AUTONOMIA DIFFERENZIATA, QUESTA SCONOSCIUTA. CHI LA VUOLE, CHI LA CONTRASTA

La macchina infernale dell’autonomia differenziata corre a folle velocità. Al volante c’è il ministro Calderoli, che guida spericolatamente nella nebbia dell’informazione e all’insaputa di gran parte dei cittadini/e che saranno travolti/e dalle conseguenze della sua ostinazione e dalle responsabilità di coloro che negli anni hanno consentito che si arrivasse a questo punto.

In ballo è l’unità e la tenuta del Paese, le condizioni di vita e il futuro di milioni di persone.

Il DDL “Per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario”, dopo la firma di Mattarella, è stato incardinato nei lavori del Senato e inizierà il suo iter parlamentare. 

Il Ministro prevede di completare il percorso entro l’anno, in modo che le intese fra lo Stato e le Regioni che intendono accedere alle forme di autonomia possano essere attuate subito, appena conclusa la procedura per la definizione dei LEP (livelli essenziali delle prestazioni), cioè i diritti sociali e civili minimi che dovrebbero spettare ad ogni cittadino/a.

Tutto lineare? Niente affatto!

La norma costituzionale prevede che i LEP debbano essere riservati alla legislazione statale e che siano “garantiti su tutto il territorio nazionale”. Al contrario, nella procedura inserita furbescamente nella Legge di Bilancio 2023, si prevede una mera “definizione” e non “garanzia” dei LEP, che verrebbero sbrigativamente definiti da una “cabina di regia”, che si avvale di una Commissione tecnica di nomina ministeriale, che dovrebbe formulare “ipotesi tecniche” sui costi e fabbisogni standard (23 materie e 500 funzioni!) entro 6 mesi. Nel caso non si rispettino questi tempi, verrebbe nominato un Commissario che – in un mese! – dovrebbe terminare l’iter, che si concluderebbe con l’emanazione di DPCM, cioè di meri atti amministrativi. Il Parlamento è fuori da un processo che decide della nostra vita: scuola, salute, lavoro, mobilità, ambiente, alimentazione, infrastrutture …. . In altre parole: si sta procedendo alla più drammatica riforma dello stato sociale nel nostro Paese appaltandola ad un gruppo di “esperti” di nomina esclusivamente governativa, nella totale e arbitraria cancellazione delle prerogative dell’organo fondamentale della Repubblica parlamentare: il Parlamento, appunto.

Se il DDL Calderoli venisse approvato e i LEP determinati (a queste devastanti condizioni) sarebbero attivate le intese, a partire da quelle irresponsabilmente siglate nel 2018 dal Governo Gentiloni con le Regioni Veneto, Emilia Romagna, Lombardia.

Il disegno Calderoli è scritto sulla falsa riga di quelle intese: ogni Regione può avanzare richiesta di disporre da una a tutte 23 materie previste, senza necessariamente motivarne le ragioni, e di accedere ai finanziamenti conseguenti attingendo alla fiscalità nazionale; il tutto secondo una trattativa di tipo privato, con la marginalizzazione del Parlamento, chiamato ad una semplice “adesione”.

Se tutto andasse come vuole il Ministro, ci troveremmo ben presto in una situazione paradossale: proprio mentre tutti gli indicatori denunciano l’aggravarsi delle diseguaglianze sociali e territoriali, il governo Meloni si appresta a modificare l’assetto istituzionale in modo da acuirle in modo praticamente irreversibile.

Avremmo uno Stato a pezzi in tutti i sensi, con diversi sistemi sanitari, scolastici, universitari, energetici, ambientali, dipendenti dagli orientamenti politici territoriali, delegittimato e indebolito nel contesto internazionale, privo di una visione organica e lungimirante di futuro sul piano economico, sociale, geopolitico. Andremmo a sottoscrivere una parte degli accordi con l’UE attraverso rappresentanze plurime, una per ogni regione. La giustizia di pace sarebbe regionalizzata, apportando un primo colpo di scure al principio dell’eguaglianza giuridica tra cittadine e cittadini. Del resto, il principio di eguaglianza sostanziale sarebbe letteralmente ribaltato: non sarà più “compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana”, ma – eventualmente – delle Regioni, ciascuna a modo suo.

A farne le spese sarebbero le fasce popolari e i territori più svantaggiati, al Sud ma non solo (c’è un sud in ogni regione, basti pensare ai piccoli comuni e alle comunità montane).

A chi fa comodo tutto ciò? Non certo ai lavoratori e alle lavoratrici, deprivati della copertura del contratto nazionale e delle norme uniformi sulla sicurezza; non ai/lle giovani, che avrebbero insegnanti, programmi e titoli di studio legati al microcosmo locale; non alle comunità locali, private della partecipazione democratica risucchiata nel livello regionale; non al mondo sindacale, che vedrebbe frammentato il suo ruolo di difesa di tutto il mondo del lavoro; e neppure al mondo imprenditoriale più avveduto, che non guarda di buon occhio l’idea di doversi misurare con un sistema infrastrutturale e normativo frammentario.

Fa comodo alla Lega, ancorata alla vetusta impostazione della “locomotiva del nord”; ad una ristretta fascia di mondo imprenditoriale che pensa di condizionare più agevolmente le scelte locali e di ricavare profitto dalla divisione e dalla competizione fra lavoratori; ai potentati politici regionali, che vedrebbero aumentare poteri e risorse da gestire; al Pd, che continua a farsi (mendace) propugnatore di una autonomia differenziata sì, ma “equa, solidale, giusta”, secondo la pletora di infondati e aggettivi scomodati dal presidente della Regione Emilia Romagna, Stefano Bonaccini e dal suo seguace toscano, Eugenio Giani.

L’insano scambio governativo fra regionalismo e presidenzialismo, sommato alla marginalizzazione del Parlamento ridotto nella rappresentanza qualitativa e quantitativa, alle leggi elettorali che escludono dalla rappresentanza democratica milioni di persone, ci consegnano un quadro contro cui dovremmo opporci con tutte le nostre forze.

Ora il pericolo dell’autonomia differenziata, a cui ci hanno esposto irresponsabilmente nel 2001 con la sciagurata riforma del Titolo V, incombe in modo brutale.

L’accumulo di forze che lo contrastano, i comitati, i soggetti riuniti nel Tavolo Nazionale No Autonomia, le forze politiche di opposizione, non sarà sufficiente se non sarà in grado di mobilitarsi dentro e fuori i palazzi. Le mobilitazioni francesi, cui spesso ci riferiamo come modello di riferimento, dovrebbero orientarci.

Rifondazione Comunista è parte di questo contesto, le iniziative alle quali in prima persona noi stesse partecipiamo, insieme alle compagne e compagni impegnati da anni su questo terreno, promosse dai circoli, dalle federazioni o da altri soggetti e comitati, si stanno moltiplicando: Milano, Roma, Bracciano, Grosseto, Cortona, Vicenza, Belluno, Bologna, Udine, Napoli, Potenza, Brescia, Asti, Bari, Brindisi, Corato, Taranto, Castrovillari, San Giorgio Ionico, Palermo, Catania, Siracusa, Enna, Caltanissetta, Terlizzi, Laterza, solo negli ultimi 2 mesi.

Occorre fare di più: la lotta per l’unità del Paese e per l’eguaglianza dei diritti attraversa tutte le altre nelle quali siamo impegnati e merita un impegno straordinario.

Chiediamo al nostro partito, a tutti i livelli, a Unione popolare e a tutte le sue componenti di non sottovalutare il pericolo e di fare il massimo sforzo perché la questione entri in ogni nostra iniziativa e venga posta a tutti gli interlocutori che incrociamo. Prima che sia troppo tardi.

Il tempo per una mobilitazione nazionale è ora.

Tonia Guerra, segreteria nazionale – responsabile campagna NO Autonomia Differenziata PRC

Marina Boscaino, comitato politico nazionale – portavoce Comitati per il ritiro di ogni Autonomia Differenziata

7/5/2023 http://www.rifondazione.it/

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