Bancarotta idrica
Nelle ultime settimane, si sono susseguiti con sempre maggiore insistenza gli allarmi riguardanti la siccità nella valle del Po, una delle aree a maggiore densità demografica e con i più alti tassi di industrializzazione e di agricoltura irrigua in Europa. I bollettini dell’Autorità di bacino distrettuale del fiume Po e i monitoraggi compiuti dagli enti regolatori dei grandi laghi segnano portate ai minimi storici per questo periodo e temperature di due gradi sopra la media. Una situazione che rischia di compromettere le colture e di mandare in stallo la produzione di energia idroelettrica, mentre dalle regioni attraversate dal fiume si leva la richiesta di uno stato di emergenza nazionale.
La crisi idrica del bacino del Po spinge nuovamente il dibattito pubblico italiano ad affrontare la questione climatica e ambientale da una prospettiva emergenziale e contingente, quando gli esperti hanno da lungo tempo tracciato questo scenario, legandolo in particolare alle conseguenze del riscaldamento climatico.
Senza andare troppo indietro negli avvertimenti degli scienziati e degli esperti, già nello scorso marzo un rapporto del Joint Research Centre (Jrc) della Commissione europea, intitolato Drought in Northern Italy, segnalava che l’assenza pressoché totale di precipitazioni nelle regioni del Nord, in atto dal dicembre 2021, avrebbe presto condotto a un severo deficit idrico. La crisi, evidente già in aprile con l’avvio delle operazioni irrigue, è esplosa e si è mediatizzata solo in questi giorni, con il profilarsi di una strisciante conflittualità tra industria, agricoltura e città per la ripartizione delle destinazioni idriche e con le prime ipotesi di razionamento. La valle del Po sta affrontando la più grave crisi idrica degli ultimi settant’anni.
I diversi perché della crisi idrica
Per comprendere ciò che sta accadendo è necessario richiamare una combinazione tra fattori climatici e modi di gestione, da parte dell’uomo, delle matrici ecologiche fondamentali: acqua e suolo. L’attuale dinamica di surriscaldamento del clima, che il sesto rapporto dell’Intergovernmental panel on climate change (Ipcc) dell’Onu raccomanda di mantenere entro i 1.5°C e comunque al di sotto dei 2°C rispetto ai livelli preindustriali, implica ripercussioni di diversa natura, che vanno dal progressivo scioglimento dei ghiacciai all’alterazione del regime delle precipitazioni.
Si tratta di fattori che incidono profondamente sul ciclo idrologico, composto – come è noto – dalle fasi di evaporazione, condensazione, precipitazione e infiltrazione delle acque nel sottosuolo. Il ritiro dei grandi ghiacciai alpini segue la sorte di quelli collocati sulle altre principali catene montuose del mondo, dalle Ande all’Himalaya, e implica la perdita di una riserva permanente di acqua dolce, in grado di alimentare i fiumi e di ricaricare le falde acquifere.
Ma, come detto, riscaldamento climatico significa anche alterazione delle piogge, cioè una profonda modificazione non tanto della quantità complessiva quanto della frequenza e dell’intensità delle precipitazioni. Così, se l’attuale siccità nel Nord Italia è dovuta a un’insistita carenza di piogge e di nevicate, è anche vero che nel corso dello stesso anno si sono registrati nel paese quasi 1.300 eventi atmosferici estremi, come piogge torrenziali, grandinate e trombe d’aria. Fenomeni, in sostanza, che finiscono con il compromettere gli equilibri idrologici e idrogeologici.
Su questo scenario interviene un ulteriore, decisivo fattore: l’elevatissimo consumo di acqua su cui sono basate le nostre società. Utilizziamo ampie porzioni di risorse idriche per garantire igiene e salute pubblica, per sostenere colture intensive ad alta intensità irrigua, per abbeverare il bestiame, per produrre energia, per raffreddare e alimentare i processi produttivi nelle filiere industriali.
Il mare che sale
L’effetto combinato di questi fattori produce conseguenze a catena. L’acqua dolce si tramuta in acqua salata. Assistiamo cioè al fenomeno del «mare che sale», stando all’efficace immagine utilizzata dall’oceanografo Sandro Carniel. Dall’inizio del Novecento, il livello degli oceani è inesorabilmente salito di circa 20 centimetri, più rapidamente di quanto non abbia fatto negli ultimi tre millenni, divorando città e insediamenti costieri.
Un elemento ben noto agli esperti è il profondo legame che tiene assieme acque superficiali e sotterranee. L’impoverimento delle falde acquifere comporta l’indebolimento delle componenti subalvee dei fiumi e, alla lunga, il depauperamento delle loro stesse portate in superficie. Per le stesse ragioni, minori portate dei corsi fluviali nel soprassuolo determinano minori tassi di ricarica per gli acquiferi sotterranei. L’indebolimento di questa relazione comporta conseguenze gravi, che si manifestano con l’ampliarsi del cosiddetto «cuneo salino», vale a dire l’intrusione marina nei delta dei fiumi e nelle falde acquifere.
Nell’attuale contingenza, la risalita del cuneo salino nel delta del Po si sta aggravando di settimana in settimana, raggiungendo i 20 chilometri circa. Il grande fiume del Nord segue, in questo, una dinamica di salinizzazione globale dei fiumi che lo accomuna ad altri corsi d’acqua, come il Mekong, il Gange, il Rio Grande e un terzo circa dei fiumi statunitensi. La risalita del cuneo salino nelle zone del Delta del Po comporta irrimediabilmente la perdita di fertilità dei suoli, che intacca non solo la produttività economica ma anche le basi stesse della regolazione dei processi biochimici.
L’intelligenza del suolo
Siamo abituati a intendere il suolo in termini di superficie, quando invece esso costituisce un insieme di stratificazioni dalla cui fertilità dipende la nostra sussistenza. Il suolo, come è stato scritto, è un ecosistema straordinario reso intelligente dalla presenza di miliardi di esseri viventi, dalla capacità di trattenere e cedere l’acqua, di sequestrare l’anidride carbonica, di generare l’humus che rende fertile la terra.
Questa sua caratteristica è anche causa della sua estrema fragilità. Il suolo non è rinnovabile né resiliente, specie se intaccato da fenomeni di erosione, inquinamento e impermeabilizzazione, frequenti soprattutto nelle aree metropolitane, nelle strutture industriali, nei parchi commerciali e a ridosso delle infrastrutture di trasporto. Negli ultimi vent’anni, il consumo di suolo a livello europeo è aumentato del 20%, contro un incremento della popolazione pari al 6%. Siamo incapaci di contenere i processi di sprawl urbano e di riqualificare territori di vecchia antropizzazione, cioè di fare pianificazione dell’assetto del territorio. L’Ispra ha calcolato che negli ultimi dieci anni abbiamo consumato mediamente 14 ettari di suolo fertile al giorno, di cui quasi due terzi sottratti al paesaggio agricolo e ai boschi.
Tra le conseguenze più gravi del consumo e dell’impermeabilizzazione del suolo vi è l’impossibilità per le acque di infiltrarsi nel sottosuolo, negando alle falde un contributo di ricarica fondamentale per mantenere l’equilibrio del ciclo idrologico. Suolo sigillato e interdetto all’acqua significa desertificazione. Un quarto del territorio italiano presenta da questo punto di vista evidenti segni di degrado, in particolare in alcune aree del Mezzogiorno continentale e insulare, a cui si aggiungono diverse enclave nel Nord, dal Veneto al basso Piemonte, all’Emilia-Romagna.
Mediterraneo: hot-spot del riscaldamento climatico
Eppure, mentre l’immagine del deserto rimane per noi una proiezione esotica, siamo pienamente compresi in una delle regioni più calde del pianeta. L’enfasi posta da scienziati e osservatori sull’obiettivo di contenere il surriscaldamento climatico entro 1,5°C si riferisce pur sempre a un valore medio. Ciò significa che vi sono alcune aree geografiche che sono localmente più esposte alla crisi del clima, dove le temperature tendono a incrementare e ad alterarsi più velocemente, i cosiddetti hot-spot del global warming. Il Mediterraneo è esattamente uno di questi e l’Italia vi è pienamente dentro. Certo, la sponda africana e quella mediorientale sono maggiormente esposte al rischio di siccità e desertificazione, ma ciò non rende gli europei meridionali affatto estranei a questi scenari.
Anzi, guardando ai paesi africani rivieraschi e a quelli del Vicino Oriente è possibile assistere al déroulement della crisi idrica nel contesto mediterraneo. Prendiamo un’angolazione del tutto peculiare, quella delle acque sotterranee «fossili». Si tratta di riserve non rinnovabili di acqua, infiltratesi nel sottosuolo migliaia o addirittura milioni di anni fa in conseguenza del normale ciclo idrologico ma rimaste poi intrappolate e sigillate per l’azione di poderosi moti tellurici, senza cioè la possibilità di ricevere ulteriori «ricariche» dalla superficie.
Le acque fossili, come il resto delle acque sotterranee, risultano spesso fondamentali nei contesti aridi e desertici. È il caso del Nubian Sandstone Aquifer System (Nsas), il più grande bacino di acqua fossile del mondo compreso tra Libia, Egitto, Sudan e Chad. O, ancora, della falda acquifera di Disi, tra Giordania e Arabia Saudita. Il Nsas si è formato da acque piovute tra i 4 mila e 25 mila anni fa, conservate nel sottosuolo fino a 2 chilometri di profondità. Dalla fine del secolo scorso, questo acquifero fossile alimenta il Great Man-Made River (Gmr), una complessa infrastruttura idrica varata da Gheddafi e capace di provvedere, con centinaia di pozzi e più di tremila chilometri di tubature sotterranee, al 70% del fabbisogno idrico del paese, in particolare della Tripolitania.
Con la caduta del regime di Gheddafi e la frammentazione politico-militare del paese, questa infrastruttura è stata prima oggetto di un controverso attacco Nato nel 2011 e poi degli scontri tra le milizie del generale Haftar, che controllano i punti di captazione, e i centri urbani costieri beneficiari del Gmr, controllati dal Governo di accordo nazionale. In condizioni di estrema vulnerabilità idrica, dunque, l’acqua, anche quella fossile, diviene strumento di guerra e di ricatto.
Dal canto loro, Giordania e Arabia Saudita pompano acqua fossile dal Disi in una corsa all’accaparramento in cui confini nazionali, amministrativi e giurisdizionali risultano del tutto artificiali dinanzi alle esigenze di un uso cooperativo. Le stime sulla durata di questa riserva d’acqua fossile oscillano tra i 20 e i 100 anni, dopo di che la falda avrà esaurito in modo irreparabile le sue riserve.
L’Europa meridionale, per quanto più stabile politicamente, non è affatto risparmiata da questi scenari del global warming. In Spagna, la desertificazione interessa ormai il 72% del territorio, in particolare in Andalusia e nelle regioni meridionali, dove si pratica un’agricoltura intensiva basata sull’emungimento dell’acqua di falda, quel «mare di plastica» fatto di serre ortofrutticole a perdita d’occhio – ma ben visibile dai satelliti – che riversa i suoi prodotti in mezza Europa. In Italia, gli usi civili dipendono già per quasi l’85% dalle acque sotterranee, in cui un peso crescente riveste lo sfruttamento di quelle fossili, contese del resto dalle destinazioni irrigue.
La via d’uscita ai conflitti per l’acqua
Il depauperamento delle riserve di acqua dolce implica il gonfiarsi di minacciosi conflitti per accaparrarsi una risorsa preziosa e sempre più scarsa. Nella valle del Po ciò che si sta profilando è, di fatto, una «competizione per l’approvvigionamento idrico» – volendo ricorrere al gergo un po’ edulcorante del Jrc – che coinvolge idroelettrico, agricoltura e usi domestici.
Diversi esponenti delle giunte regionali di Piemonte e Lombardia, raccogliendo la preoccupazione degli operatori agricoli, hanno richiamato l’esigenza di salvare le colture attraverso il rilascio di acqua dagli invasi del settore idroelettrico, che però si trova a sua volta costretto a gestire i livelli di ritenuta più bassi dal 1970 e un significativo calo di potenza erogabile. La crisi idrica diventa dunque crisi energetica e, potenzialmente, spinta inflattiva. In questa condizione, il deficit idrico viene trasferito sui consumi civili attraverso il razionamento.
Siamo dunque dinanzi a uno scenario che non ci lasceremo alle spalle, come accaduto con la grande siccità del 2003. Non basterà voltarci altrove e andare avanti, provando a resistere e a sopravvivere. Le difficoltà e i dilemmi imposti da questa crisi idrica sembrano destinati a ripetersi con maggiore intensità e andranno governati a monte, non a valle. Il rischio è che il riflusso post-pandemico e l’effetto di scompaginamento prodotto dagli eventi bellici indeboliscano i movimenti di lotta e la pressione sociale sul tema della crisi climatica, marginalizzando gli obiettivi del Green Deal europeo. Occorre invece difendere la futuribilità di quel «nuovo contratto sociale» chiamato a ridefinire l’identità europea, fondato sui pilastri della transizione ecologica e della giustizia sociale. Ce lo impone il collasso del precedente modello, basato sull’estrazione di risorse naturali, sull’aumento incrementale dei consumi e sul lavoro fordista.
Lo studio del ciclo idrosociale, cioè delle interazioni che intercorrono tra acqua, infrastrutture, processi sociali e dinamiche di potere, costituisce il punto di partenza per affrontare la dimensione politica del problema della crisi idrica, i modi con cui si intende governarla e contenerla. Se la siccità minaccia di divenire il nostro orizzonte d’aspettativa distopico, una nuova normalità climatica che prelude all’apocalypse joyeuse di Fressoz, la bancarotta idrica si risolve solo affrontando le nostre difficoltà a concepire l’imprescindibile funzione vitale dell’acqua.
Battere il negazionismo climatico, spingere in direzione della ristrutturazione dei modelli di produzione industriale e agricola, della riqualificazione delle aree urbane, della trasformazione delle nostre pratiche di consumo, comporta uno sforzo titanico di fuoriuscita da una cultura della «dematerializzazione» che ha prodotto il nostro drammatico distacco dalle condizioni materiali ed ecologiche che sostengono l’esistenza della vita. Non si tratta delle banalizzazioni mediatiche sugli accorgimenti utili a non sprecare l’acqua domestica, che tendono per l’ennesima volta a ridurre entro un orizzonte individualistico la nostra capacità di concepire la dimensione collettiva della sfida che abbiamo dinanzi. Si tratta, piuttosto, di tutte quelle pratiche, quei comportamenti e quelle aspettative sociali di consumo insostenibili e irrealistiche, che non tengono conto né del lavoro svolto da altri gruppi sociali né dei limiti ecologici della stessa biosfera. Un conflitto che il pensiero ecosocialista ed ecofemminista ha assunto nei termini della contrapposizione tra l’ambito della produzione economica e quello della riproduzione della vita, e del tendenziale assoggettamento dell’ultimo al primo.
La via d’uscita alla crisi idrica è soltanto climatica. Consiste in un lungo e tortuoso cammino che ci apprestiamo a percorrere sulle spalle delle generazioni umane storicamente più distanti dalla grammatica della natura. Essa consiste nella ri-materializzazione e nella ri-politicizzazione dei processi di produzione e di appropriazione/espropriazione delle matrici ecologiche, quali prerequisiti necessari per un largo consenso al governo della transizione climatica giusta. Fuori da questo tracciato, non rimane che la definitiva adozione di un modello privatistico che intende agire sulla leva del prezzo per disciplinare in modo discriminatorio la dinamica incrementale degli usi idrici, e che prelude a più vasti e sconvolgenti conflitti nazionali e tra comunità locali per l’accesso alle riserve idriche del pianeta. Dalla prevalenza dei tratti dell’una o dell’altra opzione dipenderà il futuro di una risorsa così indispensabile alla vita.
Antonio Bonatesta, storico contemporaneista, è ricercatore presso l’Università degli Studi di Bari
22/6/2022 https://jacobinitalia.it
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