Autonomia Differenziata. Feudi, cortigiani e sudditi a servizio

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di Loretta Mussi

Tavolo nazionale del Comitato contro l’Autonomia Diffferenziata

Il progetto dell’autonomia differenziata riscrive completamente l’Italia, decostruisce lo Stato centrale, lo rende un moncherino e crea delle super regioni che non esistono in nessuna parte del mondo. Con competenze e poteri di veto su materie che vanno dall’istruzione alle infrastrutture, dalla sanità all’energia (…)

Così scrive Gianfranco Viesti sul Quotidiano di Puglia del 20 gennaio 2023. E questo è quello che effettivamente avverrà, se, dopo l’approvazione dell’ultimo DDL Calderoli nel Consiglio dei Ministri del 3 febbraio, si faranno le intese per l’autonomia differenziata (AD), regione per regione, portando ad un insieme di statarelli in competizione tra loro, tenuti insieme da un non-Stato o Stato minimo. L’AD è ormai vicinissima, anche se ci sono ancora vari passaggi, tra cui quello con la Conferenza Stato-Regioni e col Parlamento che, tuttavia, non avrà alcuna possibilità di incidere. La Lega ha ottenuto il risultato che voleva per presentarsi “vittoriosa” alle prossime elezioni regionali in Lombardia, sperando così di rialzare le sue sorti, dopo la débâcle delle ultime elezioni. Con questa approvazione la Meloni e il suo partito avranno il via libera sul Presidenzialismo: in cambio avranno un paese spaccato, ma forse, è quello che volevano anche loro.

Attraverso questo scambio vergognoso si è avviato, hanno dichiarato i sindaci del Sud, il processo di decomposizione dell’Unità d’Italia.
Sta comunque cominciando a crescere la mobilitazione, anche se in modo ancora molto ridotto rispetto alla gravità che l’AD rappresenta per l’integrità del paese e per i diritti fondamentali delle persone. Bisogna ora intensificare la nostra azione affinché non ripartano le trattative per le intese Stato regioni che si svolgeranno con ogni singola regione richiedente l’AD. E’ lì che sarà concessa l’autonomia. Come ha illustrato, infatti, recentemente il costituzionalista Massimo Villone, non è il DDL che concede l’autonomia ai sensi dell’Art. 116, 3° comma. Quella approvata, infatti, è solo una legge ordinaria che indica i percorsi, i limiti e i vincoli all’interno dei quali si attuerà la trattativa tra Stato e singola Regione e che vale per tutte le regioni. Il percorso si concluderà solo con l’intesa tra Governo e singola regione, cioè con una legge rinforzata che definirà per ogni regione l’autonomia ad essa spettante. La prima può essere facilmente abrogata/modificata con una legge ordinaria successiva o tramite referendum; la seconda può essere abrogata/modificata solo con una nuova intesa su iniziativa della regione, e non può essere sottoposta a referendum, per cui di fatto è irreversibile.

Il DDL approvato conferma tutte le proposte precedenti, anzi le aggrava:

a) Innanzitutto si conferma l’emarginazione del Parlamento. Le camere non possono infatti emendare alcunché né delle proposte presentate né delle intese tra Governo e regioni in quanto i suoi pareri non sono vincolanti. Anche sui Livelli essenziali delle prestazioni (LEP), di cui si parla al punto successivo, Il Parlamento è consultato ma escluso da ogni modifica e determinazione finale nonostante la Costituzione affidi alla competenza legislativa dello Stato, cioè del Parlamento e delle assemblee elettive, tale compito. Così come non ha alcun potere d’intervento sul trasferimento di risorse umane e finanziarie alle regioni. Sono esclusi da ogni forma di consultazione reale anche i Comuni. Non si tiene in alcun conto la democrazia interna alle istituzioni e tra le istituzioni stesse: al centralismo dello Stato subentra il centralismo delle regioni, il Parlamento è completamente esautorato.

b) Individuazione – determinazione dei Lep e Costituzione. Si afferma all’Art.1 2° comma del DDL che per ciascuna regione l’autonomia è consentita subordinatamente alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP) concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, (art. 117 della Costituzione). Non si dice che la determinazione deve essere del Parlamento.
Ma chi ha scritto questo DDL ha già dichiarato che se i Lep non si faranno si procederà ugualmente con l’autonomia. E’ infatti probabile che non saranno finanziati neppure questa volta nonostante che il Ministro Calderoli abbia fatto la mossa di prevederne l’individuazione nella legge di bilancio con una procedura accelerata che, entro il dicembre del 2023, dovrebbe portare alla determinazione dei LEP con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (DPCM), e non con legge dello stato.

Ciò è confermato anche nel DDL approvato, dove si afferma che il trasferimento delle funzioni, con le relative risorse umane, strumentali e finanziarie, concernenti materie o ambiti di materie riferibili ai Lep potrà essere effettuato, soltanto dopo la determinazione degli stessi Lep e dei relativi costi e fabbisogni standard (……) e che le risorse umane, strumentali e finanziarie necessarie per l’esercizio da parte delle Regioni di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia saranno determinate da una Commissione paritetica Stato-Regione: si mente sapendo di mentire.

Ammesso che si riesca a determinare in un anno ciò che non si è determinato in oltre 20 anni, tale modo di procedere va contro la Costituzione che affida alla competenza legislativa dello Stato e al Parlamento il compito di individuare e determinare con legge quali prestazioni e quali livelli essenziali devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. Oltre all’esclusione del Parlamento, anche l’adozione finale tramite Decreto del Presidente del consiglio (DPCM), rappresenta un fatto di dubbia costituzionalità, non essendovi gli estremi della necessità ed urgenza.

C) La questione dei LEP (e dei Lea). I Lep, come i Lea, erano stati introdotti dal nuovo titolo V° della Costituzione allo scopo di garantire alle Regioni le risorse necessarie per l’esercizio delle nuove competenze trasferite dallo Stato, per evitare differenziazioni e disuguaglianze tra le stesse, ma soprattutto per evitare ulteriori divaricazioni tra Nord e Sud. Erano certo assolutamente insufficienti, in quanto essenziali, cioè minimi: ma erano il primo passo per rispondere alla necessità di superare le gravissime disuguaglianze nel paese, e ancora, il primo passo verso prestazioni che fossero eque ed uniformi su tutto il territorio. Ciononostante non sono stati mai individuati né finanziati, e sono passati più di vent’anni.

Il tempo necessario per la loro individuazione è indicato in meno di un anno. La qual cosa è impossibile perché i LEP richiedono una lunga mappatura, tempo e quantificazione delle risorse necessarie, che non ci sono, o meglio, che non si vogliono trovare: c’è quindi da dubitare che vadano in porto visto che riguardano servizi sociali, asili e scuole, trasporti e mobilità sia interna che esterna ai comuni. Si tratta di materie di non poco peso e che richiedono spese ingenti, che finora non sono state mai quantificate per evitare di dover finanziarle. Di fatto l’autonomia verrà data senza i LEP, ma ricorrendo, come si è fatto finora, alla forma più iniqua di finanziamento, cioè alla spesa storica, per cui chi ha avuto fin qui di meno, continuerà ad avere di meno, e chi ha avuto di più avrà ancora di più.

Avverrà inoltre attraverso i contributi erariali raccolti centralmente ma riferiti ai territori o attraverso la compartecipazione del gettito IRPEF centrale, riferito alla regione: si tratta di una vera e propria appropriazione di poteri, per poi distribuire le risorse come si vuole.

Le differenze tra i territori e soprattutto tra Nord e Sud diverranno ancora più profonde e devastanti, la discriminazione del Centro-Sud diverrà irrecuperabile. Questo non sarà un problema per le ragioni del Nord (Emilia Romagna, Lombardia, Veneto), quelle che avevano avviato le trattative 5 anni fa. A loro il finanziamento sarà assicurato tramite le ingenti somme trattenute tramite l’AD. La proposta iniziale del Veneto era infatti di trattenere il 90% delle tasse e dei tributi delle regioni a Statuto Ordinario nei loro rispettivi territori. Applicando tale trattenuta alle tre regioni che per prime hanno fatto richiesta della AD, secondo la Rivista Economica del Mezzogiorno, su 751 miliardi di bilancio annuale dello Stato ne verrebbero a mancare 190,5 che entrerebbero nel bilancio di Veneto (41,2 miliardi), Lombardia (106,3 miliardi) ed Emilia Romagna (43 miliardi). Probabilmente ci sarà una trattenuta inferiore, sempre comunque cospicua e tale da incidere pericolosamente sul bilancio dello Stato. Se poi tutte le altre regioni richiedessero l’AD, lo Stato resterebbe senza bilancio, inconsistente e inesistente.

Succederebbe che solo nelle regioni del Centro-Nord, e forse nemmeno in tutte, la popolazione potrebbe usufruire dei diritti sociali e civili, mentre l’altra metà della popolazione ne sarebbe priva, violando in modo palese il principio di uguaglianza previsto dall’Art.3.

d) Non sarà finanziato neppure il fondo di perequazione: è assolutamente irragionevole non dotarsi di un programma di investimenti per poter finalmente superare il divario strutturale che esiste tra Nord e Sud e individuare i LEP in modo uniforme su tutto il territorio. Il problema si è posto da diversi anni, ma l’unica strada presa in considerazione, per rifiutarla subito, è stata quella di togliere alle regioni che hanno di più per dare a quelle che hanno di meno: tale strada era evidentemente impercorribile. Tutti i governi che si sono succeduti avrebbero dovuto prevedere nel corso degli anni delle risorse aggiuntive per portare anche il Sud ai livelli del Nord, e per aumentare il fondo di perequazione, ma questo non è stato fatto e non verrà fatto neppure questa volta: secondo lo Svimez servirebbero almeno 100 miliardi di Euro. A questo proposito c’è un esempio che dice molto: nel fondo per la perequazione strutturale erano previsti 4,6 miliardi di euro per iniziare a colmare i divari tra Nord, Centro e Sud nella dotazione di autostrade, ferrovie, acquedotti, ospedali. Da due anni questi soldi giacciono inutilizzati e non si sa che fine faranno.

Un altro esempio ci viene dalla rivista ROARS, che pubblica un articolo sul crescente divario tra Nord e Sud per gli asili comunali, in cui viene citata parte della trascrizione di una seduta della Commissione parlamentare di attuazione del federalismo fiscale di cui era Presidente Giancarlo Giorgetti. In tale occasione avviene il seguente dialogo tra Giorgetti e la Direttrice del Dipartimento finanze del MEF: «Sicuramente avrete nel vostro sistema la capacità di produrre questo tipo di dati, per cui vi pongo la seguente domanda. Se applicassimo non il 20 per cento, ma il 100 per cento della perequazione e non stabilizzassimo al 45,8 per cento, quale sarebbe l’effetto di una perequazione piena del sistema che abbiamo così faticosamente costruito? I dati probabilmente sarebbero scioccanti, magari ce li fate avere in modo riservato o facciamo una seduta segreta, come avviene in Commissione antimafia.» Questa è la gente con cui abbiamo a che fare.

Per concludere una nota su alcune delle materie statali di cui potrà essere fatta richiesta di trasferimento. In totale sono 23; qui si riportano quelle più significative rispetto ai diritti e alla tenuta dello Stato.

L’istruzione e la scuola costruiscono e garantiscono l’identità comune del paese; molto di quello che siamo, di come pensiamo, di come vediamo il paese, di come ci indirizziamo culturalmente ci viene dalla scuola e a questo punto rischia di perdersi. Mentre l’attribuzione alle regioni della competenza sulle norme generali sull’istruzione si scontra di nuovo con la Costituzione che all’art. 33 stabilisce: “La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione”. Si è già aperto inoltre lo scontro sulla differenziazione delle retribuzioni degli insegnanti al Nord e al Sud, che, se avvenisse riporterebbe alle gabbie salariali. (pericolo anche per gli altri contratti). La scuola, come la sanità, ha bisogno di investimenti sia strutturali che sul personale; da parte di tutti i governi le risposte sono state scarse o assenti. Quindi ci sarà, anche per questo settore una accelerazione della privatizzazione.

Nella sanità, già la pandemia aveva certificato il fallimento dei Servizi sanitari regionalizzati, soprattutto nelle regioni richiedenti l’AD e con i residui fiscali più alti, rendendo evidente la necessità di un recupero almeno parziale dello stato. Finora il Servizio Sanitario Nazionale, che, almeno formalmente, è improntato, a principi di universalità, equità e solidarietà, per cui tutti i cittadini, indipendentemente da origini, residenza
e censo devono essere curati allo stesso modo con oneri a carico dello stato ha tenuto, ma ora è allo stremo e rischia di essere cancellato aprendo le porte alla privatizzazione.

Già ora abbiamo 21 Servizi sanitari diversi, perché il Titolo V° ne ha dato facoltà anche senza ricorrere all’Art. 116. Ma con l’AD ogni Regione sarà svincolata da qualsiasi obbligo centrale e potrà deciderne l’organizzazione in base alle risorse disponibili da suddividere con tutte le altre materie. Essendo prevedibile che le risorse non bastino, entreranno ancora di più in campo assicurazioni, fondi integrativi e sanità privata: la salute sarà una merce e non più un diritto mentre la privatizzazione avanzerà.

Le politiche energetiche, stanno incontrando difficoltà che si sono accentuate con la guerra in Ucraina. Non solo, l’Italia, anche se in ritardo, deve dotarsi di fonti energetiche pulite. E’ abbastanza ovvio che le trasformazioni cui L’Italia sta andando incontro vanno affrontate a livello sovranazionale e con attori non solo italiani. E va programmata una strategia che possa essere applicata in modo uniforme su tutto il territorio nazionale.

Allo stesso modo, come si fa a regionalizzare infrastrutture strategiche come ferrovie, autostrade, porti e aeroporti, che sono indispensabili proprio per superare i divari territoriali? E per connettere all’Europa l’Itali intera, non solo le ragioni del nord?

Alcuni autonomisti ritengono che anche i rapporti politici/commerciali con l’Unione europea e a livello internazionale, possano e debbano essere gestiti dalle regioni singole o associate. Ciò era difficile anche solo pochi anni fa ma ora, di fronte ai mutati scenari unica nelle diverse regioni. Sono tali e tanti gli interessi, pubblici e privati, che si vanno a toccare con la prevenzione primaria, che essa deve essere guidata da una robusta volontà centrale che faccia da guida e dia indicazioni certe e valide per tutti i territori.
L’autonomia differenziata, oltre ai diritti fondamentali per la vita dei i cittadini mette a rischio anche la loro identità. Ci sono materie, infatti, che passando dalla competenza statale a quella regionale possono non avere ricadute immediate sui diritti delle persone, ma geopolitici, l’Italia deve presentarsi come un paese unito e compatto, non come un paese che si sta sgretolando.

Non ci sarebbero più politiche del lavoro nazionali, ma la suddivisione regionale della contrattazione con possibili differenziazioni salariali territoriali, di fatto nuove gabbie salariali e disuguaglianza tra i lavoratori, che sarebbero molto indeboliti e ricattabili. Oltre a ciò sarà maggiormente a rischio la Tutela della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro vista la variabilità delle norme da regione a regione e visto che le attività di vigilanza sarebbero non di rado soggette a forme di pressione in base ad interessi estranei alla salute.

La Prevenzione primaria e la Tutela dell’ambiente. Oggi si riconosce che esseri umani–animali–ecosistemi sono interconnessi. Fare prevenzione primaria significa quindi intervenire su: ambiente, processi produttivi, trasformazioni urbanistiche, politiche abitative e trasporti, sulle diverse matrici ambientali, negli ambienti scolastici, di vita e di lavoro, nelle situazioni di degrado, etc. allo scopo di affrontare i rischi per la salute umana e degli ecosistemi. Le problematiche da affrontare sono complesse e non si fermano certo ai confini regionali. Quindi l’approccio non può che essere multidisciplinare, secondo una programmazione condivisa e partecipata e secondo una metodologia unica nelle diverse regioni. Sono tali e tanti gli interessi, pubblici e privati, che si vanno a toccare con la prevenzione primaria, che essa deve essere guidata da una robusta volontà centrale che faccia da guida e dia indicazioni certe e valide per tutti i territori.

L’autonomia differenziata, oltre ai diritti fondamentali per la vita dei i cittadini mette a rischio anche la loro identità. Ci sono materie, infatti, che passando dalla competenza statale a quella regionale possono non avere ricadute immediate sui diritti delle persone, ma avere effetti disgregatori sulla comunità, sulla conservazione dei suoi beni storici e andare ad incidere sul senso di appartenenza e di unità del Paese: sono tali la tutela del patrimonio culturale, storico artistico, paesaggistico, ambientale.

Con l’approvazione da parte del Consiglio dei ministri del DDL sull’Autonomia differenziata si è fatto un primo passo sulla strada della divisione del Paese, rimettendo in causa, consapevolmente, diritti fondamentali ed universali che sono uguali per tutti e tutte, l’esistenza della Repubblica uscita dalla Liberazione e i principi fondanti della Costituzione.
Con l’attribuzione alle regioni di ben 23 materie, Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia si assumono la responsabilità di frantumare il paese e di invitare alla violazione della Costituzione e dei principi di uguaglianza tra tutti i suoi cittadini, in parte per calcoli elettoralistici e di bottega, in parte per convinzione. Questo è solo l’assaggio di ciò che ci aspetta.

Questa è anche la risposta per chi si illudeva di poter limitare il danno attraverso il dialogo, magari facendo leva sulle contraddizioni delle forze di governo.

Nel paese comincia a diffondersi tuttavia una diversa sensibilità. I costituzionalisti, ma anche il mondo della cultura e del giornalismo, questi ultimi finora colpevolmente silenti, cominciano ad alzare la voce.
Benché la maggioranza, per ora, appaia compatta, questo scellerato progetto può essere fermato, anche se non in Parlamento, a cui sono state legate mani e piedi: ci vuole una mobilitazione di massa, che porti in piazza non solo le cittadine e i cittadini, ma anche quelle forze politiche e sindacali che finora non si sono mosse.
Bisogna fare di tutto per far ritirare questo DDL prima che sia troppo tardi.

Loretta Mussi

Medico Sanità Pubblica. Collaboratrice di Lavoro e Salute

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