Aumenta l’emigrazione all’estero: +49,3% in dieci anni

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La più grande città italiana è all’estero. Sono 5 milioni i cittadini italiani che risiedono per ragioni di lavoro o studio fuori dall’Italia. Nel 2015 si è registrato un incremento netto di 153.532 trasferimenti (+3,3% su base annua), ma si tratta di un trend che va avanti da quasi un decennio, con lo scoppio della crisi. In questo periodo l’emigrazione italiana verso l’estero è cresciuta complessivamente del 49,3% passando da poco più di 3 milioni a oltre 4 milioni e mezzo di residenti italiani all’estero. Il dato, fornito dal rapporto annuale della Fondazione Migrantes, fa riflettere, specialmente se paragonato alla polarizzazione del dibattito sull’immigrazione verso l’Italia, e che dimostra quanto detto in varie occasioni circa la presenza di fenomeni complessi che hanno stretti rapporti con le condizioni economiche e la crisi capitalistica che stiamo attraversando.

La fotografia che emerge dal rapporto della fondazione conferma una prevalenza dei trasferimenti dal Sud Italia, ma un incremento relativo dalle regioni del nord, Lombardia e Veneto in testa. Più della metà dei nuovi emigranti sono giovani al di sotto dei 35 anni, che vanno all’estero in cerca di condizioni di lavoro migliori, per sfuggire alla disoccupazione, ai bassi livelli salariali e alla precarietà. Non è un caso che proprio in questi giorni il governo sia stato oggetto di una polemica riguardo una campagna pubblicitaria, tanto veritiera quanto sfacciata, che invitava le imprese straniere ad investire nel nostro paese, perché i lavoratori italiani costano di meno.

Ad emigrare sono varie fasce di lavoratori: si va dalle categorie senza elevati titoli di studio che vanno all’estero per sfuggire alla disoccupazione, a settori di lavoratori qualificati che emigrano per migliori condizioni salariali e prospettive, a ampie fasce di neo-laureati in cerca di lavoro. Non solo quindi “una perdita” per il Paese come detto da Mattarella a commento di questi dati, ma anche e soprattutto la base per una riflessione sul sistema produttivo italiano e l’incapacità di assumere i lavoratori che forma. Su questo giornale abbiamo più volte analizzato la natura della crisi del nostro paese, il problema della competizione internazionale nei mercati globali, la ricerca dell’incremento della produttività e della compressione salariale come soluzione temporanea per la ripresa. E’ un dato che in un’economia che imposta la propria prospettiva di ripresa sulla svalutazione del lavoro e sulla compressione salariale, che investe nella ricerca in funzione di automazione dei processi produttivi per ridurre il numero di lavoratori, e non altrettanto in ricerca applicata al miglioramento del prodotto finale, l’intero sistema di raccordo istruzione-lavoro non possa funzionare linearmente. Un’economia che decide di competere al ribasso non ha bisogno di un’istruzione elevata di massa, perché non è strutturalmente in grado di assorbire forza lavoro qualificata, per lo più intellettuale, sebbene il nostro Paese sia agli ultimi posti nelle classifiche del numero di laureati. Da qui la necessità strutturale di flussi migratori verso l’Italia per importare quel tipo di forza lavoro, dal nuovo bracciantato nei campi, agli assistenti domestici per anziani, lavoratori salariati spesso anche qualificati, e spesso anche professionisti tecnici qualificati e laureati che accettino condizioni salariali più basse, rientrando quindi nell’ottica complessiva della riduzione del costo del lavoro. E all’opposto la necessità di molti italiani di emigrare all’estero, per l’incapacità strutturale di essere inseriti nel tessuto produttivo del proprio Paese.

Il maggior livello di istruzione e le competenze in particolare indirizza l’emigrazione italiana – ma anche quella di altri paesi europei, e in parte di medio-oriente e nord africa – verso quei paesi nei quali la struttura economica, le caratteristiche produttive sono in grado di assorbire questa forza lavoro. L’immigrazione diventa quindi la forma della libera circolazione di persone nel sistema dei mercati globali, al pari della circolazione di capitali e merci e servizi (la forza lavoro d’altronde è una merce). E i flussi migratori polarizzano il lavoro sulla base della stessa concentrazione, forza e caratteristica strutturale del capitale che oggi riesce a competere in modo più dinamico alla crisi e al nuovo contesto globale in paesi come Germania e Regno Unito che sono ai primi posti anche nelle mete degli emigranti italiani.

Sempre nell’inchiesta è interessante vedere la percezione dei giovani che emigrano rispetto alle motivazioni e alla percezione del carattere transitorio o meno della loro scelta.

Solo il 15,6% lo fa per studio, e solo il 6,8% lo fa su richiesta di un’azienda nella quale lavorava in Italia. Complessivamente oltre il 60% lo fa per mancanza di opportunità in Italia o offerte di lavoro all’estero. E tra di loro solo l’11,1% ritiene molto probabile di rientrare entro 5 anni in Italia Se consideriamo che il 15,6% è all’estero per studio, e che nessun corso di studi dura più di 5 anni persino buona parte degli studenti all’estero si immagina il proprio futuro lontano dall’Italia. Nel complesso il 60% risponde che ritiene molto improbabile o impossibile il suo ritorno, e il restante 28% poco probabile. Diventa quindi difficile assumere come vere le considerazioni svolte dall’istituto della Cei che, nella presentazione del rapporto, parla di un passaggio storico da una connotazione di “migrante bisognoso a quella di migrante desiderante”. Parlare di desiderio rispetto ad esigenze che sembrano strutturali è voler indorare la pillola, abbandonandosi a sofismi e ragionamenti moraleggianti, che richiamano sempre quel carattere “romantico” connesso con una certa visione dell’immigrazione. Quello a cui assistiamo è un fenomeno, che, se certamente non speculare a casi di maggiore drammaticità del passato e che oggi rivediamo in migliaia di persone che sbarcano sulle nostre coste, non può essere derubricato a semplice condizione di “desiderio”.

La gioventù italiana è ormai convinta che nella stragrande maggioranza dei settori le possibilità di lavoro siano maggiori all’estero che in Italia. Un’intera generazione è sacrificata nel limbo di un’inversione delle prospettive strategiche del paese e di un cambiamento radicale del concetto stesso di futuro. La risposta del capitale e del governo è stata chiara. Risolvere il problema a monte limitando il numero di laureati per il futuro e legando il sistema d’istruzione superiore agli interessi diretti delle imprese: dequalificare l’istruzione per ottenere un lavoro dequalificato, abbassare tutto per abbassare i costi del lavoro e rilanciare la competitività internazionale delle nostre imprese e di tutta l’economia nazionale. Una prospettiva strategica che non risolleverà occupazione, condizioni di vita e economia in generale, ma garantirà solo boccate d’ossigeno per i grandi capitalisti. Questo è il futuro dei giovani domani. Per i giovani che hanno avuto l’ulteriore sfortuna di vivere questo presente l’alternativa è emigrare o accettare un salario da fame, magari in un settore del tutto differente da quello per cui hanno studiato per anni.

periodico La Riscossa

07/10/2016 lariscossa.com

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