Autonomia differenziata, le ragioni del NO

Autonomia differenziata, le ragioni del NO

Col dibattito sulla autonomia regionale differenziata, i due alleati di governo da un lato si dimostrano fedeli cani da guardia degli interessi del capitale e dall’altro fanno emergere tutte le contraddizioni esistenti nel gioco della politica nel momento in cui, al di là di slogan e consensi elettorali, c’è bisogno di attuare misure antipopolari dettate dalle necessità dell’accumulazione di profitto in crisi.

Su questo giornale ci siamo già occupati in passato di tale tematica (leggi qui,qui,qui equi), essendoci schierati apertamente per il NO all’epoca del referendum consultivo tenutosi in Lombardia e in Veneto, denunciando come l’intero arco politico fosse compattamente schierato per il SI (Lega -promotrice- assieme a tutti i partiti di destra ma anche a PD e 5stelle) e al contempo come la larga parte della “sinistra d’alternativa” si fosse mantenuta su posizioni inerti, optando per una campagna di astensione attiva anziché per il NO e ponendosi, in tal modo, innocuamente e mansuetamente alla coda dei partiti padronali.

A distanza di pochi mesi e ora che il governo del paese è passato saldamente in mano a forze reazionarie e populiste, la questione della realizzazione formale dell’autonomia differenziata sottoscritta dal passato governo Gentiloni nel febbraio 2018 si ripropone sulla scorta di una finta contrapposizione tra la Lega, storica promotrice del tema propagandato al Nord come attuazione della tanto agognata secessione, e il Movimento 5 Stelle che, appurato di avere un forte bacino elettorale al Sud e di essere in crisi di consensi, si mostra per tali ragioni titubante su una manovra di fatto penalizzante per tutte le altre regioni italiane.

Come già sottolineato, l’autonomia differenziata o autonomia rafforzata di LombardiaVeneto e Emilia-Romagnarappresenta una sorta di “secessione dei ricchi” dal momento che queste tre regioni da sole fanno il 40% del Pil del paese. Con questa riforma, le locomotive d’Italia puntano ad accaparrarsi una quota maggiore del c.d. “residuo fiscale”, vale a dire della differenza (che in quelle regioni è positiva) tra le entrate fiscali e tributarie prelevate in quei territori e le risorse che in quei territori vengono spese dalle pubbliche amministrazioni. Il conseguente “reinvestimento nei servizi”, come sostengono i leghisti, dei 30 miliardi recuperabili con l’autonoma gestione delle risorse altro non è che la solita, ridicola menzogna prodromo dello smantellamento dei servizi (alias privatizzazioni) e non del loro rafforzamento. Uno specchietto per le allodole che oscura il vero obiettivo della riforma, che è quello di vedersi riconosciute ex lege prerogative e competenze indispensabili per una maggiore integrazione all’interno dei circuiti produttivi, commerciali e finanziari dell’Europa che conta e quindi per il consolidamento del loro primato nel belpaese.

I maggiori ritmi di crescita di queste regioni rispetto alle altre, la maggior concentrazione del capitale e del progresso tecnologico, hanno già portato Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna ad essere di fatto molto più simili e integrate alla Baviera che alla Calabria (se non altro da un punto di vista economico). Ne consegue la necessità di svincolarsi sempre più dai lacci costituzionali attualmente vigenti e che ancora le ancorano allo Stato e alle altre regioni italiane tramite una ripartizione di competenze e una condivisione di risorse che non è più funzionale allo sviluppo del capitale europeo e transnazionale di cui sono parte costitutiva e quindi non più funzionale al loro proprio sviluppo ed al suo mantenimento.

Ecco il motivo per cui entra nel dibattito politico italiano in maniera prepotente e, potrebbe dire, a cose ormai fatte, la necessità di pervenire ad un regime differenziato per queste regioni, che attui concretamente lo scaricamento delle zavorre e gli lasci mano libera anche nei rapporti internazionali e con l’Ue [1].

È del tutto ovvio che la rappresentazione che si fa di questa realtà è in parte una vulgata propagandistica, poiché si inserisce e resta in piedi solamente all’interno di un contesto politico e culturale in cui si è stati abituati a pensare che un Paese (o una regione, un’azienda, una persona) sia ricca per bontà e virtù proprie e non grazie alla depredazione delle risorse altrui: l’accaparramento da parte delle imprese lombarde, venete e emiliano-romagnole delle risorse del resto d’Italia, a partire dallo sfruttamento della forza-lavoro proveniente dal sud (d’Italia e del mondo) e costretta alla migrazione. D’altra parte avremmo già dovuto imparare a chi hanno giovato le emigrazioni in massa di italiani all’estero (che non cessano affatto) e il caporalato che, oltre ai braccianti africani pagati 2 euro l’ora, non risparmia neanche gli italiani, come Paola Clemente, la bracciante pugliese morta di fatica nei campi quattro estati fa. Senza considerare il ricorso agli aiuti del tanto vituperato Stato-centrale ogniqualvolta la crisi morde.

Esattamente come l’Unione europea è una organizzazione di interessi tali per cui i Paesi maggiormente ricchi possono arricchirsi ancor di più giovandosi della deindustrializzazione di intere aree del continente, dello scambio ineguale con le zone meno sviluppate e dell’utilizzo di manodopera a basso costo proveniente da tali aree, egualmente l’autonomia serve ad agevolare sempre di più e con ogni mezzo le regioni italiane già ricche a discapito delle altre. E l’obiettivo è sempre lo stesso: arricchire i ricchi impoverendo i poveri.

L’autonomia differenziata è un meccanismo che va ad inserirsi meravigliosamente all’interno di un simile contesto e a soddisfare le necessità in questione, di modo tale che, anziché “staccarsi” e realizzare una inutile e anacronistica indipendenza politica, Lombardia, Veneto e Emilia-Romagna continuerebbero a operare nel contesto nazionale ed europeo attraverso la stessa dinamica esistente attualmente ma con più fluidità. La gestione economica della Regione sarebbe resa autonoma senza “inutili sprechi” di denaro, potendo, però, avvalersi di vaste e comode aree di smercio dei propri vantaggiosi prodotti (il resto d’Italia e d’Europa) e dell’utilizzo di forza-lavoro qualificata formatasi nelle scuole e nelle università del Sud Italia, ad esempio, e costretta a emigrare a Nord (o all’estero, come già attualmente accade) nelle cui aree produttive avviene l’estrazione del plusvalore, ingenerando dunque una spirale per cui neanche un atomo di plusvalore deve essere “sprecato” per innalzare le regioni destinate a mera fornitura di risorse.

L’aver sostenuto a gran voce durante il referendum consultivo del 22 ottobre 2017 l’inutilità dello stesso, degradato a mera iniziativa grottesca della Lega, mentre, tuttavia, tutte le forze padronali agivano di fatto in appoggio all’autonomia differenziata, dimostra purtroppo ancora una volta la grande e sconfortante miopia di quel che rimane della sedicente sinistra in Italia, barricata nei propri teatri a sognare Europe diverse o lacerata in dibattiti interni sterili, incapace di analisi e azioni incisive nella realtà delle cose che, volenti o nolenti, oggi sono totalmente determinate dal nemico di classe pressoché senza ostracismi, al netto di frettolose e disorganizzate reazioni dell’ultimo momento.

Non si tratta di negare il valore dell’autonomia territoriale né di fare digressioni di natura giuridica, utili solamente a chi confida illusoriamente nel diritto borghese come strumento di difesa degli oppressi. Al contrario, la regionalizzazione differenziata deve essere ostacolata in un’ottica di classe da tutti i lavoratori (disoccupati, studenti, pensionati) ed in generale dalle classi subalterne in quanto profondamente contraria ai nostri interessi.

Se questa riforma venisse attuata, l’ulteriore arricchimento delle aree del Nord sarebbe accompagnato da un drastico impoverimento non solo del Sud, che pagherebbe a caro prezzo ulteriori ed inevitabili tagli alla spesa sociale, ma anche degli stessi lavoratori “padani” ancora più divisi dagli altri lavoratori dalle nuove “gabbie” (salariali e non solo) che si andranno costruendo. La burocrazia, poi, lungi dal ridursi, aumenterebbe, vedendosi quella statale affiancata da quella locale “rafforzata” nella sua sottomissione ai diktat del grande capitale e senza alcuna possibilità di determinare i “programmi e controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali” che il ben più forte Stato centrale ha lasciato lettera morta non essendo funzionali allo sviluppo capitalistico.

I lavoratori e le classi popolari del Nord, dunque, da tale riforma non possono trarre alcun giovamento dal momento che ci troviamo all’interno di un sistema che si fonda sullo sfruttamento del lavoro dei subalterni, dal quale gli operai “padani” non sono certo dispensati. Tanto che la Lombardia è in testa per numero di richieste del reddito di cittadinanza.

Note:

[1] L’articolo 117 della costituzione dice: “Sono materie di legislazione concorrente quelle relative a: rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni; commercio con l’estero; tutela e sicurezza del lavoro; istruzione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale; professioni; ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi; tutela della salute; alimentazione; ordinamento sportivo; protezione civile; governo del territorio; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia; previdenza complementare e integrativa; coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali; casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale. Nelle materie di legislazione concorrente spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei princìpi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato”. Secondo l’articolo 116 della costituzione le regioni possono chiedere allo Stato “condizioni particolari di autonomia” che sono decise attraverso un’intesa con lo Stato che poi deve essere approvata con una legge votata a maggioranza assoluta dalle Camere. Lombardia e Veneto hanno chiesto l’autonomia su tutte e 23 le competenze concorrenti. L’Emilia-Romagna si è fermata a 15.

Redazione

17/03/2019 www.lacittafutura.it

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