BUGGERRU, DOVE LA LOTTA EBBE INIZIO

Quando, procedendo verso Ovest, ci si lascia Cagliari alle spalle e si attravresa la piana di Siliqua, si ha già l’impressione di incamminarsi verso un’oceano di sole che brucia la terra come fosse un’inferno; forse non è un caso che il Castello di Acquafredda, arrampicato sulla cima di un colle lavico al confine tra il Campisano e il Sulcis-Iglesiente, stia lì a ricordare le vicende di quel Conte Ugolino che Dante cita nel suo Inferno. Sì, perchè la storia di questa zona sud-occidentale della Sardegna ha molto a che fare con le sembianze che il Sommo Poeta conferiva a quell’aldilà dove erano condannati alle peggiori pene i peccatori, e non certo perchè si tratti di un luogo paesaggisticamente scadente, tutt’altro.

Lo stridore risiede proprio nel fatto che, a dispetto di un’area naturalisticamente splendida, in cui boscose montagne ricche di lecci, querce e roverelle si alternano a dune di sabbia e ad ampi tratti pianeggianti adorni di arbusti tipici della macchia mediterranea, a scogliere scoscese e alte falesie che si tramutano, di quando in quando, in spiagge ampie, leccate dolcemente dalle mille lingue del mare cristallino e sfumato di tutte le gradazioni del blu, sotto le viscere di questa terra, dunque, per secoli si è consumato l’Inferno: milioni di minatori, in tutte le epoche storiche, hanno sudato e sputato sangue, molti di loro perso la vita, per estrarre quei preziosi minerali  di cui le montagne del Sulcis-Iglesiente sono ricche. Infatti, in questo territorio che pare essere geologicamente il più antico d’Europa, essendo la prima terra emersa dall’acqua, l’attività estrattiva risale addirittura all’età punica e romana, durante la quale già si estraeva il piombo, come testimoniano I resti degli schiavi minatori ritrovati qui; all’epoca si surriscaldava la pietra col legno arroventato e si proseguiva poi, in un massacrante lavoro completamente manuale, all’estrazione del piombo che veniva utilizzato per le condotte idriche.

L’imperatore Antonino Pio racconta, nei suoi scritti, di una città chimata Metalla che, però, non è mai stata ritrovata. Situata tra Neapolis e Sulcis, nell’odierna area del Fluminese, doveva fungere da insediamento patrizio nel vasto distretto minerario già all’epoca ubicato nella zona e strutturato non molto dissimilmente da quelli che, poi, in età più avanzata fino al secolo scorso, vennero insediati in queste aree: vi era un centro residenziale destinato ai “padroni” ed uno civile che, verosimilmente, era ubicato a San Nicolò o a Portixeddu; dopodichè non mancavano un centro amministrativo di coordinamento, un centro portuale ed, infine, un polo religioso, come testimonia il centro archeologico di Antas col suo Tempio.

Ma venendo a giorni a noi più vicini, il boom dell’attività mineraria in Sardegna avviene attorno dalla seconda metà dell’ ‘800 in avanti, [1] [2] in particolare con l’arrivo dei francesi, i quali avviarono la costruzione di interi villaggi minerari ed espansero quelli già esistenti. Buggerru, ad esempio, località costiera a non molti chilometri da Iglesias che, originariamente, era una sorta di frazione della vicina Fluminimaggiore, è un caso quasi unico, in Italia, di sviluppo dovuto esclusivamente all’industria; con l’arrivo delle imprese francesi, attorno al 1865, che si insediarono qui per via delle locali miniere di blenda e calamina, il paesino conobbe una crescita inedita e rapidissima (in breve gli abitanti divennero 6000), e, in altrettanto brevissimo tempo, un’ampissima proletarizzazione: tanto che, ai primi del ‘900, si parlava di Buggerru come di una Petit Pàris, una piccola Parigi, tanto era l’andirivieni di imprenditori ed ingegneri francesi che qui si stabilirono per dirigere i lavori, costruendo per sè lussuosi villini e palazzi, introducendo il cinema ed il can-can in un remoto villaggio di pescatori e pastori; ben inteso che, ovviamente, gli spassi e le attrazioni erano sapientemente dosati per i lavoratori i quali non avevano accesso che a quelle appositamente pensate per loro, come in una sorta di apartheid [2] e, nel caso del cinema, dovevano rigorosamente attendere senza lamentarsi l’arrivo di “Monsieur et Madame” per l’inizio della proiezione.

La società mineraria di Buggerru era di proprietà della Societè dex Mines de Malfidano e, ai primi del Novecento, era rimessa nelle mani dell’ingegnere greco Achille Georgiades. I lavoratori svolgevano turni massacranti di 10-12 ore al giorno, senza neanche un giorno di riposo, venivano pagati con uno dei salari più bassi d’Europa ed erano costretti a procurarsi di tasca propria ogni strumento necessario sul lavoro, persino l’olio per le lampade; anche le donne lavoravano nella miniera o presso di essa: il loro salario si aggirava attorno ad 1 lira e 15 centesimi (81 centesimi, per quelle sotto i 15 anni) e lavoravano come cernitrici, separando il minerale ricco da quello sterile, per oltre 10 ore al giorno, in mezzo a polvere e detriti, senza alcuna assistenza, senza ferie, anche se incinte; spesso morivano sotto le frane e se arrivavano in ritardo alla miniera, perdevano la chiamata e veniva multate sul guadagno successivo.

Donne / mani segnate da cicatrici / mani piegate/ mani ferite/ mani indurite dai calli. / Donne / sfinite da dieci ore di fatica/ condannate / senza sosta e senza intervallo / avvezze alla marra e al paiolo/ all’uso del martello./ Ogni pietra percossa s’apriva/ mostrava grani di piombo/ dal luccicare d’argento/ e colori di giallo calamina/ e grigi pugni di blenda./ Cernitrici, donne del passato/ vittime sacrificali / sull’altare del lavoro/ Il vostro ricordo/ è scolpito in ogni miniera/ sulla lapide della memoria./ Sui monti di Genna Arenas/ avanzano incontaminate, / monumento pietoso; ogni pietra è intrisa/ d’una goccia di sangue/ resa come stilla di martire/ da quattro cernitrici. [3]

La vita dei minatori era un vero inferno. Si scendeva in un pozzo fin nelle viscere della montagna, pressati dentro una carrucola, e capitava di svenire prima ancora di arrivare [2], man mano che le pareti di roccia scorrevano inesorabili davanti al naso, sempre più buie, sempre più fredde. Là sotto si lavorava da soli, mancava l’ossigeno e in ogni momento la lampada rischiava di spegnersi, la fatica era tanta da non reggersi sui piedi, chiusi dentro agli scarponi troppo pesanti [1][2]. Ogni giorno che passava non restava che sperare di conservare le forze necessarie per riuscire ad ultimare il lavoro che dava diritto ad un salario più lauto, come il sistema del cottimo Bedaux[1][2] imponeva. Quando si riemergeva dal sottosuolo, ogni momento della vita quotidiana del paese e delle persone era monopolizzato dall’impresa. A Buggerru la Malfidano gestiva a suo piacimento tutto, i servizi, le case, il palazzo delle scuole, le caserme, l’ufficio postale, la Conciliazione, ma soprattutto lo spaccio della miniera, che era il luogo in cui I lavoratori erano obbligati a fare acquisti, rimettendo pertanto I soldi del loro salario nelle mani della stessa società che glielo elargiva; capitava che i minatori, stanchi di questa suddittanza, cercassero di aggirare il viscido circolo vizioso andando la notte a pescare pesce azzurro da rivendere; ma senza nemmeno usufruire del riposo notturno risultava impossibile, l’indomani, recarsi al lavoro in miniera in forze e questo avrebbe a lungo andare comportato il serissimo rischio di perdere il posto di lavoro e, neanche a dirlo, la morte per sfiancamento. Tale suddittanza durò sino agli anni ’60.

C’era poi l’indennità di polvere, che spettava a chi svolgeva il compito di perforatore ed era così costretto a inalare le polveri che dopo poco tempo causavano un acceleratissimo deperimento fisico, nel migliore dei casi, che, però, spesso veniva scambiato per tubercolosi. Negli anni ’50 venne messo a punto un sistema per evitare di ingerire tale polvere e ci fu una nuova corsa tra i lavoratori che volevano svolgere tutti la mansione di perforatore: ma fecero presto a eliminare completamente l’indennità di polvere e, comunque, le morti sul lavoro non accennarono a diminuire.

Buggerru conobbe, dunque, una crescita tanto rapida quanto rapida fu la necessità, per i lavoratori, di fare fronte ai seri problemi economici e politici tipici di un contesto industriale violento e disumano; non è un caso che proprio qui nacque una delle prime Leghe Operaie d’Italia, nel 1902, che assunse la forma embrionale di un sindacato e fece di Buggerru uno fra i primi paesi al mondo a creare un movimento per la tutela dei diritti dei lavoratori.

Fu dunque la drammaticità della situazione, il contesto opprimente e di sfruttamento incondizionato, alienante, coloniale, che portò i minatori di Buggerru a organizzare una protesta, quel tragico 3 settembre del 1904,  che venne repressa nel sangue da Georgiades e dall’esercito, – un battaglione dei carabinieri arrivato appositamente da Cagliari – che provocò 3 morti e passò alla storia come l’”eccidio di Buggerru”. Quel che i lavoratori chiedevano, ovvero dignità, era stato brutalmente stroncato dalle fucilate e l’indignazione fu tale che la protestà dilagò in tutto il Paese, accendendosi come una miccia e costringendo la Camera del Lavoro di Milano a deliberare il primo sciopero generale della storia d’Italia, il 16 settembre 1904.  L’allora governo di Giolitti vacillò non poco e venne istituita una Commissione Parlamentare d’Inchiesta per esaminare le condizioni tragiche di lavoro dei minatori sardi, il cui sfruttamento brutale era alle origini della rivolta nazionale. Ovviamente accadde che le autorità non riconobbero mai i responsabili dell’eccidio: ma i lavoratori italiani, ora, erano realmente consapevoli della propria forza e delle proprie aspirazioni. Anche ora che le miniere non esistono più, anche ora che tutto ciò può sembrare un lontano ricordo sepolto da molte macerie, anche ora che tutto pare sopito e destinato a morire, quella lotta che nacque dal sudore e dal sangue di questi uomini, continua ancora, piena di insidie, ma quantomai necessaria, oggi come allora.

A Buggerru, accanto al memoriale dell’eccidio, è stata posta una targa dai minatori del Sulcis:

Sardegna dolce madre taciturna
non mai sangue più puro
e innocente di questo ti bruciò
il core
”.

Note

[1] Daverio Giovannetti, “Gli anni delle lotte minerarie”, 2002.

[2] Franco Farci, “Brividi di ricordi”, 2015.

[3] Stefano Floris, “Cernitrici”. La poesia accenna agli avvenimenti del 18 marzo 1913 quando, nella miniera di Genna Arenas, 4  cernitrici, di cui una incinta, morirono sepolte sotto una frana.

Selena Di Francescantonio

3/8/2015 wwwlacittafutura.it

LA FOTO: “Laveria Brassey, Naracauli, Ingurtosu” di ezioman – originally posted to Flickr as mine building. Con licenza CC BY 2.0 tramite Wikimedia Commons

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