Aviaria: L’industria avicola e la salute. A quale costo?

Il Covid non è l’unica pandemia presente in Italia in questo momento: c’è infatti anche l’aviaria, che non si manifestava più nel nostro paese dal 2017, ma che oggi è tornata in forma particolarmente aggressiva e diffusa.

Gli ultimi dati, del 21 dicembre, diffusi dall’Istituto Zooprofilattico sperimentale delle Tre Venezie, parlano di focolai in aumento: finora ne sono stati scoperti 241 di cui ben 156 soltanto nella provincia di Verona. Il primo cluster è stato scoperto infatti nell’est veronese ma poi il virus è dilagato nelle province vicine con numeri sempre più alti tanto che gli animali abbattuti sarebbero più di 10 milioni da quando questa pandemia è iniziata, cioè più di un mese fa..

Il virus H5N1 è quindi particolarmente contagioso e non sta mollando la presa.

L’epicentro del contagio è la provincia di Verona ma l’aviaria si è diffusa anche nelle province di Padova e di Vicenza colpendo anche le regioni confinanti, Friuli Venezia Giulia, Lombardia ed Emilia Romagna.

La situazione quindi non è semplice tanto che il ministero della Salute ha comunicato che: “Il rischio di trasmissione per gli umani è considerato basso, ma in considerazione del potenziale evolutivo del virus si ritiene necessario monitorare la situazione”. E per chi è a contatto con gli animali, sempre il ministero, consigliava, circa un mese fa, anche il vaccino anti influenzale.

A rischio sono ovviamente gli allevatori e chi lavora negli allevamenti, ma anche chi trasporta gli animali, chi lavora nella macellazione e chi li cura come i veterinari ed i vaccinatori.

Ma le questioni sanitarie non finiscono qui: vista l’enorme quantità di animali abbattuti, dopo essere stati colpiti dal virus, c’è infatti il problema della distruzione delle loro carcasse.

In Veneto l’inceneritore di Padova è indisponibile e l’infossamento non è praticabile per ovvie ragioni di sicurezza. A cercare di risolvere questo problema non ci sono poi regole uniformi per tutto il territorio nazionale e le spoglie dei polli e dei tacchini abbattuti possono quindi anche rimanere all’interno degli allevamenti aumentando ancora di più i pericoli dal punto di vista sanitario.

E poi c’è anche- per quella che, come vedremo, è una industria dai grandi numeri- il risvolto economico: nell’ultima manovra finanziaria 20 milioni di euro saranno destinati infatti alle aziende maggiormente colpite.

Il principale veicolo di trasmissione del virus sembra siano stati gli uccelli migratori ma ad essere finito sotto accusa è inevitabilmente il modello industriale ed intensivo di allevamento per le tantissime con le sue tantissime problematiche a livello sanitario ed ambientale.

La carne di pollo è la carne più consumata dagli italiani: piace quasi a tutti e costa meno delle altre. Ma a quale prezzo?

Dicevamo dei grandi numeri dell’industria avicola: l’Istat, nel 2019, censiva la macellazione di 512 milioni di polli nel nostro paese.

L’industria è in salute tanto che l’anno scorso la produzione è aumentata ancora di quasi il 2% raggiungendo la cifra di un milione e 389 mila tonnellate, per un consumo pro capite di 21 kg e mezzo all’anno.

Il Veneto è la regione leader di questo comparto con il 30% nel settore dei polli da allevamento e Verona, epicentro della pandemia, ha la supremazia regionale: il 40% della produzione nazionale dei polli ed i 2/3 dei tacchini di tutto il Veneto.

L’industria avicola si concentra quindi nel territorio attraversato dall’autostrada Milano-Venezia e infatti il contagio da aviaria è considerato alto se si va verso nord e altissimo se si procede nella direzione opposta.

Come si è sviluppata questa industria e quali sono le sue attuali caratteristiche ?

Le aziende maggiori svolgono tutte le fasi del processo: dalla produzione dei mangimi all’allevamento, alla macellazione. Il modello è quello che viene definito di “integrazione verticale”: all’origine c’è stata la fortissima spinta dell’industria dei mangimi che ha determinato poi lo sviluppo delle attività successive. Uno sviluppo che ha visto storicamente proprio le tre regioni maggiormente coinvolte nella diffusione dell’aviaria come protagoniste: Veneto, Lombardia ed Emilia -Romagna.

L’altra caratteristica dell’industria avicola italiana- la quinta in Europa ma a breve potrebbe scalare una posizione sorpassando la Spagna- è la sua concentrazione.

La produzione è realizzata da un ristretto numero di strutture di grandi dimensioni: i due marchi più importanti del mercato nazionale, Aia/Gruppo Veronesi, macella 350 milioni di polli all’anno e esporta in 70 paesi, e Amadori, 250 milioni di polli macellati all’anno, da soli fanno il 65% dell’intero settore.

Le tante aziende di allevamento diffuse sul territorio non devono trarre in inganno: lavorano per questi due marchi. E in questo contesto un ruolo sempre più importante lo gioca il rapporto con l’industria di trasformazione del prodotto ma soprattutto con la grande distribuzione le cui grandi catene hanno un ruolo sempre più importante anche per questo comparto.

Un modello che segue quello globale dove a dominare il mercato avicolo sono i giganti dell’allevamento intensivo: marchi brasiliani, soprattutto, seguiti da quelli americani e cinesi.

Solo in Brasile si macellano qualcosa come 5 miliardi di capi all’anno, in Usa più di 3 e in Cina 2 miliardi e mezzo.

In questo contesto, in cui la produzione è a livelli da catena di montaggio, i rischi sanitari sono altissimi.

Ma i numeri, i profitti dei grandi gruppi industriali protagonisti dell’industria avicola, non possono certo nascondere le atrocità del sistema degli allevamenti intensivi mostrati in tanti video da associazioni e gruppi animalisti e oggetto anche di molte inchieste giornalistiche.

Il pollo, prima di finire sulle tavole degli italiani, per aumentarne e velocizzarne la produzione oggi viene ingrassato ben 4 volte di più rispetto a 50 anni fa.

Questo causa grandi problemi a livello cardiaco e respiratorio ed enormi problemi anche nella deambulazione per la crescita completamente innaturale.

Cuore, polmoni e zampe infatti non reggono .

Ma poi ci sono le terribili condizioni degli allevamenti intensivi per questi animali: stipati all’inverosimile, fino a 30 mila in spazi di 20 metri quadri, per le strutture più grandi, senza ovviamente la possibilità di poter andare all’aperto.

Condizioni e sofferenze atroci, quindi.

Ma i sistemi di allevamento intensivo coprono circa il 90% della produzione avicola nazionale.

E le grandi industrie alimentari hanno spinto anche per costruire i loro capannoni vicino agli impianti di macellazione concentrando in alcune zone tutti i rischi, compreso ovviamente l’aumento dei contagi durante la pandemia.

Non va dimenticato che nella prima ondata di Covid le province più colpite furono, in Lombardia, proprio quelle di Brescia, Cremona e Mantova dove è molto forte la presenza di questi impianti.

Su questi nuovi focolai però, nonostante i numeri, ministero della Salute, regioni e le associazioni di categoria mostrano sicurezza difendendo il sistema dei controlli e di sorveglianza nonostante l’aviaria si stia estendendo.

Quando viene rilevato il contagio per gli animali la procedura più usata è il tampone tracheale a cui segue, in caso di positività, l’abbattimento.

Ma, visti i numeri e la pericolosità del virus, occorrerà intensificare i controlli e rafforzare le misure di prevenzione. Magari aumentando anche il personale dei servizi veterinari oggi in Veneto piuttosto scarso.

Anche questa vicenda però ci impone le stesse riflessioni imposte dal Covid come dai cambiamenti climatici: occorre ripensare radicalmente il nostro rapporto con l’ambiente, con la natura e con gli animali. Prima che sia troppo tardi.

Cristiano Bordin

10/1/2022 https://www.intersezionale.com

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