Assistenza psicologica dal basso durante il lockdown: «La salute mentale è una questione politica»

“Angoscia”, “smarrimento”, “depressione”, “paura”… Stati d’animo che non è difficile immaginare come comuni a tante persone durante il distanziamento sociale e che, in effetti, costituiscono alcuni dei sintomi registrati con maggiore frequenza dai centri di sostengo psicologico e psichiatrico che sono rimasti attivi nel corso del lockdown. «Si è trattato senza ombra di dubbio di un periodo eccezionale», afferma Laura Storti, psicanalista e coordinatrice del consultorio di psicanalisi applicata Il cortile presso la Casa Internazionale delle Donne a Roma. «L’emergenza sanitaria ha rappresentato una sorta di trauma collettivo per tutte e tutti. A maggior ragione, per chi si trovava in un percorso di recupero e riabilitazione psichici, è andata a rompere il fragile equilibrio costruito sino a quel momento».

Già ad aprile, uno studio realizzato grazie alla collaborazione fra l’Università degli Studi di Tor Vergata e l’Università dell’Aquila aveva registrato quella che uno degli stessi curatori della ricerca paragonava a «una situazione di guerra»: su oltre 18mila persone intervistate attraverso un questionario, il 37% accusava infatti disturbi post-traumatici da stress, il 22,9% disturbi dell’adattamento, e a seguire i disturbi da stress elevato (22,9%), ansia (20,8%), depressione (17,3%) e insonnia (7,3%) con un’incidenza maggiore su donne e soggetti in giovane età. Uno studio condotto dall’Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico Gaslini di Genova ha provato inoltre a concentrarsi sulla condizione dell’infanzia e dell’adolescenza, verificando come nel 65% e nel 71% dei bambini con età rispettivamente minore o maggiore di 6 anni siano insorte problematiche comportamentali e sintomi di regressione.

L’Osservatorio Suicidi Covid-19 della Onlus Brf, infine, ha conteggiato da marzo a oggi oltre 50 suicidi, di cui più di 30 per cause direttamente o indirettamente associabili all’emergenza sanitaria.

«Con la pandemia si sono intrecciati aspetti psichici, materiali e sociali del disagio», commenta ancora Laura Storti. «Purtroppo, è probabile che ne vedremo le conseguenze ancora per molto tempo, contando tra l’altro che l’emergenza si è andata a sommare a una situazione già critica, caratterizzata da scarse risorse, ostacoli all’accesso alle cure ed eccessivo ricorso ai farmaci. I centri diurni, per esempio, hanno interrotto la propria attività e ancora faticano ad aprire per via della burocrazia, causando grosse difficoltà alle famiglie di chi è in trattamento».

Anche in risposta a queste carenze, però, durante il periodo di distanziamento sociale sono nate e si sono sviluppate numerose esperienze di supporto psicologico e psichiatrico dal basso. Associandosi in maniera quasi “naturale” a forme di mutualismo orientate verso bisogni più materiali, come la spesa a domicilio o la distribuzione di generi alimentari, sportelli di ascolto, centralini, gruppi di sostegno e informazione per la salute mentale si sono attivati poco dopo l’inizio del lockdown grazie all’iniziativa di centri sociali e collettivi autogestiti. È il caso, per esempio, del Laboratorio di Salute Popolare di Bologna, un progetto già operativo nel contesto dello spazio autogestito di Làbas e che è proseguito nel corso dell’emergenza:

«Con decine e decine di telefonate ricevute ogni giorno, siamo riusciti a garantire un aiuto praticamente su tutto il territorio nazionale e anche all’estero», raccontano attiviste e attivisti del collettivo.

«Le situazioni sono le più svariate: da chi si vede improvvisamente costretto ad affrontare il lutto di una persona cara, a chi non capisce bene cosa stia succedendo fino a chi ancora si sente perfino in colpa di provare paura e incertezza, oltre a quanti e quante erano già inseriti in un percorso di sostegno con noi». Nato circa un anno fa all’interno della rete bolognese di studenti di medicina Gruppo Prometeo, il Laboratorio di Salute Popolare ha infatti operato inizialmente soprattutto con migranti e richiedenti asilo e una delle principali preoccupazioni durante la pandemia è stata quella di garantire una continuità a questi rapporti di cura. Ma, sulla scorta anche della sinergia con le Brigate di Solidarietà di Làbas, Tpo e YaBasta che operano dal vivo e in strada, ben presto si è rivelata tutta una serie di nuove vulnerabilità in uno stato di allarme elevato e costante agitazione. «In questo senso, il nostro tentativo non è quello di andare a colmare le carenze del sistema sanitario nazionale», spiegano attiviste e attivisti del laboratorio. «Piuttosto, proviamo a “indirizzare” chi chiede aiuto verso diverse soluzioni e diversi percorsi. In particolare, ci interessa che il soggetto si senta preso in carico e sostenuto. Sinora, si è rivelato un procedimento molto efficace: anche a fronte dell’elevato numero di richieste, non si è verificato alcun caso di persone che si sono rese pericolose per se stesse o per gli altri».

Con una traiettoria simile, ma costituendosi come gruppo solo allo scoppio della pandemia, a Milano è nata invece la Brigata Basaglia: un’esperienza che, rifacendosi a principi dell’anti-psichiatria e della solidarietà dal basso, offre supporto psicologico a chiunque si metta in contatto. «Dall’inizio dell’emergenza, ci siamo trovati sempre più di fronte a contesti difficili, di abbandono e solitudine», raccontano attiviste e attiviste del collettivo, molti dei quali e molte delle quali provenienti dalle altre brigate di solidarietà attiva legate a centri sociali e spazi autogestiti che si sono organizzate durante la pandemia sul territorio del capoluogo lombardo (circa una decina di gruppi, impegnati in attività come spese solidali o collette alimentari) oppure da percorsi di sostegno sanitario dal basso come l’Ambulatorio Medico Popolare di via dei Transiti.

«L’emergenza Covid-19 era qualcosa di più grande di noi, ma ci siamo attivati per mettere al centro delle nostre relazioni la dimensione della cura e per fornire alle persone che incontravamo strumenti per autodeterminare il proprio benessere.

È evidente come sia necessaria una maggiore attenzione verso l’educazione e come la società in cui viviamo tenda a erodere le reti relazionali, spingendo verso l’isolamento e la depressione: tutte criticità che i movimenti denunciano da tempo».

È come se il virus stesse infatti mettendo in luce la dimensione più politica della salute psichica, spesso occultata da un sistema che tende a favorire l’individualizzazione del disagio. Come ha scritto il critico della cultura Mark Fisher in alcuni dei suoi saggi raccolti in Realismo capitalista: «L’ontologia oggi dominante nega alla malattia mentale ogni possibile origine di natura sociale. Ovviamente, la chimico-biologizzazione dei disturbi mentali è strettamente proporzionale alla loro depoliticizzazione: considerarli alla stregua di problemi chimico-biologici individuali, per il capitalismo è un vantaggio enorme». Un vantaggio che, però, alla prova di un’emergenza che ha coinvolto tutti i settori della società si è rivelato essere debolezza diffusa, sostanziale elusione dei problemi relativi alla salute mentale. «Il fatto è che l’assistenza psichica pubblica si è ridotta a essere dipendente dalla somministrazione di farmaci», conclude la psicanalista Laura Storti. «Il nostro sistema non riusciva prima e a maggior ragione non riesce ora a garantire un percorso di cura completa e sfaccettata. L’emergenza ha causato invece un malessere che pervade le nostre vite nella loro totalità. Non è possibile affrontare questi problemi da un punto di vista personale, magari tralasciando le basi più materiali e concrete del disagio come per esempio la perdita del lavoro. Serve una prospettiva comune, una liberazione collettiva».

Numero di telefono consultorio Il cortile: 06 6869698

Numero centralino Brigata Basaglia (Milano): 0282396915

Numero Whatsapp Laboratorio Salute Popolare (Bologna): 351-1226865

Francesco Brusa

3/7/2020 https://www.dinamopress.it

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