Atlante della schiavitù
La compressione dei diritti, accelerata dai processi di globalizzazione riguarda in primo luogo anche il lavoro, con dumping sociale, precarietà dilagante e condizioni occupazionali sempre più degradate.
La questione è al centro dell’Atlante della Schiavitù, pubblicato di recente dalla Fondazione Rosa Luxemburg, che propone una panoramica di “dati e fatti sul lavoro forzato e sullo sfruttamento”.
Rispetto all’immagine storicizzata dello schiavo africano deportato in catene da potenze coloniali, oggi queste forme di assoggettamento della manodopera risultano magari più latenti, ma secondo l’ILO altrettanto diffuse anche nei paesi che hanno ratificato il divieto di simili pratiche nell’art.4 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, tanto che sono circa 40 milioni le persone sottoposte a ‘moderna schiavitù’ secondo le stime dell’ONU.
A proposito, l’UNODC nel suo rapporto ‘Global Report on Trafficking in Persons’ ha raccolto dati su almeno 534 rotte del traffico di esseri umani, che riguarda oltre 120 paesi con 140 provenienze diverse.
Ad oggi sono ancora 16 i membri delle Nazioni Unite dove il “Protocollo aggiuntivo per prevenire, combattere e punire la tratta di esseri umani, in particolare la tratta di donne e bambini” del 2000 non è stato ancora ratificato,
Gli ambiti economici di impiego di manodopera a queste condizioni sono i più disparati, dal settore estrattivo, passando per il tessile, agli elettrodomestici, fino ai cosmetici, ai preziosi, oppure ai lavori domestici; e fanno spesso leva sul ricatto dei documenti personali condizionati allo status occupazionale, finendo così per trasformare pratiche criminali in modo apparentemente legale.
L’Atlante passa in rassegna numerosi casi in ciascun continente, dove il lavoro forzato è letteralmente legato ‘alla catena produttiva’, fatta di regolamentazione e sistemi di protezione sociale carenti, oltre alla continua ricerca di costi al ribasso, che non permettono consapevolezza del fenomeno nei consumatori finali.
Uno dei casi più emblematici di queste ‘condizioni amare’ è relativo ai paesi dell’Africa occidentale, produttori di cacao; ma c’è anche lo ‘sfruttamento sotto coperta’ nel settore ittico, che registra molti casi di servitù per debiti, specie nella pesca d’altura in mezzo agli oceani, dove i controlli sono spesso difficili.
Da questa forma di sfruttamento subdola, si passa però a fatti senz’altro più eclatanti, come quelli dei “giovani sul campo di battaglia”, dove migliaia di minorenni sono impiegati nella produzione e nel traffico di armi e droga, spesso al prezzo della loro stessa vita. Fra i casi più clamorosi sono quelli di Mauritania, Mali, Brasile o Haiti; mentre la manodopera si trova “con le spalle al muro” già dalla nascita in paesi come Afghanistan, Libano e Cambogia, per cui i legami familiari e clanici impongono una subordinazione totalizzante anche nella sfera privata.
Se in certi stati come la Corea del Nord il lavoro forzato è una pratica conclamata; non è necessario andare così lontano per rintracciare forme gravi di sfruttamento illegale. Anche nella sedicente Europa ‘civilizzata’ e promotrice dei diritti umani infatti, si trova tristemente riscontro di simili derive nella prostituzione forzata, nell’asservimento per la contrazione di debiti, nell’assoggettamento alla criminalità organizzata, oppure in settori come quello agricolo, dove braccianti stranieri e autoctoni soccombono sotto il peso del massimo ribasso sui prezzi della GDO, oltre ad essere vittime di caporalato nell’indifferenza o nell’incapacità conclamata delle autorità statali di tutelare le vittime.
Come prevedibile le conseguenze di sfruttamento e lavoro forzato sono quelle legate all’emarginazione sociale e alle diseguaglianze, che a loro volta derivano per larga parte da conflitti politici fino all’instabilità statale, dalla corruzione endemica, dall’analfabetismo, dall’estrema precarietà dovuta anche a mancate tutele per settori fragili della popolazione – come ad esempio i migranti – contraddistinti da analfabetismo, scarso accesso a servizi pubblici essenziali e forti sperequazioni di reddito.
A trarne profitto sono soprattutto trafficanti internazionali legati alla criminalità organizzata, ma anche realtà imprenditoriali senza scrupoli, capaci di approntare espedienti per impedire l’emersione di questa deriva. Sia gli stati che il settore privato sono responsabili del lavoro forzato nell’economia mondiale.
Secondo i dati pubblicati nell’Atlante solo lo 0,2% dei casi globali viene perseguita legalmente, mentre ogni anno circa 150mld.$ è prodotto con l’impiego di manodopera schiavizzata e solo lo 0,08% del PIL viene destinato nei paesi OCSE alla lotta allo sfruttamento, soprattutto contro l’immigrazione o la prostituzione illegali.
Un caso molto particolare ed emblematico è quello emerso negli ultimi anni, ma consolidato da tempo, dello sfruttamento nel distretto tessile pratese in Toscana, dove forme di contratto sempre più precarie o aleatorie, combinate con un’elevata percentuale di lavoro nero, nascondono l’impiego illegale di addetti spesso poco o per niente specializzati nelle filiere di lavorazione manifatturiera. La denuncia e le mobilitazioni dei sindacati di base hanno fatto emergere questo fenomeno di abusi senza tutele sindacali o sistemi di protezione, che portano lavoratori e lavoratrici spesso immigrati e quindi più ricattabili, a lavorare anche dodici o tredici ore al giorno, fino a sette giorni alla settimana in aziende tessili contoterziste, anche legate alle grandi firme della moda.
È la nuova tendenza dello sfruttamento ‘made in Italy’ con l’instaurazione di specifiche ‘zone economiche speciali’ dove la manodopera a basso costo è in qualche modo reperibile direttamente sul posto, permettendo dunque quelle lavorazioni essenziali a garantire il marchio di provenienza.
In generale, sebbene sia piuttosto difficile comprendere le tante forme di schiavitù moderna in un’unica definizione, l’Atlante individua alcuni criteri tipici di questa deriva, come appunto la mancanza di consenso, l’uso o la minaccia di violenza e ritorsione, oltre ad una componente di sfruttamento rispetto a condizioni di lavoro dignitose. Alcune ONG come Anti-Slavery International,
Walk Free e Free The Slaves tendono a distinguere forme differenti di questa deriva, come la schiavitù contrattuale per debiti pregressi, la subordinazione proprietaria basata anche sull’origine – come ad esempio nel sistema indiano delle caste o in quello tribale dell’Africa occidentale – fino al traffico di esseri umani e al lavoro minorile, teoricamente banditi per legge ma ancora ampiamente praticati e tollerati in molte parti del mondo.
Secondo i dati raccolti da ILO questo fenomeno riguarda circa 89 milioni di persone al mondo, di cui la metà versa in condizioni di vita disumane, con il 71% del totale costituito da donne o addirittura ragazzine.
Da questo punto di vista la pandemia ha polarizzato una tendenza tristemente in fase di consolidamento, anche per effetto di quel neo-colonialismo sempre più evidente nelle relazioni internazionali fra paesi produttori e quelli consumatori di materie prime. Non esistono ricette univoche per affrontare adeguatamente la questione, che senz’altro è acuita dall’arretramento dei diritti rispetto ai profitti a livello internazionale, così come dalla crescente inadeguatezza del multilateralismo su questo fronte e dall’abdicazione di quei principi fondamentali, a volte soltanto vagamente menzionati, senza che rappresentino condizioni stringenti nei rapporti economici o diplomatici.
Info:
https://www.rosalux.de/publikation/id/45336/atlas-der-versklavung.
https://www.globalslaveryindex.org/.
Tommaso Chiti
24/11/2021 https://transform-italia.it
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