AUTONOMIA DIFFERENZIATA: COSA POTREBBE SUCCEDERE IN SANITA’
L’art. 116, terzo comma, della Costituzione prevede la possibilità di attribuire alle Regioni a statuto ordinario “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” (c.d. “regionalismo differenziato” o “regionalismo asimmetrico”) sulla base di un’intesa tra lo Stato e le Regioni che ne facciano richiesta. Firmata l’intesa, al Governo spetta formulare il relativo DDL di ratifica che dovrà quindi essere approvato dalle Camere con maggioranza assoluta.
L’autonomia differenziata è la formula coniata per dire che alcune regioni possono chiedere al governo di normare autonomamente su alcune questioni che sinora sono state appannaggio dello Stato. Sul tema si sono prodotti numerosi studi[1], interventi[2] tecnici e politici e si sono espressi anche giudizi a forte contenuto etico come avvenuto con espressioni del tipo “secessione dei ricchi” oppure “fine della solidarietà”.
La prospettiva di chi scrive è quella del medico pubblico che per la gran parte della sua carriera ha operato al sud. Non è quindi il punto di vista di un economista e neppure di un politologo. La questione include molteplici competenze e ricadute, peraltro non tutte ancora prevedibili, come pare di capire leggendo i numerosi interventi degli ultimi anni. Si rimanda a questi studi chi volesse meglio comprendere l’argomento che rischia – su questo è unanime il parere dei critici – di approfondire il divario già esistente tra Nord e Sud.
In ambito sanitario la possibilità di modificare norme riguardanti il personale sanitario potrebbe determinare un accentuarsi della migrazione di medici, infermeri e tecnici sanitari nelle regioni più ricche del nord (oltre che in altri paesi europei che garantiscono stipendi più elevati a queste figure e condizioni di lavoro professionalmente più gratificanti). Si deve inoltre osservare che quanti a sud lanciano l’allame, hanno prodotto fiumi di letteratura sul tema (si pensi a Viesti, Villone, Forges Davanzati solo per citare alcuni accademici meridionali), mentre la difesa delle tre regioni più ricche del nord che hanno avanzato domanda per usufruire di questo istituto (Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna) è per lo più svolta sul piano politico e rivolta all’interno delle loro regioni per annunciare che sta per finire il tempo in cui le tasse pagate al nord servivano, in parte, per ridurre le distanze dal sud. Argomento che ovviamente parla molto bene alla pancia di certo elettorato settentrionale. Si ha inoltre l’impressione che il dibattito al nord sia molto meno diffuso e capillare rispetto al sud.
Così come la possibilità di ampliare a dismisura il ricorso all’assistenza integrativa, cioè le asscurazioni sanitarie private, oggi inserite anche in molti contratti di lavoro con l’espressione di “welfare aziendale”, mentre da un lato migliora le possibilità di diagnosi e cura di una parte dei lavoratori che ne usufruiscono, dall’altro riduce il finanzamento del SSN perché l’assicurazione viene garantita a scapito di risorse destinate alla fiscaltà come l’Irpef, la principale fonte di sostentamento del servizio pubblico.
Si registra, poi, uno scostamento tra la comunicazione istituzionale dei servizi sanitari delle regioni meridionali e la realtà che ogni giorno sperimenta che vi opera, realtà fatta di scarsità di personale, ritardi negli approviggionamenti, apparecchature inutilizzabili oppure obsolete con conseguenti ritardi nel rinnovamento tecnologico. Qualche spiraglio in campo tecnologico si sta vedendo ora dopo il Covid19 (verrebbe da dire, con una bestemmia, grazie al Covid19!) attraverso il PNRR. Mentre ancora si attende di capire dove e come saranno spesi i Fondi Europei Strutturali Regonali del periodo 2021-2027.
Nonostante l’Europa abbia molto aiutato l’emersione dall’arretratezza non solo sanitaria di molte aree anche del sud Italia, i divari con il nord si sono accresciuti. Un indicatore significativo è l’attesa di vita pù bassa al sud di cira tre anni (Trentino 84 anni, Campania 81 anni) ed il continuo flusso di pazienti che si spostano verso nord per le cure più impegnative e più costose come le chirurgie per tumori, ma non solo. Si tratta di milioni di euro che i servizi sanitari meridionali perdono a vantaggio di quelli settentrionali con conseguenze negative comprensibili per i primi. E’ un bel dire quello della migliore qualità della vita al sud, propaganda e ideologia delle classi dominanti parassitarie per mascherare la povertà dei servizi collettivi.
Il clima ideologico di questi decenni, complessivamente contrario alla spesa pubblica[3] con norme rigidissime anche sulla spesa sanitaria, controllata attraverso meccanismi che spaziano dalla ridotta erogazione centrale a divieti normativi su assunzioni e acquisti, a “minacce” di decadenza dei direttori generali brandendo la spada, sempre spaventosa, dell’interpello alla magistratura contabile, al netto dei fenomeni corruttivi che non hanno confini geografici, costituisce un ulteriore ostacolo per una rimonta del sud. Al nord c’è una tradizone di maggiore attenzione sociale ai servizi pubblici da parte della popolazione, c’è una spesa storica in sanità che si è cristallizzata ed anche una propensione del sistema imprenditoriale e bancario e indirizzare le sue liberalità verso l’assistenza e la ricerca sanitarie. Inoltre la sanità è vista come un fattore di sviluppo economico. Tutto ciò nonostante i servizi pubblici abbiano subito forti ridimensionamenti anche al nord e molte prestazioni siano state esternalizzate.
Si azzarda qui una ipotesi a mo’ di interrogativo: che la autonomia differenziata sia lo strumento per aggirare l’imperativo neoliberista della compressione della spesa pubblica lasciando fare alle regioni più ricche quello che lo Stato, per via dei trattati e degli accordi europei non può più fare? Ovviamente ne beneficeranno le regione che hanno un maggior gettito fiscale.
Maurizio Portaluri
15 giugno 2024 http://www.salutepubblica.net
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