Bei tempi per il comparto militare-industriale. Ma è davvero l’arsenale della democrazia?
di William Hartung* –
(Traduzione a cura di Federica Riccardi)
https://responsiblestatecraft.org/military-industrial-complex-ukraine-israel/
Pagine Esteri, 18 novembre 2023. Il titolo del New York Times dice tutto: ” La guerra in Medio Oriente contribuisce all’aumento delle vendite internazionali di armi”. I conflitti a Gaza, in Ucraina e altrove stanno forse causando immense e inconcepibili sofferenze umane, ma stanno anche incrementando i profitti dei produttori di armi del mondo. Un tempo queste vendite di armi facevano almeno parlare di “mercanti di morte” o di “profittatori di guerra”. Ora, tuttavia, non è più quel tempo, dato il trattamento riservato all’industria dai media mainstream e dall’establishment di Washington, nonché la natura dei conflitti in corso. L’industria americana degli armamenti domina già il mercato internazionale in modo impressionante, controllando il 45% di tutte le vendite a livello globale, un divario che probabilmente si accentuerà con la corsa ad armare ulteriormente gli alleati in Europa e in Medio Oriente nel contesto delle guerre in corso in quelle regioni.
Nel suo discorso televisivo diffuso a livello nazionale sulle guerre tra Israele e Hamas e tra Russia e Ucraina, il Presidente Biden ha descritto l’industria americana delle armi in termini straordinariamente positivi, osservando che “proprio come nella Seconda Guerra Mondiale, oggi i lavoratori americani patriottici costruiscono l’arsenale della democrazia e servono la causa della libertà”. Da un punto di vista politico e di comunicazione, il Presidente si è abilmente concentrato sui lavoratori coinvolti nella produzione di tali armi piuttosto che sulle gigantesche aziende che traggono profitto dall’armare Israele, Ucraina e altre nazioni in guerra. Ma i profitti ci sono e, cosa ancora più sorprendente, gran parte dei profitti che affluiscono a queste aziende vengono intascati come stipendi da capogiro per i dirigenti e riacquisti di azioni che non fanno altro che aumentare ulteriormente i guadagni degli azionisti.
Il Presidente Biden ha anche sfruttato questo discorso come un’opportunità per celebrare i benefici degli aiuti militari e delle vendite di armi per l’economia statunitense:
“Inviamo all’Ucraina le attrezzature presenti nelle nostre scorte. E quando usiamo i fondi stanziati dal Congresso, li usiamo per rifornire i nostri magazzini, le nostre scorte, con nuove attrezzature. Attrezzature che difendono l’America e che sono prodotte in America. Missili Patriot per le batterie di difesa aerea, prodotti in Arizona. I proiettili d’artiglieria sono prodotti in 12 Stati del Paese, in Pennsylvania, Ohio e Texas. E molto altro ancora”.
In breve, il complesso militare-industriale sta andando a gonfie vele, con entrate a pioggia e riconoscimenti ai massimi livelli politici di Washington. Ma è davvero un arsenale della democrazia? O è un’impresa amorale, disposta a vendere a qualsiasi nazione, sia essa una democrazia, un’autocrazia o una via di mezzo?
Armare i conflitti in corso
Gli Stati Uniti dovrebbero certamente fornire all’Ucraina ciò che le serve per difendersi dall’invasione russa. L’invio di armi da solo, tuttavia, senza una strategia diplomatica di accompagnamento, è una ricetta per una guerra infinita e logorante (e per infiniti profitti per i produttori di armi) che potrebbe sempre degenerare in un conflitto molto più diretto e devastante tra Stati Uniti, NATO e Russia. Tuttavia, data l’attuale urgente necessità di continuare a rifornire l’Ucraina, le fonti dei sistemi di armamento in questione sono destinate a giganti aziendali come Raytheon e Lockheed Martin. Non c’è da sorprendersi, ma si tenga presente che non stanno facendo nulla di tutto questo per spirito di carità.
L’amministratore delegato di Raytheon Gregory Hayes lo ha riconosciuto, per quanto modestamente, in un’intervista alla Harvard Business Review all’inizio della guerra in Ucraina:
“Non ci scusiamo per aver prodotto questi sistemi, queste armi… il fatto è che alla fine vedremo qualche beneficio nel tempo. Tutto ciò che viene spedito in Ucraina oggi, ovviamente, esce dalle scorte del DoD [il Dipartimento della Difesa] o dei nostri alleati della NATO, e questa è un’ottima notizia. Alla fine dovremo rifornirle e vedremo un beneficio per l’azienda nei prossimi anni”.
Hayes ha fatto un’osservazione simile di recente, in risposta alla domanda di un ricercatore di Morgan Stanley durante una telefonata con gli analisti di Wall Street. Il ricercatore ha notato che il pacchetto di aiuti militari multimiliardari proposto dal Presidente Biden per Israele e l’Ucraina “sembra adattarsi perfettamente al portafoglio di difesa di Raytheon”. Hayes ha risposto che “l’intero portafoglio di Raytheon trarrà beneficio da questo rifornimento, oltre a quello che pensiamo sarà un aumento della produzione del DoD, dato che continueremo a rifornire queste scorte”. Il solo rifornimento dell’Ucraina, ha suggerito, produrrebbe miliardi di ricavi nei prossimi anni, con margini di profitto compresi tra il 10% e il 12%.
Al di là di questi profitti diretti, c’è una questione più ampia: il modo in cui la lobby degli armamenti del Paese sta usando la guerra per ottenere una serie di misure favorevoli che vanno ben al di là di quanto necessario per sostenere l’Ucraina. Tra queste, contratti pluriennali meno restrittivi, riduzioni delle protezioni contro il dumping dei prezzi, approvazione più rapida delle vendite all’estero e costruzione di nuovi impianti di armamento. E si tenga presente che tutto questo avviene mentre l’impennata del budget del Pentagono minaccia di raggiungere la sorprendente cifra di 1 trilione di dollari nei prossimi anni.
Per quanto riguarda l’armamento di Israele, compresi i 14 miliardi di dollari in aiuti militari d’emergenza recentemente proposti dal Presidente Biden, gli orribili attacchi perpetrati da Hamas semplicemente non giustificano la guerra totale che il governo del Presidente Benjamin Netanyahu ha lanciato contro più di due milioni di abitanti della Striscia di Gaza, con migliaia di vite già perse e altre incalcolabili vittime in arrivo. Questo approccio devastante a Gaza non rientra in alcun modo nella categoria della difesa della democrazia, il che significa che le aziende produttrici di armi che ne traggono profitto saranno complici della catastrofe umanitaria in corso.
La repressione favorita, la democrazia negata
Nel corso degli anni, lungi dall’essere un arsenale affidabile per la democrazia, i produttori di armi americani hanno spesso contribuito a minare la democrazia a livello globale, una sempre maggiore repressione e conflittualità – un fatto ampiamente ignorato nella recente copertura mainstream dell’industria. Ad esempio, in un rapporto del 2022 per il Quincy Institute, ho notato che dei 46 conflitti allora attivi a livello globale, 34 coinvolgevano una o più parti armate dagli Stati Uniti. In alcuni casi, le forniture di armi americane sono state modeste, ma in molti altri conflitti tali armamenti sono stati fondamentali per le capacità militari di una o più parti in guerra. Nel 2021, l’anno più recente per il quale sono disponibili statistiche complete, gli Stati Uniti hanno armato 31 Paesi che Freedom House, un’organizzazione no-profit che tiene traccia delle tendenze globali in materia di democrazia, libertà politica e diritti umani, ha definito “non liberi”.
L’esempio recente più eclatante in cui l’industria americana delle armi è decisamente colpevole quando si tratta di un numero impressionante di morti civili è l’intervento della coalizione guidata da Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti (EAU) nello Yemen, che è iniziato nel marzo 2015 e non si è ancora concluso. Sebbenele operazioni militari siano ora relativamente in sospeso, il blocco parziale del Paese continua a causare inutili sofferenze a milioni di yemeniti. Tra bombardamenti, combattimenti sul terreno e l’impatto del blocco, ci sono state quasi 400.000 vittime. Gli attacchi aerei sauditi, che utilizzano aerei e armi di produzione americana, hanno causato la maggior parte delle morti civili dovute ad azioni militari dirette.
Il Congresso ha compiuto sforzi senza precedenti per bloccare la vendita di armi specifiche all’Arabia Saudita e per contenere il ruolo americano nel conflitto attraverso una “War Powers Resolution”(Risoluzione sui poteri di guerra), solo che la legislazione è stata bloccata dal Presidente Donald Trump. Nel frattempo, le bombe fornite da Raytheon e Lockheed Martin sono state usate regolarmente per colpire i civili, distruggendo quartieri residenziali, fabbriche, ospedali, un matrimonio e persino uno scuolabus.
Quando si chiede loro se si sentono responsabili per l’uso delle loro armi, le aziende produttrici di armi si pongono generalmente come spettatori passivi, sostenendo che tutto ciò che stanno facendo è seguire le politiche adottate a Washington. All’apice della guerra in Yemen, Amnesty International ha chiesto alle aziende che fornivano attrezzature militari e servizi alla coalizione saudita/UAE se si assicurassero che i loro armamenti non venissero usati per gravi violazioni dei diritti umani. La Lockheed Martin ha risposto in modo convenzionale, affermando che “le esportazioni di prodotti per la difesa sono regolamentate dal governo degli Stati Uniti e approvate dall’Esecutivo e dal Congresso per garantire che supportino la sicurezza nazionale e gli obiettivi di politica estera degli Stati Uniti”. Raytheon ha semplicemente dichiarato che le sue vendite “di munizioni a guida di precisione all’Arabia Saudita sono state e restano conformi alle leggi statunitensi”.
Come l’industria delle armi modella la politica
Naturalmente, le aziende produttrici di armi non sono semplicemente soggette alle leggi statunitensi, ma cercano attivamente di plasmarle, anche esercitando notevoli sforzi per bloccare gli sforzi legislativi volti a limitare le vendite di armi. Raytheon si è tipicamente impegnata dietro le quinte per mantenere in piedi un’importante vendita di bombe a guida di precisione all’Arabia Saudita. Nel maggio 2018, l’allora amministratore delegato Thomas Kennedy si è persino recato personalmente presso l’ufficio del presidente della Commissione Esteri del Senato Robert Menendez (D-NJ) per fare pressioni (senza successo) affinché abbandonasse l’accordo. L’azienda ha inoltre coltivato stretti legami con l’amministrazione Trump, compreso il consigliere presidenziale per il commercio Peter Navarro, per garantire il suo sostegno alla prosecuzione delle vendite al regime saudita anche dopo l’omicidio dell’importante giornalista saudita e residente negli Stati Uniti Jamal Khashoggi.
L’elenco dei principali responsabili di violazioni dei diritti umani che ricevono armi dagli Stati Uniti è lungo e comprende (ma non solo) Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Egitto, Turchia, Nigeria e Filippine. Queste vendite possono avere conseguenze umane devastanti. Inoltre, sostengono regimi che troppo spesso destabilizzano le loro regioni e rischiano di coinvolgere direttamente gli Stati Uniti in conflitti.
Inoltre, le armi fornite dagli Stati Uniti finiscono troppo spesso nelle mani degli avversari di Washington. A titolo di esempio, si consideri il modo in cui gli Emirati Arabi Uniti hanno trasferito armi di piccolo calibro e veicoli blindati prodotti da aziende americane alle milizie estremiste dello Yemen, senza apparenti conseguenze, anche se tali azioni violavano chiaramente le leggi americane sull’esportazione di armi. A volte, i destinatari di tali armi finiscono addirittura per combattersi tra loro, come quando nel 2019 la Turchia ha utilizzato gli F-16 forniti dagli Stati Uniti per bombardare le forze siriane sostenute dagli Stati Uniti impegnate nella lotta contro i terroristi dello Stato Islamico.
Questi esempi sottolineano la necessità di controllare con maggiore attenzione le esportazioni di armi degli Stati Uniti. L’industria degli armamenti ha invece promosso un processo sempre più “snello” di approvazione di tali vendite di armi, facendo campagna per numerose misure che renderebbero ancora più facile armare i regimi stranieri, indipendentemente dalla loro condotta in materia di diritti umani o dal sostegno agli interessi che Washington teoricamente promuove. Tra queste, la “Export Control Reform Initiative” (Iniziativa di riforma del controllo delle esportazioni), fortemente promossa dall’industria durante le amministrazioni Obama e Trump, che ha finito per garantire un ulteriore allentamento dei controlli sulle esportazioni di armi da fuoco. Di fatto, ha facilitato le vendite che, in futuro, potrebbero mettere le armi prodotte negli Stati Uniti nelle mani di tiranni, terroristi e organizzazioni criminali.
Ora, l’industria sta promuovendo sforzi per far uscire le armi dalla porta sempre più rapidamente attraverso “riforme” del programma “Foreign Military Sales” (Vendite militari all’estero), in cui il Pentagono funge essenzialmente da intermediario di armi tra queste corporazioni di armi e i governi stranieri.
Arginare il MIC
L’impulso a procedere sempre più rapidamente all’esportazione di armi e a sovradimensionare ulteriormente la base produttiva di armi di questo Paese, che è già impressionante, non farà altro che portare a un ulteriore aumento dei prezzi da parte delle società produttrici di armi. Dovrebbe essere un imperativo del governo prevenire un simile futuro, piuttosto che alimentarlo. I presunti problemi di sicurezza, in Ucraina, in Israele o altrove, non dovrebbero ostacolare una vigorosa supervisione da parte del Congresso. Persino all’apice della Seconda Guerra Mondiale, un periodo di sfide spaventose per la sicurezza americana, l’allora senatore Harry Truman istituì un comitato per sradicare il profitto di guerra.
Sì, i soldi delle vostre tasse vengono sperperati nella corsa a costruire e vendere sempre più armi all’estero. Peggio ancora, per ogni trasferimento di armi che serve a un legittimo scopo difensivo, ce n’è un altro – per non dire altri – che alimenta conflitti e repressioni, aumentando il rischio che, mentre le gigantesche multinazionali delle armi e i loro dirigenti fanno fortuna, questo Paese venga coinvolto in conflitti esteri più costosi.
Un modo possibile per rallentare la corsa alla vendita sarebbe quello di “ribaltare il copione” del modo in cui il Congresso esamina le esportazioni di armi. La legge attuale richiede una maggioranza di veto di entrambe le camere del Congresso per bloccare una vendita discutibile. Questo standard – forse non vi sorprenderà sapere – non è mai (mai!) stato rispettato, grazie ai milioni di dollari di sostegno finanziario annuale alle elezioni che le aziende produttrici di armi offrono ai nostri rappresentanti del Congresso. Ribaltare il copione significherebbe richiedere l’approvazione affermativa del Congresso per qualsiasi vendita importante a nazioni chiave, aumentando notevolmente le possibilità di fermare accordi pericolosi prima che raggiungano il loro compimento.
Lodare l’industria degli armamenti statunitense come “arsenale della democrazia” oscura i numerosi modi in cui mina la nostra sicurezza e spreca i soldi delle nostre tasse. Piuttosto che romanticizzare il complesso militare-industriale, non è forse giunto il momento di porlo sotto un maggiore controllo democratico? Dopo tutto, così tante vite dipendono da esso.
Questo articolo è stato ripubblicato con il permesso di TomDispatch.
*William Hartung
William D. Hartung è ricercatore senior presso il Quincy Institute for Responsible Statecraft. Il suo lavoro si concentra sull’industria degli armamenti e sul bilancio militare degli Stati Uniti.
27/11/2023 https://pagineesteri.it/
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