AUTARCHIA DIFFERENZIATA

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L’AUTONOMIA DIFFERENZIATA, CHE INSIDIA L’UNITA’ DELLA REPUBBLICA, AUMENTA LE DISUGUAGLIANZE E NEGA IL DIRITTO ALLA SALUTE, NON DEVE PASSARE
di Loretta Mussi

L’autonomia differenziata, conseguente alla modifica del Titolo V approvata dal Centro-Sinistra nel 2001, è l’esito di un processo iniziato lontano nel tempo, con i trattati di Maastricht e di Lisbona, all’inizio degli anni ‘90 allorché l’Europa imboccò la strada del liberismo spinto: da quel momento i valori del socialismo e della solidarietà, presenti nella nostra e in altre Costituzioni, furono lasciati cadere, nella convinzione illusoria, da parte delle socialdemocrazie, di poter governare il capitalismo.
In base a tale scelta l’integrazione europea si sarebbe fatta tra regioni forti, in grado di reggere i livelli di competitività presenti a livello internazionale. Anche ora, l’obiettivo per niente recondito di buona parte delle classi dirigenti delle regioni settentrionali, è di dar vita ad una macroregione in grado di agganciarsi ai centri europei trainanti sul piano economico, a partire da quelli tedeschi. Ma in tal modo esse sottovalutano l’effettiva interdipendenza tra il Sud e il Nord del nostro Paese e sopravalutano la propria forza e solidità, come si è visto con la pandemia.

Con la deforma del Titolo V veniva ridotta la potestà legislativa dello Stato a favore di quella concorrente delle regioni, che tenderanno ad interpretarla come esclusiva. Nel nuovo testo spariscono il concetto di interesse nazionale e il richiamo a Mezzogiorno e Isole che erano presenti nel testo originario del 1948.
L’art. 116, 3 c. introduce la possibilità di poter accedere a forme particolari e ulteriori di autonomia. Se ne faranno ben presto interpreti Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna, che svolgeranno in segreto trattative con il governo di centro-sinistra presieduto da Paolo Gentiloni, che firmerà le pre-intese, sebbene in carica solo per gli affari correnti, quattro giorni prima delle elezioni del 4 marzo 2018. (1)

(1) La pubblicazione delle prime bozze era avvenuta sul sito ROARS 1 ed erano state firmate dal Sottosegretario Bressa del PD, il 27 marzo 2018, per il Governo Gentiloni. Il 16 maggio appariranno sullo stesso sito le bozze integrali di intesa sottoscritte dal Presidente del Consiglio Conte e dai governatori delle tre regioni interessate: Fontana, Zaia e Bonaccini.

Quindi, accordi fondamentali per il paese, che vanno ad intaccare la stessa Costituzione, sono stati volutamente occultati e resi indisponibili al dibattito e alla conoscenza per un anno e mezzo, quasi un “golpe”.
Le pre-intese chiedono di far passare alle Regioni quasi tutte le materie previste dall’art. 117, 3 c. precisamente 23 per Veneto e Lombardia, 15, ma consistenti, per Emilia Romagna: si tratta di materie strategiche ed importanti che coinvolgono profondamente la vita dei cittadini: scuola, università, ricerca, sanità, sicurezza sul lavoro, previdenza integrativa, ambiente, lavoro e contratti, professioni, infrastrutture, trasporti, energia, beni culturali etc.
Poi si sono aggiunte altre regioni per cui, se le richieste fossero approvate, si avrebbero 21 sistemi regionali completamente diversi, alcuni ricchi, altri poveri, ed uno Stato svuotato delle funzioni di indirizzo e governo: di fatto una frantumazione irreversibile delle strutture materiali ed immateriali alla base della collettività e dell’identità nazionale.
Le regioni, si finanzieranno trattenendo la maggior parte dei tributi erariali maturati nel proprio territorio, privando così lo Stato del fondo di solidarietà e perequazione, tratto dalle regioni più capienti, per compensare i territori meno ricchi e poveri, soprattutto al Sud. La spesa cioè non potrà cambiare stante l’obbligo dell’invarianza di spesa ai sensi dell’art. 81 della Costituzione.
Di fatto l’Autonomia Differenziata porta allo smantellamento dello Stato sociale e dei principi di uguaglianza e solidarietà, politica, economica e sociale previsti dall’art.2 della Costituzione, peraltro mai applicato. E si viola anche l’art. 5 della Costituzione per il quale i diritti devono essere universali su tutto il territorio nazionale, senza alcuna differenza di residenza, giacché la Repubblica è “una e indivisibile”.
Si sostituisce al centralismo dello stato il centralismo delle regioni, si frantuma il paese, si annullano e mortificano le autonomie dei Comuni e degli Enti di area vasta, inficiandone la possibilità e capacità di definire le politiche più adeguate alla specificità dei loro territori.
Questo processo, che rivela il miope egoismo di alcune fasce sociali e territoriali del Paese, è reso possibile dalla subalternità di una classe politica che non dimostra ormai più alcun rispetto per la Costituzione ed osservanza delle regole parlamentari, dal diffuso individualismo e dalla mancanza di solidarietà nel corpo sociale.

In questo quadro Sud e Isole rischiano una deriva irreversibile, perché partono da una situazione di svantaggio per il minor gettito fiscale e perché, soprattutto negli ultimi venti anni, a questi territori sono stati scientemente sottratti finanziamenti, si parla di 62 miliardi almeno, attraverso un iniquo calcolo della spesa storica pro-capite, calcolata sull’età media, che al Sud è più bassa, e sui servizi esistenti o zero esistenti anziché su quelli necessari.
In verità, l’art. 117 del Titolo V, prevedeva ladeterminazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”, i cosiddetti LEP, come ribadito dalla legge 42/2009 attuativa del federalismo fiscale. Ma tale determinazione non è mai avvenuta, dal 2001 ad oggi, per ragioni politiche e di convenienza: se fossero stati stabiliti, infatti, vi sarebbe stato un riequilibrio della spesa a favore del mezzogiorno e a scapito del Nord. E comunque i LEP sono livelli minimi, quindi non uniformi su tutto il territorio nazionale.
Continuando a calcolare il fabbisogno secondo la spesa storica, si ha l’esito paradossale che i comuni che non spendono, per scarsità di risorse o perché del tutto privi di alcuni servizi, in base alla spesa storica registrano fabbisogni standard inferiori, o addirittura nulli, rispetto ai territori del centro-nord e delle grandi città, dove l’offerta di servizi è ampia e diffusa sul territorio, hanno livelli di spesa più alti e quindi maggiori fabbisogni standard.
Di fatto, i finanziamenti continuano ad essere distribuiti in base alla regola “tanto hai speso, tanto ti sarà dato”, generando il paradosso che chi meno ha, meno riceve, mentre chi più ha, più riceve. Ciò ha penalizzato soprattutto il sud e quindi, soprattutto negli ultimi 10 anni, quando la crisi era più forte, si è verificato un enorme travaso dal Sud al Nord di risorse finanziarie, ma anche di risorse umane qualificate.
Un esempio lampante è dato dalla sanità, il cui definanziamento, ancora maggiore al Sud, ha prodotto un progressivo aumento della mobilità sanitaria, che ha comportato per un milione di ricoveri il drenaggio verso il Nord di quasi 5 miliardi: utili a ripianare i bilanci e i debiti delle aziende ospedaliere del Nord. Altri dati che confermano il grande furto al Sud. (2)

(2) nel 2017 la spesa media pro capite è stata 11.309 € al Sud e 14.168 € al Nord; il fabbisogno standard, 727 € procapite in Toscana e 535 in Calabria; la spesa media pro capite per gli asili nido, 1944 € in Emilia Romagna e 60 della Calabria; il fabbisogno sociale, 119 € pro capite in Emilia Romagna e 60 in Calabria.

In sintesi, già ora i Comuni poveri ricevono solo il 43% del fabbisogno reale, perché i ricchi non partecipano alla perequazione e quindi lo stato riesce a coprire solo il 22.5% del fabbisogno.
Ciò significa che funzioni fondamentali e diritti costituzionali, come istruzione, servizi sociali, trasporto pubblico locale, asili nido, polizia locale, rifiuti, nel 50% dei 6700 comuni delle 15 regioni a statuto ordinario, non sono stati svolti o lo sono stati solo molto parzialmente.
Questa, in estrema sintesi, la situazione di spesa per il Sud: se passerà l’Autonomia Differenziata Sud e isole non saranno in grado di reggere.

Se in 20 anni le cose sono andate così, la Legge Quadro proposta dal ministro Boccia, per “correggere” la proposta delle regioni del Nord, non potrà impedire che il disegno secessionista vada a termine.
Su LEP e spesa storica: nella prima bozza Boccia si prevedeva che qualora entro 12 mesi dalla data di entrata in vigore della legge di approvazione dell’intesa non fossero stati determinati i livelli essenziali delle prestazioni (LEP), gli obiettivi di servizio e i relativi fabbisogni standard, le funzioni sarebbero state comunque attribuite con decorrenza dal 1° gennaio dell’esercizio immediatamente successivo e le relative risorse assegnate, quindi, in base alla spesa storica, giacché tale riferimento non viene eliminato. Questo inciso sembra essere caduto nella seconda bozza: in realtà in nessun punto della stessa si stabilisce che la definizione dei LEP e dei costi standard deve precedere l’entrata in vigore della legge di approvazione delle intese. Quindi le intese e la legge parlamentare di attribuzione delle materie potrebbero essere approvate ed entrare in vigore nelle more dell’approvazione dei LEP. Ma, se i LEP, in vent’anni, non sono stati approvati, chi ci assicura che le Regioni li fisseranno, una volta che abbiano conseguito l’autonomia?
Sulle materie trasferite: il non aver posto alcun limite al trasferimento delle materie nella bozza costituisce un elemento di forte criticità. Sono ormai numerose le sentenze della Corte Costituzionale che hanno prodotto la ricentralizzazione di molte materie, es. le cc.dd. “materie trasversali” che investono una pluralità di materie anche di competenza regionale, come la tutela dell’ambiente, il governo del territorio, la tutela della salute (Corte cost. sent. 407/2002). Il non aver introdotto un limite nell’attribuzione alle Regioni richiedenti delle materie previste dall’art. 117, 3 c. rappresenta una modifica implicita dell’art. 117, c. 3 come se si abrogasse la categoria della legislazione concorrente con la legge di intesa, rischiando un giudizio di incostituzionalità.
Nemmeno sul Parlamento il quadro è rassicurante. Se la prima versione superava un eventuale veto alla deliberazione da parte dell’Assemblea, rimettendosi al parere delle Commissioni permanenti e della Commissione bicamerale per l’attuazione del federalismo fiscale, con la seconda bozza il parere del parlamento può essere superato mediante un parere motivato del Consiglio dei Ministri che può sottoscrivere comunque l’intesa.

Le conseguenze per la Sanità

La regionalizzazione si è dimostrata del tutto inadeguata a garantire un SSN equo, universale ed uniforme su tutto il territorio nazionale, ha prodotto gravi disuguaglianze in tutte le Regioni ed in particolare tra Nord e Sud, ha facilitato le privatizzazioni e la diffusione della sanità integrativa, ha depotenziato quando non smantellato i servizi per l’assistenza territoriale e la prevenzione. La pandemia da coronavirus è la dimostrazione viva che un servizio sanitario diviso e diverso per ciascuna Regione è esposto alla sconfitta. Quanto successo deve far riflettere anche su tutte le altre materie, per le quali le Regioni hanno chiesto l’Autonomia Differenziata.

Esse hanno praticato una gestione centralistica e meramente amministrativa delle funzioni trasferite, e non hanno dimostrato, capacità di indirizzo e di governo. Non hanno decentrato, ai Comuni nessuna delle competenze che lo Stato ha loro trasmesso nel corso degli anni, hanno spento ogni anelito di partecipazione.
Non hanno saputo affrontare i problemi di sostenibilità del sistema, che oltre a maggiori finanziamenti richiede capacità di affrontare i problemi dell’invecchiamento della popolazione, delle nuove patologie, l’aumentato fabbisogno delle tecnologie accanto al permanere di diseconomie e sprechi, che incidono per vari miliardi: di fronte a tutto ciò hanno saputo fare solo tagli lineari, hanno imposto duri sacrifici alla gente, ai servizi e agli operatori, ma non hanno saputo adottare scelte riorganizzative e funzionali.
Non hanno avuto la capacità di affrontare i problemi posti dall’evolversi delle necessità, nonostante fosse una loro competenza, non hanno saputo affrontare l’emergenza della pandemia, ciononostante continuano a pretendere totale autonomia di indirizzo e di gestione su ogni aspetto in sanità: normativa del lavoro, attività libero professionale; formazione, specializzazioni, università; sistema tariffario, rimborsi, ticket; gestione dei farmaci, anche equivalenti; patrimonio edilizio e tecnologico; ricerca scientifica; prevenzione primaria e secondaria; tutela della salute sui luoghi di lavoro; controllo alimenti; gestione ed istituzione di fondi sanitari integrativi. Hanno invece dato nuovo slancio al privato convenzionato e ai fondi integrativi, che stanno minacciando la tenuta del sistema sanitario pubblico e che potrebbero arrivare a restringerlo fortemente con un sistema multi-pilastro, in cui la salute cessa di essere un diritto, ma una merce da acquistare sulla base del reddito col risultato di crescenti disuguaglianze all’interno delle stesse regioni.

Il passaggio delle competenze sanitarie alle Regioni non ha solo destrutturato e squilibrato il SSN, ha anche indebolito culturalmente e svuotato di competenze il Ministero della Salute e il suo organo tecnico, l’Istituto Superiore di sanità, che, come già successo in primavera, anche nella seconda ondata della pandemia da Covid si stanno muovendo in ritardo con omissioni, incertezze e sbandamenti.
Non è possibile governare sulla base di principi e normative decise a livello regionale Sanità ed Ambiente il cui stato di salute influenza direttamente ed in modo potente la vita delle persone e di tutti gli esseri che abitano questa terra. Ancor meno se il privato ha una presenza superiore al 50% del sistema sanitario regionale, tanto da poterne influenzare scelte e decisioni, tra cui tagliere e smantellare interi settori del Servizio Sanitario Pubblico, come l’assistenza sanitaria di base, la prevenzione, la sanità animale e anche l’ambiente in nome del profitto.

Le criticità aumentano ulteriormente nelle regioni del Sud e nelle Isole, perché hanno un minor gettito fiscale e perché negli anni, a questi territori sono stati scientemente sottratti finanziamenti, attraverso un iniquo calcolo della spesa storica pro-capite, fatto sull’età media, che al Sud è più bassa (si va dai 2.285 euro per un cittadino che vive in provincia di Bolzano, a 1.738 euro quando ci si sposta in Sicilia) e sui servizi esistenti. Cioè, si è dato di più a chi aveva di più, e di meno a chi poco aveva; anche nella sanità si è agito con ipocrisia come già si è fatto con i LEP, giacché i LEA, incompleti e non uniformi, sono stati applicati quasi solo al Nord, lasciando le briciole al Sud.

L’Autonomia Differenziata può portare alla spaccatura del paese e alla separazione dal SUD.
Dobbiamo fermarci. Abbiamo un Servizio Sanitario Nazionale profondamente ferito. Non si può procedere come se nulla fosse successo, ora è necessario ricostituirlo sulla base dei principi fondamentali che hanno ispirato L. 833/78 e che sono stati indicati in altra parte di questa rivista.
Il Ministero della Salute va ricondotto al suo ruolo originario di programmazione nazionale, va rinforzato l’Istituto Superiore di Sanità, ricostituendo un efficiente Servizio Epidemiologico e un reale Servizio per la Prevenzione, vanno fissati per tutto il paese livelli uniformi (non essenziali) di assistenza e criteri di gestione ed organizzazione adeguati all’evoluzione della medicina e dell’assistenza, infine vanno stabiliti i relativi finanziamenti cominciando dal recupero di quelli sottratti. Sulla base dei principi, livelli e criteri definiti in modo omogeneo per tutti i territori, alle Regioni spetterà l’articolazione dei servizi regionali, affiancate dai Comuni e dalle Comunità Territoriali, le cui competenze in materia di sorveglianza in campo sanitario vanno ricostituite, recuperando quel ruolo di rappresentanza e partecipazione che da 75 anni è loro negato, benché previsto nella Costituzione.

Ora, nel mezzo della seconda ondata pandemica, mentre il tracciamento dei positivi è fuori controllo e molti ospedali chiudono il pronto soccorso, il Governo ha presentato una nuova proposta di Legge Quadro di Autonomia Differenziata allegandola al DEF 2020

Riteniamo questo fatto gravissimo. Pur non avendola visionata, sulla base delle notizie filtrate, non dovrebbe essere molto dissimile dalla precedente. Pertanto, alla luce delle condizioni economiche e sociali del paese, del forte scollamento che ancora si sta manifestando tra Governo e regioni, dell’aggravarsi dell’epidemia da Covid-19, chiediamo di:

A. Ritirare le bozze d’intesa firmate Il 28 febbraio 2018, poco prima delle elezioni, tra le Regioni che per prime avevano chiesto l’autonomia – Lombardia, Veneto, Emilia Romagna – ed il Governo Gentiloni, con cui si pretendeva il trasferimento alle regioni di ben 23 materie (quasi tutte, salvo l’Emilia Romagna che ne chiedeva 10) e il ritiro di qualunque schema d’intesa preliminare, nel frattempo, intervenuto. Tale rifiuto deve essere rafforzato dalla consapevolezza che quasi tutte le regioni hanno presentato analoghi progetti e che il conferimento dell’autonomia differenziata parte da un accordo tra governo e singole regioni.

B. Ritirare la proposta di legge quadro allegata al DEF 2020 e sospendere ogni trattativa in corso tra Governo e Regioni sull’AD. Oltre alle argomentazioni avverse nel merito a tale provvedimento – che si colloca come eversivo per il rispetto dei fondamentali principi costituzionali e dell’assetto istituzionale stesso – riteniamo che la priorità assoluta oggi, data la situazione epidemica, sanitaria ed economica, vada attribuita alla messa in sicurezza del Paese dal punto di vista sanitario e attraverso una strategia unica tra Governo e regioni, che garantisca identici diritti e opportunità su tutto il territorio nazionale.

C. Predisporre un piano di finanziamenti e d’interventi che progressivamente porti il Mezzogiorno a superare l’enorme divario con il Centro-Nord. Tale obiettivo è del tutto incompatibile con la pretesa delle regioni di finanziarsi trattenendo la maggior parte dei tributi erariali, il cuore della loro richiesta di autonomia differenziata. Finanziamento e fabbisogno vanno calcolati non sulla base della spesa storica, che ha contribuito a penalizzare il Sud, sottraendo una quantità enorme di risorse, ma con l’obiettivo di garantire prestazioni uniformi su tutto il territorio nazionale, che non è quello minimale che si vuole determinare con i LEP, come da proposta governativa.

D. Mantenere indirizzi e competenze di carattere legislativo e programmazione dei finanziamenti a livello centrale al fine di garantire indirizzi e sviluppo omogenei su tutto il territorio. Va superato ogni centralismo statale ma anche regionale e vanno attuate le autonomie locali, potenziando quelle dei comuni, secondo lo spirito previsto dall’Art. 5 della Costituzione. Le regioni hanno il compito di articolare gli indirizzi e le disposizioni dello stato in collaborazione con i Comuni.

E. Contrastare le disuguaglianze fra i territori, attraverso un piano strategico di rifinanziamento delle aree che in tutti questi decenni sono state depredate e svalorizzate, privandole di risorse e strutture di base, dotandole oltre che delle infrastrutture necessarie, dei servizi indispensabili per il vivere civile. Questo presuppone che vi sia una collaborazione ed un sostegno significativo da parte di quelle aree del paese che finora si sono avvalse per il proprio sviluppo proprio delle carenze del sud.

Tali disuguaglianze, già enormi nel paese, si aggraverebbero con l’applicazione dei LEP – Livelli essenziali di prestazione – previsti nel collegato al DEF 2020, nell’ambito del progetto di AD. La sperequazione nell’attribuzione dei finanziamenti si aggraverebbe attraverso la trattenuta della maggior parte dei tributi erariali, che tra l’altro, non entrerebbero in alcun fondo di perequazione come, ancora, succede, anche se in modo esiguo, perché il fondo è volutamente tenuto basso per volontà delle regioni del Centro-Nord, che hanno sempre frenato sui trasferimenti di danaro richiesti dai meccanismi del fondo perequazione per il sud. Inoltre, l’autonomia differenziata prevede che il finanziamento delle funzioni attribuite avvenga, non più sulla base dell’iniquo criterio della spesa storica, ma del fabbisogno standard per il finanziamento dei livelli essenziali (Art. 117, Titolo V). Il metodo dei LEP, tuttavia, per come calcolato, risulta essere altrettanto iniquo, perché i Livelli Essenziali di Prestazione (LEP) e Livelli Essenziali di Assistenza (LEA), rappresentano il minimo e non sono calcolati in modo uniforme su tutto il territorio, soprattutto a danno del Sud. Inoltre il loro calcolo e attuazione presenta grandi difficoltà, mai superate in 20 anni. Se i LEP non sono stati attuati con la regionalizzazione introdotta dal Tit.V perché dovrebbero esserlo con l’AD che sancisce l’esistenza delle differenze, sulla base del trattenimento delle entrate?

F. Intervenire con le seguenti proposte di modifica sulla SANITÀ

La Sanità rappresenta il terreno in cui il regionalismo introdotto dalla modifica del Titolo 5, ha anticipato in modo sensibile il progetto di autonomia differenziata. La pandemia ha reso evidente Il fallimento di tale scelta, con l’esistenza di 21 sistemi sanitari diversi, in competizione tra loro e con lo Stato. Ora Il SSN va rifondato e ricostruito su nuove basi e deve concorrere ad eliminare le disuguaglianze nel paese che la pandemia ha approfondito.
Anche Confindustria e apparati economici vogliono ricostruire il Sistema sanitario, poiché hanno realizzato che le gravi perdite subite sono ben superiori ai costi necessari per mantenere una Sanità funzionante. Ma mentre noi chiediamo di ritornare ad un sistema pubblico, loro puntano all’estensione del privato. Ci opponiamo a ciò perché non è possibile conciliare le esigenze del profitto con quelle della salute. Ciò è risultato evidente nel corso della pandemia, allorché, su pressione di Confindustria, in determinate aree almeno il 50% delle attività produttive son rimaste aperte determinando le note tragedie della Val Seriana e delle provincie di Bergamo e Brescia.
La sanità non può essere un capitolo di spesa pubblica da saccheggiare per pagare il debito e per affrontare le emergenze economiche, se mai è una leva di sviluppo da sostenere, visto che assorbe solo il 6,6% del PIL, e ne produce circa l’11%. Si individuano le seguenti priorità nel medio e lungo termine.

a. Ricostruire un Servizio Sanitario Nazionale unico e unitario secondo i principi stabiliti dalla L.833/78: universalità, equità e uguaglianza
Ciò comporta la sostituzione di un assetto sanitario basato sull’approccio individuale e privatizzato della malattia con un sistema basato sulla programmazione, la prevenzione e la partecipazione.
Il SSN deve inoltre costituirsi intorno alla unitarietà tra prevenzione, cura, riabilitazione e reinserimento sociale e al coordinamento tra protezione della salute e tutela ambientale.

b. Rivedere la normativa in essere in materia di salute e organizzazione sanitaria che ha accelerato le scelte aziendaliste ed il rafforzamento del privato.
Dismettere la scelta aziendalista. La normativa successiva alla L.833/78 ha portato attraverso i D. Lgs 502/1992 – Controriforma De Lorenzo – (stesso anno in cui l’Europa, col Trattato di Maastricht, abbraccia la scelta ultraliberista), e 517/1993, alla trasformazione di USL e grossi ospedali in aziende (ASL e AO).
La scelta aziendalista ha limitato fortemente l’assolutezza del diritto alla salute, ponendo obiettivi improntati a logiche di efficienza, produttività, pareggio di bilancio, per cui il diritto alla salute è stato condizionato dalla spesa e dal mercato, quando non da interessi illeciti. Ha inoltre accelerato l’introduzione del privato.
Ridimensionare il privato, che ormai rappresenta oltre il 50 % rispetto al pubblico, sia come numero di servizi/strutture sia come spesa sostenuta dal pubblico. E’ costituito dalle strutture private accreditate, da numerosi ed importanti servizi esternalizzati – amministrativi, logistici e privati -, dalla sanità privata integrativa, in realtà sostitutiva. Il privato non avrebbe ragion d’essere se il pubblico fosse adeguatamente finanziato, e non avrebbe convenienza ad operare se criteri di accreditamento e controlli fossero stringenti. I servizi esternalizzati, che causano sprechi e corruzione, vanno ricondotti all’interno. Vanno disincentivati gli strumenti di privatizzazione occulta (fondi sanitari integrativi, welfare aziendale). Vanno resi più severi i criteri di accreditamento e i controlli. Vanno superati i pagamenti di tasca propria (Ticket e altre forme di partecipazione) che incentivano la sanità integrativa.

c. Rivedere quantità e distribuzione dei finanziamenti necessari al SSN.
Oltre alla restituzione degli oltre 37 miliardi scippati al SSN nel suo complesso in meno di 10 anni va ricalcolato il fabbisogno reale non sulla base della spesa storica che penalizza fortemente il Sud e le isole, ma valutando le reali necessità di tutte le regioni del Sud. Il Gap esistente ammonta a moltissimi miliardi e richiederà anni per essere superato al fine di attuare quel principio di perequazione finora tradito. In tale contesto i cosiddetti LEA (Livelli Essenziali di Assistenza), vanno ricondotti ad essere Livelli Uniformi di Assistenza, cioè uguali ed omogenei su tutto il territorio, come previsto dalla L.833/78, e vanno depurati da tutte quelle prestazioni inutili ed inappropriate, che sono imposte dalle varie lobby, e che contribuiscono a fare la fortuna della sanità privata ed integrativa. Il finanziamento deve avvenire attraverso la fiscalità progressiva generale.

d. Rafforzare gli organici del personale ed eliminare il precariato.
Avviare in collaborazione con l’Università un piano di assunzione di medici specializzati/formazione, infermieri, tecnici ed altre figure professionali, che preveda la stabilizzazione dei precari per colmare il vuoto degli organici determinatosi in 13 anni di blocco di turn-over, considerando che entro il 2025 andranno in pensione 53.000 medici e che, allo stato attuale, mancano complessivamente oltre 50.000 operatori.

e. Ricostruire la sanità territoriale, che deve poggiare sui servizi di assistenza sanitaria, sociale e riabilitativa di base, i Servizi di Igiene Pubblica e Prevenzione, i Servizi per la tutela e sicurezza sui luoghi di lavoro e i Consultori, in gran parte smantellati, dotandoli delle figure professionali necessarie e della strumentazione idonea. Alla ricostituzione della sanità di base territoriale va data priorità e deve essere perseguita nell’ambito del SSN, con finanziamenti pubblici e non attraverso convenzioni con gruppi e cooperative private. In questo contesto vanno riorganizzate le cure primarie da affidare a medici di famiglia, che dovrebbero passare alle dipendenze del SSN.

f. Rivedere l’organizzazione ospedaliera, prevedendo diversi livelli d’intensità e complessità, l’integrazione dei dipartimenti e la continuità con le cure territoriali. Va programmata nel tempo la distribuzione uniforme degli ospedali specialistici e ad alta intensità di cura tra Nord, Centro e Sud per bloccare la mobilità sanitaria che sottrae miliardi di risorse al Sud, favorendo i ceti più abbienti e costringendo gli altri a grandi sacrifici. Se i servizi territoriali ed ospedalieri funzionano e sono tra loro integrati non è necessario aumentare di molto i posti letto.

g. Ricostruire la prevenzione primaria e collettiva
La prevenzione primaria si era sviluppata, nei primi anni di applicazione della L. 833/78 in alcune regioni, soprattutto in quelle poi maggiormente colpite dalla pandemia, attraverso i Servizi di Prevenzione, che cercavano di coniugare tutela della salute e tutela dell’ambiente. Con l’istituzione del Ministero dell’ambiente e nonostante l’accresciuta consapevolezza dei gravissimi traumi arrecati ad ambiente, natura e alla nostra stessa vita, non vi è mai stata collaborazione tra i Ministeri della Salute e dell’Ambiente: è necessario realizzarla e prevederla nel SSN.
La prevenzione collettiva e di comunità avviene nei luoghi di vita e di lavoro, nelle scuole, nelle comunità e riguarda le attività di diagnosi precoce, promozione della salute, profilassi delle malattie infettive etc. In questo contesto ricostruire una rete epidemiologica nazionale.

h. Liberare la sanità animale dai condizionamenti del mercato e del profitto
Vanno potenziate e rinnovate cultura, formazione ed organizzazione della sanità animale e dei servizi veterinari, per far fronte ad un sistema prevalentemente costituito da grandi allevamenti intensivi, dove gli animali sono mantenuti in condizioni di sovraffollamento innaturali, sottoposti ad ingrasso ed alimentati con antibiotici e sostanze chimiche. Questo è inaccettabile perché gli animali sono esseri viventi che soffrono e patiscono come noi e perché, in condizioni innaturali e di stress ambientale, come si è visto, virus e batteri possono fare il “salto di specie” invadendo altre specie animali e l’uomo, i cui sistemi immunitari faticano a raggiungere un equilibrio (tolleranza) con essi. È quindi necessario ridurre gli allevamenti animali intensivi che portano alla distruzione di ampie parti del pianeta e delle stesse popolazioni come in Amazzonia.

i. Realizzare un polo pubblico di ricerca e produzione farmacologica, reattivi di laboratorio, dispositivi biomedicali e di protezione individuale.
E’ essenziale realizzare un’industria pubblica del farmaco e imprese per la produzione di reattivi di laboratorio, dispositivi biomedicali e di protezione individuale he vanno considerate priorità strategiche per il paese. Esse vanno programmate e realizzate coinvolgendo, anche in un quadro europeo, le strutture del Servizio Sanitario Nazionale e quelle militari, già deputate alla produzione di farmaci. Se le avessimo avute avremmo sicuramente affrontato meglio la pandemia.

j. Recuperare la partecipazione di Comuni e Comunità locali
La tragedia del coronavirus ha svelato la carenza di preparazione scientifica, il venir meno di una cultura di sanità pubblica e la superficialità con cui media e presunti scienziati hanno trattato gli argomenti attinenti l’epidemia, ma anche la mancanza di una conoscenza diffusa circa la salute nella popolazione. Va quindi riscoperta l’importanza della conoscenza come bene pubblico e anche come garanzia di democrazia. La salute, come altre condizioni del nostro vivere non è solo un affare da ‘esperti’, ma richiede anche la messa in comune delle conoscenze delle persone: quindi vanno garantite nei territori forme di partecipazione, per affiancare le istituzioni nel promuovere la salute, come era previsto dalla 833/78

Loretta Mussi

Medico Servizio Sanitario Pubblico

Collaboratrice di Lavoro e Salute

Analisi pubblicata sul numero di novembre del mensile Lavoro e Salute

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