Autonomia differenziata e LEP, la secessione è evitabile

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di Loretta Mussi e Franco Russo

La manifestazione del 7 ottobre promossa da una vasta rete di associazioni, comitati, movimenti territoriali, con al centro la CGIL, ha segnato una svolta nelle vicende politico-sociali del paese: centinaia di migliaia di persone sono confluite, con due grandi cortei, a Piazza San Giovanni per dimostrare contro il Governo di destra, che persegue politiche liberiste in campo economico e reazionarie in quello dei diritti, siano essi civili o politici, con misure contro i e le migranti e con intimidazioni e pressioni poliziesche per impedire lo sviluppo di conflitti sociali. L’autonomia differenziata (AD) è stata la scintilla dell’iniziativa La strada comune – Insieme per la Costituzione, perché essa, a ragione, era stata individuata come un tema espressivo dell’insieme delle politiche governative di smantellamento dei principi della Carta del ’48, di cui cancella di fatto le disposizioni degli articoli 5, 3 e 2 e quindi sicura causa dell’esacerbazione degli squilibri territoriali e delle disuguaglianze sociali. L’AD viola l’articolo 5 perché mina l’unità e l’indivisibilità della Repubblica, si noti il termine ‘Repubblica’, con cui si fa riferimento all’unità e indivisibilità dei/delle cittadini/e, soggetti dei diritti civili, politici e sociali; viola l’articolo 3 perché, attraverso i LEP – sciaguratamente introdotti dalla ‘riforma del Titolo V (art.117, comma 2, lettera m) – si mira a ridurre per tutti i cittadini, ovunque residenti, i livelli di fruizione dei diritti sociali che invece le disposizioni dell’art. 3 vogliono finalizzati al superamento degli ‘ostacoli di ordine economico e sociale’ affinché ogni persona possa svilupparsi perseguendo i propri interessi, valori e scelte di vita; viola l’articolo 2 perché annulla i ‘doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale’ richiesti a ogni cittadino/a dalla Repubblica.

Purtroppo nel corso dell’estate la CGIL ha modificato il senso della manifestazione contro l’AD, con l’intento di ampliarne l’orizzonte ma anche diluendo la forza d’urto contro il ddl 615, predisposto dal ministro Calderoli. La manifestazione del 7 ottobre è finita con l’essere uno strumento della CGIL nel suo contenzioso con il governo Meloni, occasione comunque per la protesta sociale e politica. La questione dell’AD è stata ben presente nel corteo e molti cartelli e striscioni, non solo dei Comitati contro ogni AD, sono stati ben visibili fino sotto il palco.Con la revisione del Titolo V della Costituzione del 2001, i governi D’Alema e Amato cercarono di fermare l’ascesa leghista e la vittoria elettorale del centrodestra – tentativo fallito, con il risultato grave di utilizzare la Costituzione per risolvere conflitti squisitamente politici e di capovolgere, con la revisione, la gerarchia delle fonti come stabilita nella Carta del 1948. Con la legge 3 del 2001 di revisione costituzionale si è lasciata allo Stato la competenza esclusiva nelle materie enumerate nell’articolo 117, secondo comma, predisponendo al terzo comma un confuso elenco di materie a competenza concorrente che negli anni ha alimentato ricorsi a non finire alla Corte costituzionale per conflitti di attribuzione, e devolvendo infine la competenza legislativa residua alle Regioni.

Con il terzo comma dell’art. 116 si è prevista la possibilità di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia in ben 23 materie (di cui tre di competenza esclusiva statale); si è introdotto all’articolo 118 il principio di sussidiarietà orizzontale legittimando a livello costituzionale i processi di privatizzazione dei servizi pubblici indispensabili per la fruizione dei diritti sociali; si è infine abrogato il terzo comma dell’art. 119 della Carta del 1948, che impegnava lo Stato ad assegnare ‘per legge a singole Regioni contributi speciali’, al fine di ‘valorizzare il Mezzogiorno e le Isole’. Con la revisione del Titolo V la ‘questione meridionale’ è stata cancellata per legge, pur persistendo nella realtà.

Il 15 marzo 2023 il Consiglio dei ministri ha varato il disegno di legge sull’autonomia differenziata (ddl 615), che, dopo la firma di autorizzazione del presidente della Repubblica Mattarella, ha iniziato il suo iter parlamentare. Gravi sono le lesioni che il ddl Calderoli apporta alla Costituzione e ai diritti fondamentali in essa prescritti. Si sostiene, da parte del presidente della Regione Veneto Luca Zaia e dello stesso ministro Calderoli, che il ddl attua le prescrizioni dell’articolo 116 terzo comma della Costituzione, che, come sopra ricordato, prevede la possibilità di attribuire alle Regioni a statuto ordinario ‘ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia’ concernenti ben 23 materie.
Se si considera che le materie di legislazione concorrente, dunque devolvibili, comprendono la sanità, la tutela e la sicurezza del lavoro, l’alimentazione, il governo del territorio, la ricerca scientifica e l’innovazione tecnologica, la protezione civile, le grandi reti di trasporto, l’energia, i porti e gli aeroporti, le casse di risparmio e le aziende di credito a carattere regionale ecc., e che le tre materie di competenza esclusiva dello Stato riguardano l’organizzazione della giustizia di pace, le norme generali dell’istruzione e la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali, è evidente che la devoluzione priverà il Parlamento di competenze di primaria importanza.

Poiché tra di esse vi sono materie attinenti alla fruizione dei diritti fondamentali, il ddl Calderoli è un vero e proprio piano eversivo volto a dividere la Repubblica: darà luogo infatti a ulteriori divari territoriali, ma anche a maggiori disuguaglianze sociali a causa dell’erogazione dei servizi pubblici differenziati a secondo se si risiede in regioni prospere o arretrate. In ogni Regione italiana i livelli essenziali di prestazione (LEP) accentueranno le disparità sociali, perché stabiliranno livelli minimi di erogazione dei servizi pubblici cosicché chi è ricco potrà ricorrere al mercato privato, si veda la sanità, e chi è povero dovrà accontentarsi di più bassi livelli dei servizi. Di questa regressione sociale erano ben coscienti gli stessi legislatori dell’infelice riforma costituzionale del 2001, come l’ha definita G. M Flick (presidente emerito della Corte costituzionale), tanto che al comma 2 lettera m, dell’articolo 117 Cost., previdero appunto che fosse necessario, prima di avviare i percorsi regionali di autonomia differenziata, determinare i LEP concernenti i diritti civili e sociali che ‘devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale’.

In parallelo al suo disegno di legge sull’autonomia differenziata, il ministro Calderoli ha ottenuto con la legge di bilancio (n. 197/2022, art. 1 commi 791-801 bis) di avviare i lavori per la determinazione dei LEP da parte di una Cabina di regia presso la Presidenza del Consiglio, coadiuvata da organismi tecnici come il SOSE e il CINSEDO, a cui si è aggiunta la CLEP, da emanare poi con DPCM (cioè con decreti del Presidente del Consiglio). Queste disposizioni sono palesemente incostituzionali, in quanto lesive del comma 2 dell’articolo 117 che affida alla legislazione esclusiva statale la competenza a definire i LEP. Per questo la I Commissione del Senato ha riscritto completamente l’articolo 3 del ddl 615, disponendo che la determinazione dei LEP avverrà attraverso decreti legislativi, rimettendo così in gioco il Parlamento chiamato a dettare i principi e i criteri direttivi della legge delega e a dare il suo parere sui decreti legislativi (secondo il dettato dell’articolo 76 Cost.).

Tuttavia il nuovo articolo 3 invece di migliorare peggiora il quadro. Infatti esso afferma che il Governo è ‘delegato ad adottare, entro ventiquattro mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi, sulla base dei principi e criteri direttivi di cui all’articolo 1, commi da 791 a 801-bis, della legge 30 dicembre 2022, n. 197’. Uscendo dai geroglifici legislativi: i principi direttivi non saranno prescritti attraverso una legge-delega del Parlamento in quanto sono già contenuti nella legge di bilancio per il 2023. Ha dell’incredibile questa disposizione perché il Parlamento, prima che venisse modificato l’art. 3 del ddl 615, avrebbe già dettato principi e criteri direttivi della delega legislativa.

Esaminando la legge di bilancio si scopre che i livelli necessari – ‘quale soglia di spesa costituzionalmente necessaria che costituisce nucleo invalicabile per erogare le prestazioni sociali di natura fondamentale’ – devono rispettare ‘i rapporti finanziari tra lo Stato e le autonomie territoriali, per favorire un’equa ed efficiente allocazione delle risorse collegate al Piano nazionale di ripresa e resilienza … il pieno superamento dei divari territoriali …’. Bastano questi riferimenti per poter determinare i livelli essenziali dei diritti sociali? I diritti sociali non possono dipendere dagli equilibri finanziari: essi sono diritti soggettivi, che la Repubblica è chiamata a garantire. Gli altri commi della legge di bilancio sono di natura organizzativa e in più in contraddizione con la scelta dei decreti legislativi perché si afferma che, se la Cabina di regia non termina i suoi lavori entro sei mesi, sarà il Presidente del Consiglio chiamato a determinare i LEP, mentre ora l’articolo 3 della legge 615 afferma che è il Governo a essere chiamato a emanare i decreti legislativi! Un pasticcio procedurale incredibile.

E non è finita, perché la Commissione Bilancio del Senato ha voluto che venisse inserito un ultimo comma, l’11, che afferma: ‘Qualora, successivamente alla data di entrata in vigore della legge di approvazione dell’intesa, in materie oggetto della medesima, i LEP, con il relativo finanziamento, siano modificati o ne siano determinati ulteriori, la Regione e gli enti locali interessati sono tenuti all’osservanza di tali livelli essenziali subordinatamente alla corrispondente revisione delle risorse relative ai suddetti LEP secondo le modalità di cui all’articolo 5». Dunque, a prevalere nello stanziamento delle risorse necessarie per la fruizione dei diritti sociali, saranno sempre i vincoli di bilancio. L’esperienza dei Livelli Essenziali per l’Assistenza, i LEA conferma la nostra valutazione.

l LEP- Livelli essenziali di prestazione (sociale)

Mentre i LEA sono stati in qualche modo individuati anche se realizzati poco e male, i LEP, in 23 anni, non sono stati né individuati né realizzati se non per materie secondarie – da ultimo nella legge di bilancio 2022. Ciò è avvenuto per ragioni economiche ma anche per ragioni di fattibilità tecnica, dato che nell’erogazione dei servizi sociali non si possono stabilire a priori livelli standard, essendo molto numerose le variabili che intervengono rendendo impossibile una loro sintesi in una valutazione quantitativa standard.

I LEP, pensati come livelli essenziali, sono, di fatto, livelli minimi, cioè insufficienti e non sono uniformi: il che vuol dire che non ci saranno finanziamenti adeguati ai bisogni – è stato lo stesso ministro ad affermare che i LEP saranno determinati ad invarianza di spesa. Pur tralasciando che i LEP saranno stabiliti a livelli minimi, anche a livelli di spesa immutati permarranno e anzi si aggraveranno squilibri territoriali e disuguaglianze. Infatti, con l’AD solo alcune Regioni avranno la possibilità di finanziare livelli di prestazioni sia pur minimi, cioè le tre – Veneto, Lombardia, Emilia-Romagna – che hanno chiesto per prime l’AD e che hanno bilanci e disponibilità erariali sufficienti, mentre la maggioranza delle Regioni, tutte quelle del Sud e quelle con un insufficiente gettito erariale non potranno far fronte a tale spesa. Proprio a causa del silenzio sulla questione delle risorse, si sono espressi criticamente esponenti della Commissione per la definizione dei LEP (CLEP), per questo dimessisi, e i rappresentanti di importanti istituzioni quali la Commissione europea, il Servizio Bilancio del Senato, l’Ufficio parlamentare di bilancio, la Banca d’Italia, l’ANCI, l’UPI e la stessa Confindustria: tutti mettono in dubbio la possibilità di determinare i LEP senza risorse aggiuntive.

Da ultimo il Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, ha manifestato forti critiche. Si rileggano alcuni passi della lettera di dimissione dei quattro componenti dalla Cabina di regia: ‘Prima di attribuire nuovi compiti, funzioni e corrispondenti risorse finanziarie ad alcune Regioni, è necessaria la determinazione di tutti i LEP attinenti all’esercizio di diritti civili e sociali e la definizione del loro finanziamento, secondo i principi e le procedure dell’art. 119 della Costituzione. E siccome le risorse disponibili sono condizionate dai vincoli di bilancio (art. 81 della Costituzione), è evidente che la determinazione dei LEP richiederà una valutazione complessiva dei LEP che il Paese è effettivamente in grado di finanziare, e non materia per materia, perché ci si troverebbe alla fine nella condizione di non potere finanziare i LEP necessari ad assicurare l’esercizio dei diritti civili e sociali nelle materie lasciate per ultime. Valutazione che spetta al Parlamento come risulta evidente non solo per il dettato dell’art. 117.2 (competenza legislativa esclusiva), ma anche perché spettano al Parlamento le scelte fondamentali sull’allocazione delle risorse pubbliche’.
D’altronde, proseguono i membri del CLEP, ‘non è mai stato fatto un lavoro di comparazione complessiva dei LEP con le risorse finanziarie, per definire i livelli essenziali effettivamente assicurabili a tutti, senza discriminare nessuno o creare insostenibili oneri per la finanza pubblica’.

L’Ufficio di Bilancio del Senato segnala che in caso di trasferimento alle Regioni di un consistente numero di funzioni ora svolte dallo Stato (e delle relative risorse
umane, strumentali e finanziarie),‘ci sarebbe una forte crescita del bilancio regionale ed un ridimensionamento di quello statale, col rischio di non riuscire a conservare i livelli essenziali delle prestazioni presso le regioni non differenziate. Le regioni più povere, oppure quelle con bassi livelli di tributi erariali’.

La critica più forte, qualcuno dice il colpo di grazie ai LEP, è quella di Ignazio Visco, Governatore della Banca d’Italia, che sta per terminare il suo mandato e che fa parte del CLEP. Egli scrive una lettera per analizzare e criticare le bozze circolate contenenti un primo elenco di 223 LEP e la determinazione dei criteri per la loro selezione e classificazione. In primo luogo afferma che sono oscuri i criteri di scelta tra le materie LEP e non LEP con la conseguenza che nelle materie non presidiate dai LEP si può dar corso sin da subito ai negoziati per il trasferimento di funzioni e risorse alle Regioni che ne facciano richiesta: cioè queste materie sono immediatamente devolvibili. Inoltre l’indeterminatezza finanziaria che permea i documenti fa prevedere il perpetuarsi delle disuguaglianze tra territori, soprattutto al Sud, che hanno prodotto iniquità e frenato lo sviluppo del Paese.

La seconda critica riguarda i LEP effettivi che, nella maggior parte dei casi, egli afferma,‘sono formulati in termini troppo generici in buona parte riconducibili a mere dichiarazioni di principio’. Ne deriva che il contenuto delle prestazioni rimane in larga parte indeterminato, e che lo stesso CLEP ‘ha un mandato limitato volto ad una mera ricognizione della legislazione vigente, senza entrare nel merito delle funzioni operative e delle implicazioni finanziarie’. La vaghezza nel metodo di selezione e di definizione del contenuto dei LEP effettivi ha conseguenze di rilievo sulle prestazioni da garantire sul territorio e sui costi che rischiano di restare indeterminati. Ci sono anche ‘ricadute politiche significative poiché quanto più sono circoscritti i LEP effettivi e quanto più vaga è la loro selezione tanto più numerose sono le funzioni negoziabili in sede di richiesta di AD da parte delle Regioni’. Praticamente viene liquidato tutto il lavoro che stanno facendo Cabina di regia e CLEP.

Poiché in oltre 20 anni i LEP non sono stati definiti, per lo svolgimento dei servizi si è fatto ricorso, alla spesa storica. Laddove le capacità fiscali non erano adeguate sarebbe dovuto intervenire il fondo di solidarietà comunale per colmare la differenza tra fabbisogno e capacità.
Nel Titolo V, articolo 119, si era infatti prevista, accanto alla individuazione dei LEP, la perequazione fiscale: ‘la legge dello Stato istituisce un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante’, destinando risorse aggiuntive laddove necessario.
Attraverso la perequazione fiscale, le risorse dovevano essere suddivise tra comuni ricchi e poveri secondo principi di solidarietà. In realtà questo non è avvenuto per la resistenza delle Regioni più ricche che hanno voluto, in base a presunti residui fiscali, trattenere risorse che andavano invece ridistribuite su scala nazionale. In questo modo si sono cristallizzate le differenze preesistenti, non solo tra Nord e Sud del Paese, ma anche tra aree depresse e aree più avanzate dello stesso Centro-Nord.

La determinazione dei fabbisogni standard è stata affidata alla SOSE, società pubblica partecipata da MEF, e alla Banca d’Italia, che ha usato criteri e calcoli accessibili solo agli iniziati, poco trasparenti e a dir poco truffaldini. Le risultanze di questi lavori hanno del paradossale: i Comuni che non spendevano a causa della scarsità di risorse o perché del tutto privi di alcuni servizi, che dunque avrebbero avuto bisogno di maggiori risorse, in base alla spesa storica registravano fabbisogni standard inferiori, o nulli, rispetto ai Comuni più ricchi. Questi ultimi, con ampia offerta di servizi e ampi livelli di spesa, registravano fabbisogni standard maggiori, e dunque erano legittimati a continuare ad avere maggiori risorse rispetto a quelli più poveri. Un modo davvero paradossale di interpretare l’aforisma ‘hai e ti sarà dato’, che il Vangelo riferisce ai beni spirituali mentre le Regioni ricche intendono quelli materiali, la ‘vil moneta’!

In base a questi marchingegni i finanziamenti sono stati quindi distribuiti in base alla regola ‘tanto hai speso, tanto ti sarà dato’, con il risultato paradossale – ripetiamo –che chi meno aveva, meno riceveva, e chi più aveva più riceveva. Così è stato con tutti i governi senza che le opposizioni protestassero. Anzi si è verificata un’acquiescenza bipartisan nel salvaguardare i livelli di finanziamento delle Regioni ricche e nel lasciare al loro destino le Regioni povere, tutte del Sud. ll risultato è che oggi i Comuni ricevono solo il 43% dei fabbisogni reali; la perequazione copre solo il 22.5% della differenza tra fabbisogno e capacità fiscale dei Comuni; la capacità dei Comuni in totale ammonta a 8 miliardi.
Ciò significa che funzioni fondamentali, come istruzione, servizi sociali, trasporto pubblico locale, asili nido, polizia locale, rifiuti, cioè diritti di rango costituzionale, non sono svolte o lo sono parzialmente nel 50% dei Comuni italiani.

La situazione che abbiamo di fronte è grave. I LEP in oltre 20 anni non sono stati realizzati. Le risorse sono andate ai Comuni amministrativamente più attrezzati in grado di attivare determinati servizi; mentre i territori che non li avevano non hanno ottenuto alcuna risorsa aggiuntiva per attivarli. Facciamo notare che la capacità amministrativa non è una dote naturale dipendendo dalle risorse che è possibile stanziare per assumere personale, e per di più specializzato, ma in un decennio di tagli alla spesa pubblica e a quella comunale in particolare, c’è stato un crollo delle capacità della PA che le Regioni più ricche in parte hanno attenuato. In ogni caso ha funzionato la regola del ‘tanto hai speso, tanto ti sarà dato’. Da tutto quanto detto i LEP non potranno essere né individuati né realizzati. Se passerà l’AD, e ci siamo vicini, le Regioni ricche si terranno tutti o quasi i soldi delle tasse e le casse dello Stato resteranno pressoché vuote, tuttavia anche nelle Regioni ricche si avranno abbassamenti dei livelli dei servizi pubblici, e solo i ricchi potranno godere, ricorrendo ai servizi privati, di più elevati livelli di prestazione.

E’ urgente trovare le risorse (secondo SVIMEZ dai 90 ai 100 miliardi di Euro), per risolvere il vero problema dell’Italia: quello delle enormi disuguaglianze, in primis al Sud, che vanno superate prima di avviare qualsiasi processo di autonomia differenziata e prima che l’unità della Repubblica si rompa; più che salvaguardare i LEP, bisogna sanare le differenze territoriali e le disuguaglianze sociali.
Il Parlamento deve fermare la discussione del DDL Calderoli, deve riflettere sulle conseguenze devastanti della secessione dei ricchi, e se proprio si vogliono individuare i LEP tutto l’iter procedurale deve essere riportato in Parlamento e tra i cittadini sopprimendo la Cabina di regia, e gli annessi organismi tecnocratici, varati con la legge di bilancio 197/2022 .

L’aspetto più rilevante che inficia in modo inemendabile il percorso dei LEP è la mancanza di procedure democratiche partecipate, che si ispiri al brocardo medievale di ascendenza romana: ‘ciò che tocca tutti, da tutti deve essere deciso’. Noi riteniamo che essi debbano essere il frutto di un vasto e continuamente aggiornato dibattito pubblico, che siano insomma necessari strumenti di democrazia discorsiva (Habermas) perché siano i cittadini a definire quali debbano essere i livelli delle prestazioni necessari a garantire i loro diritti sociali.

Loretta Mussi e Franco Russo

Comitato nazionale NO AD

Comitati nazionali contro Ogni Autonomia differenziata

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