie come quelle intercorse dal 2001 al 2005 forse sarebbe molto più efficace garantire la libertà di culto (non strepitare alla minaccia di apertura di una moschea), supportare i tanti e le tante che si stanno ribellando dall’interno del mondo musulmano (la maggioranza) e che rifiutano ogni ipotesi di religione intesa come guerra. Ma anche qui occorrerebbe lungimiranza. Si prendono più voti con gli strepitii in difesa dell’Italia bianca e cristiana (non è ancora dato sapere chi sta mettendo a rischio tale condizione) costruendo stereotipi dell’Islam che molto si rifanno a quelli diffusi nel periodo buio delle leggi razziali. Esistono, è innegabile, elementi di problematicità derivanti anche dal fatto che una società escludente per classe e per cultura come la nostra produce automaticamente esclusione, auto emarginazione, processi di costruzione di identità molto radicali e semplificatori. Ma anche questi potrebbero essere affrontati avvalendosi anche del prezioso supporto della maggior parte delle persone che pur professando la religione musulmana intendono costruirsi un percorso di vita all’interno di questo continente, vivendone in divenire le contraddizioni e le modalità di cambiamento. In altri termini: esclusione e relativismo generano specularmente forme di conservatorismo tradizionalista ancora più forti di quelle praticate nei paesi di origine, confronto aperto e paritario, aprono tanto nella società ospitante quanto in chi arriva, elementi propulsivi e dinamici di cambiamento dall’interno. Da ultimo dire che alcune fasi critiche potrebbero essere disinnescate, permettendo la realizzazione dello Stato di Palestina, come Stato sovrano o liberando il leader kurdo Ocalan, esempio di una forza laica e progressista, cominciare ad agire una politica estera realmente di cooperazione fra pari, se non risolverebbe nell’immediato offrirebbe meno spiragli ai venti di guerra.
C’è poi la perenne rappresentazione falsata. Per molti concittadini la parola immigrato si associa ancora unicamente a coloro che sbarcano nel meridione, all’elemento oscuro e pericoloso chiamato “clandestino” ai fatti di cronaca nera. Costa molto a politici e mezzi di informazione considerare il fatto che ormai dopo trenta anni la presenza migrante in Italia ha modificato strutturalmente la composizione sociale. Si tratta di un mutamento interno e non indotto, si tratta di quasi 5 milioni di persone che vivono, lavorano, soffrono e gioiscono, si sposano e si riproducono, vanno nelle scuole e cominciano a costituire una base fondamentale di quella che sarà la futura classe dirigente del Paese. Si impongono a volte in classe a volte nello sport e a volte nei luoghi di lavoro, sono fra i primi a sindacalizzarsi (solo la Cgil conta oltre 400 mila iscritti di origine straniera), pagano le tasse, diventano sempre più spesso imprenditori o magari si ritrovano insieme alle giovani coppie autoctone ma prive di reddito ad occupare immobili per risolvere il problema abitativo. Insomma, va riaffermato, l’immaginario delle barche e dei volti sofferenti è una parte anche marginale e non il tutto di questa società cambiata, dietro cui non ci sono solo numeri ma storie di vita terribilmente comparabili con quelle autoctone. La vita quotidiana di gran parte di questi uomini e di queste donne, tanto preziosi quando coprono nicchie economiche lasciate vuote, è scandita dalla assurdità dei tempi di rinnovo dei permessi di soggiorni, (costo dagli 80 ai 200 euro l’anno a persona) dalle difficoltà ad avere una residenza, ad una burocratizzazione sistematica della permanenza in Italia. Ed è curioso come chi, da una parte annuncia in continuazione la “lotta alla burocrazia” non semplifichi alcune procedure, ad esempio togliendo il ruolo di supervisore a prefetture e questure e lasciando le competenze agli enti locali. Avremmo le forze dell’ordine meno impegnate a certificare permessi e maggiore legame fra cittadino straniero e territorio. Un processo, anche selettivo, di responsabilizzazione che dovrebbe però condurre, come già affermato, alla cittadinanza, al diritto di voto, alla possibilità di contare anche nella vita delle amministrazioni cittadine. Il resto del mondo ci dimostra che laddove accade ed in maniera sistematica, gli elementi di problematicità si riducono esponenzialmente, il cittadino straniero non vede più l’amministrazione come un nemico da cui tenersi alla larga o come un elargitore di benefici nell’indigenza ma come un soggetto a cui ci si deve rapportare correttamente. Ed anche qui va tradotto in termini concreti, le persone di cui si parla sono i compagni di classe dei nostri figli, i colleghi di lavoro, i negozianti da cui si va a fare la spesa, i baristi e i ristoratori, i barbieri e parrucchieri, le persone, per lo più donne che si prendono cura di anziani, bambini e disabili, quel tessuto di welfare che lo Stato non garantisce più, se mai lo ha fatto, e che ci si deve pagare da se. Ma anche e soprattutto i tanti e le tante che incontriamo sui mezzi pubblici, negli uffici, nelle Asl, nei luoghi di ritrovo, non sono altri ma costituiscono un pezzo di paese, fondamentale che non è stato assimilato ma che si intreccia e realizza nuove identità sociali, spesso meticce.
La stessa categoria “immigrato” è ormai falsata e insufficiente a spiegare gli eventi: diversa è la vita di chi sta qui da 20 anni rispetto a chi è appena arrivato, diversa quella di chi ha studiato in Italia da coloro i cui titoli di studio conseguiti in patria non sono mai stati riconosciuti, diverso il ruolo di chi sfrutta e di chi è sfruttato, (il caporalato in edilizia e in agricoltura ne sono un esempio), diverso il punto di vista di chi si va costruendo un nucleo familiare qui da chi, soprattutto giovani maschi, vivono avendo come unico punto di riferimento i propri coetanei compaesani. Diversa è la vita, sembra banale dirlo, fra chi abita in una grande città da chi abita in provincia, fra chi ha gettato le basi per un progetto a lungo termine e chi annaspa in un presente precario e scivoloso. Ma non accade lo stesso a noi autoctoni? Non siamo anche noi figli di tale meccanismo che tante volte ci schiaccia? Su questo stesso filone si colloca la logica misera di chi si vede passare avanti nell’esigere diritti fondamentali da cittadini stranieri e ribatte “prima gli italiani”. La risposta è: perché? Se ancora crediamo in una carta costituzionale che sancisce l’eguaglianza di tutti davanti alla legge, allora è giusto che per il posto in un asilo nido o in una casa popolare, la graduatoria tenga conto delle esigenze reali e dello stato di necessità. Chi resta escluso dal soddisfacimento di tali bisogni dovrebbe avere il coraggio di prendersela con chi non commisura alle necessità reali le risorse necessarie e non a chi ha il solo “difetto” di provenire da un Paese diverso. Bisognerebbe rispondere “prima chi ha bisogno” e su questo aprire vertenze e conflitti in cui a schierarsi dovrebbero essere tutti coloro che sono esclusi da un diritto. Più difficile e problematico certo ma è la sola soluzione che si intravvede.
In conclusione, con buona pace dei Salvini di turno che diventano cerniera fra Marine Le Pen e Forza Nuova, dei penta stellati in affanno elettorale, dei Fratelli d’Italia bisognosi di una identità di destra, dei forza italioti che temono la concorrenza, del balbettio del Pd, fermare l’immigrazione è impossibile e “governarla” come dicono i moderati, altrettanto. È invece necessario rivedere, a livello continentale le politiche migratorie, meno spese alle agenzie di repressione e contrasto (Cfr Frontex) e maggiori investimenti per evitar la guerra fra ultimi e penultimi. Altro che 80 euro, quello che occorre è una redistribuzione delle risorse ed una crescita del livello dei diritti esigibili. Un asilo nido in più, una casa popolare, una scuola pubblica funzionante che possono diventare motori di inclusione sociale e di accettazione reciproca della fatica del vivere in una società multiculturale, sono gli unici antidoti all’imbarbarimento che si vive nelle nostre città. Costa fatica, tempo, energia e pazienza ma ci potrà permettere non di amministrare le macerie in nome dell’osservanza dei patti di stabilità ma di costruire futuro partendo dal presente. Chiedere di comprendere questo ai fabbricanti di paure diffuse è impossibile, informare meglio, in assenza di adeguati strumenti di comunicazione, sì.
Stefano Galieni
27/10/2014 www.rifondazione.it
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