Appena all’inizio
L’alba è a pochi passi, le luci già sembrano di troppo. La nebbia s’è spersa, la pioggia incessante sta trattando una tregua con il sole. Franco è uscito poco fa con la bici, seguito dal suo cane, amico di sempre.
Se non sbaglio, l’ultima sirena è di un’ora fa. Adesso la strada è deserta.
Da lontano appare Giannino, il Colosso. Ormai lo chiamano così tutti, perfino i bambini “ciao Colosso”. Sorride sempre, è trasparente, il suo viso e i suoi modi trasmettono serenità. Lo chiamano Colosso perché è piccolo e ossuto, lui è orgoglioso di questo soprannome. Lo indossa con eleganza e signorilità, perché è il nome dato dalla gente del suo rango, della sua zona. Io continuo a camminare, a rubare questi momenti, come farebbe un ladro davanti a una cassaforte.
Anche Nino è in strada, porta la canotta. A dire il vero, la indossa da Febbraio. Non l’ho mai visto con un cappotto, con una giacca, un piumino. Nino ha lavorato quasi trent’anni in Canada, non molto lontano dall’Alaska, vive con una pensione discreta. Quasi d’istinto, mi abbottono il cappotto, tanto per rispondere al brivido di freddo sulla schiena, nel vedere le braccia nude del Canadese. Nino non puoi chiamarlo canadese, la prende male, ti risponde aggressivo “io sono italiano più di tutti voi insieme. Voi siete oriundi, le vostre famiglie vengono dalle montagne e voi non siete nati a quattro passi dal mare”. Inutile spiegargli che chi viene dalla collina è italiano, come chi vive vicino al mare, non ti crederebbe mai.
Nino, da quando è tornato, non è mai uscito dalla sua zona, neanche per andare al comune o in centro, in ospedale. Preferisce risolvere tutto qui, pare tema che qualcuno lo porti, di nuovo, via.
Intanto Luciano, ha messo in moto il furgone, mi saluta da lontano “buongiorno ingegnere dell’anima, dove te ne vai a quest’ora? Hai bisogno di un passaggio? Prendiamo un caffè insieme?”
Dalle mie parti, le domande singole non esistono, si parte da un minimo di due. Lo guardo sconsolato e gli confesso “si, andiamo. Ho visto Nino a maniche corte e sto sentendo freddo per lui, porca miseria”.
Dalle mie parti, puoi scegliere a quale domanda dare ascolto e quale tralasciare, nessuno si permetterebbe di riproporle. L’importante è rispondere ad almeno una. Arrivati al bar a bordo del furgone, ritrovo una decina di sorrisi. Scendiamo e s’avvicina il cane del quartiere, un vero fenomeno, attraversa sulle strisce e conosce tutti. E’ magrissimo, nonostante faccia il pieno un po’ ovunque. Credo percorra almeno cinquanta chilometri al giorno. Lo vedi ovunque, giorno o notte che sia. Non abbaia, non morde, non rifiuta mai una carezza e gira alla larga da chi non lo convince. Ringo è un vagabondo, trattato come un principino e lo sa bene.
Al bar, anche le divise che prendono il caffè sembrano più accomodanti, anche se nessuno osa rivolgergli la parola, ne’ lo sguardo. In periferia, loro sono i cattivi. Geppo, invece, è già ciuco, dice che la partita della juve è stata tutta una messa inscena, pare abbia anche le prove. Gli risponde Raimondo il postino, juventino dalla nascita, ha altre convinzioni. La discussione si conclude, dopo dieci minuti, con il solito, inopportuno e semplice vaffanculo di Geppo.
Lascio Luciano e ritorno a piedi, del resto sono a meno di duecento metri da casa, eppure ci metto quasi un’ora. Non per il passo lento, per mia pigrizia o giri allargati, semplicemente perché a ogni saluto, corrisponde una mini chiacchiera. Assaporo i problemi della gente, fino a ingoiare tutto l’amaro, perché sento di appartenere al disagio e tutto ciò mi rende vivo, mi coinvolge, mi rende un uomo migliore.
Scappo via, il tempo è infame, la corsa del nuovo giorno deve partire.
Antonio Recanatini
Poeta, scrittore. La sua poesia è atta a risollevare il sentimento della periferia, all’orgoglio di essere proletari e anticonformisti.
Collaboratore redazionale di LeS
Pubblicato sul numero di maggio di www.lavoroesalute.org
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