Calabria, una regione senza sanità

Una diagnosi errata, un intervento chirurgico sbagliato, l’attesa infinita per una risonanza magnetica che non arriva mai. In molte regioni sono situazioni frequenti. In Calabria non c’è una sola persona che possa affermare di non averle vissute sulla propria pelle. Nel loro esodo sanitario verso gli ospedali del nord, i calabresi si riconoscono per queste stimmate. Nei giorni della Covid-19 questa condizione è divenuta insopportabile. Può capitare pure che a subirla e a denunciarla siano gli stessi medici, quando a loro volta divengono pazienti costretti a emigrare per questioni sanitarie. «Sono stato operato ad una gamba – spiega un medico calabrese – per un problema che mi tormentava da tempo. Sono un medico. Gli stessi miei colleghi ortopedici, a causa della delicatezza dell’intervento, mi hanno consigliato di andare fuori dalla Calabria, in un centro specializzato nell’Italia centrale. L’intervento è andato bene, ma subito dopo è iniziata una febbre terribile, debilitante.

In breve: Covid. Un’esperienza allucinante. Febbre, tosse, grave astenia, niente odori né sapori. Saturazione 80% (norma 96/98). Pensavo proprio che mi avrebbero intubato. Immediatamente è scattato un meccanismo protettivo.

Il dipartimento di prevenzione mi ha chiamato, hanno inviato un’équipe. Mi hanno visitato, fornito farmaci ed assistenza. Nel frattempo di mio avevo già iniziato eparina e cortisone. Dopo qualche giorno, tampone negativo: sono guarito. Mi ha persino telefonato il sindaco del paesino in cui ero ricoverato, mettendosi a completa disposizione e fornendomi il suo cellulare. Insomma potrò raccontarla. Però, da calabrese, che amarezza! Io non ho scucito un centesimo. Quassù, lontano dalla mia amata Calabria, ogni cittadino è abituato a ricevere senza doverlo pretendere e senza che questo sia considerato un “favore”. I diritti negati alla lunga distruggono le basi di ogni convivenza civile. Ho immaginato il sindaco della nostra città: “Chin’è? Viditi cchi vvo chissu! E a mia mi chiami? Chiama all’Asl!”».

La soluzione a tutti i mali: il commissariamento

Che si tratti della pandemia o d’altro, in Calabria non c’è un problema di qualsiasi tipo che non possa essere risolto da un commissariamento. Ci sono questioni economiche, sociali, mafiose? Ed ecco un affidamento a un funzionario prefettizio o un ex generale in pensione. Attualmente, si trovano in questa situazione decine di Comuni, di enti e di strutture sanitarie della Regione. D’altronde, il commissariamento rappresenta la risposta più semplice: non costa nulla (eccetto i lauti stipendi), non prevede il farsi carico della problematica e di affrontarla in qualche modo. Non ci sono investimenti, aiuti, né ricerca di soluzioni. Si nomina una persona e si continua come se niente fosse fino alla proroga o a un successivo intervento emergenziale.

Il primo commissariamento della sanità in Calabria risale al dicembre 2007, con la nomina di Vincenzo Spaziante, allora anche assessore alla sanità dell’amministrazione Loiero. Il provvedimento affidava alla Protezione civile tre compiti: progettare un accorpamento degli enti sanitari, rendicontare il deficit, rimediare alle gravi insufficienze delle prestazioni.

Insomma, problemi che ancora oggi, a distanza di 13 anni, non sono stati risolti. La gestione emergenziale dura qualche mese e porta pochi risultati.
Nel 2009 viene stipulato il “Piano di Rientro” tra Governo e Regioni per la riduzione del debito e inizia l’era commissariale, tuttora in corso. L’accordo stabilisce, infatti, l’istituzione della figura di un Commissario ad acta per l’attuazione del Piano. Dal 2010 al 2014 tale ruolo è stato ricoperto dall’allora Presidente della Regione Scopelliti (Msi/Alleanza Nazionale/Pdl). L’ascesa dell’uomo forte della destra reggina si conclude con il suo arresto nel 2014, il posto vacante al vertice della Sanità calabrese viene affidato pro-tempore all’ex generale della Finanza Luciano Pezzi.

Il Piano di Rientro, inoltre, prevede che, qualora vengano riscontrati dei ritardi o delle mancate attuazioni dello stesso, il governo possa affidare l’incarico di commissario a un esterno. Così, nel 2015 a seguito di una valutazione negativa sulle attività regionali da parte del governo Renzi, vengono nominati il Commissario Massimo Scura, ex Dg delle Asl di Siena e Livorno, e al suo fianco il sub-commissario Andrea Urbani che ricopriva lo stesso incarico con Scopelliti. Una delle prime mosse di Scura è un passo falso. Chiama un manager per “rimettere in ordine i conti” dell’Azienda Sanitaria Provinciale (Asp) di Reggio Calabria. L’assunzione viene successivamente bocciata dai ministeri di Salute e Finanza a causa dell’esorbitate retribuzione di circa 600 euro al giorno.

Scura rimane in carica fino al 2019. Successivamente il governo Lega-M5s nomina come suo successore il generale dei carabinieri in pensione Cotticelli e come sub-commissario Thomas Schael (dimessosi dopo pochi mesi e sostituito da Maria Crocco). In questo susseguirsi di nomine esterne interviene anche il Ministero dell’Interno che ad aprile 2019 scioglie per infiltrazioni mafiose l’Asp di Reggio Calabria e settembre anche quella di Catanzaro.

La gestione delle due aziende Sanitarie Provinciali è affidata a due commissari prefettizi. Nel frattempo, il 2 luglio, diventa esecutivo il “decreto Calabria” che, sebbene sblocchi pochissimi fondi incrementando minimamente la spesa per le assunzioni, estende i commissariamenti anche alle Asp e alle Aziende Ospedaliere (AO).

A Cosenza, dove si trova una delle poche Aziende Provinciali rimaste in piedi, viene nominata alla direzione generale Daniela Saitta. Un’esperienza che dura pochissimo, dopo poco tempo è costretta a dimettersi a causa di una consulenza gratuita affidata alla figlia. Viene nominato ad interim Zuccatelli, che di fatto assume un ruolo di vertice nella struttura sanitaria regionale in quanto già commissario straordinario dell’Azienda Ospedaliera di Catanzaro e dell’Ospedale universitario Mater Dei. Zuccatelli lascia l’Asp di Cosenza a giugno del 2020 dopo aver gestito in maniera disastrosa l’emergenza Covid, al suo posto viene promossa Cinzia Bettelini, ex direttrice sanitaria dell’AO.

Un commissario dopo l’altro, incarichi ad interim, dimissioni forzate, incapacità. Ma il peggio doveva ancora venire. A inizio novembre 2020 l’intera Regione viene proclamata “zona Rossa”, nonostante un numero di contagi nettamente inferiore rispetto alle altre aree d’Italia. Il problema è la mancata attuazione del “Piano Covid” da parte di Cotticelli. L’ex generale dei Carabinieri scoperto da una trasmissione giornalistica viene immediatamente licenziato dal Premier Conte che lo aveva nominato. Al suo posto ancora Zuccatelli, anche egli è costretto a dimettersi dopo le uscite no-mask e le proteste dei cittadini che gli imputano una corresponsabilità con il disastro sanitario. Il governo, a quel punto, sceglie l’ex rettore della Sapienza Gaudio che dura meno di 24 ore.

Il piano di rientro

Nel 2009 la Regione Calabria guidata allora da Agazio Loiero ha sottoscritto il cosiddetto “Piano di Rientro”, un termine tecnico per indicare il percorso di riduzione del debito nella sanità. Si tratta di un accordo tra Governo e Regioni, sottoscritto da tutte le regioni del Sud e da Piemonte, Liguria e Lazio. Il Piano si inserisce all’interno di un disegno più complessivo che ha riguardato la politica economica italiana ed europea degli ultimi 30 anni: la distruzione del welfare tramite tagli alla sanità, all’istruzione e ai sussidi sociali.

Loiero (wikimedia.commons)

Il Piano di riduzione della spesa conta soprattutto su due aspetti. Il primo riguarda il taglio del costo del personale attuato tramite lo strumento del blocco del turn-over, cioè la mancata sostituzione dei dipendenti andati in pensione. Infatti, molti ospedali al momento convivono con l’assenza di personale, un problema che molti istituti arginano assumendo precari tramite cooperative fittizie o finti lavoratori autonomi a partita IVA. Secondo i dati pubblicati dal Ministero Economia e Finanza (Mef) sulla Calabria il costo per il personale dipendente sulla spesa totale della sanità è passato dal 41% del 2002 al 31% del 2019. Il secondo aspetto è la chiusura di molte strutture sanitarie.

Nel 2010 l’allora presidente regionale e commissario ad acta della sanità Scopelliti ne ha chiuse con un solo decreto ben 18 (DPGR n.18 del 2010): Palmi (Rc), Taurianova (Rc), Siderno (Rc), Chiaravalle (Cz), Soriano (Vv), San Marco Argentano (Cs); Rogliano (Cs) (struttura successivamente assegnata all’Azienda Ospedaliera di Cosenza), San Giovanni in Fiore (Cs), Acri (Cs), Mormanno (Cs), Trebisacce (Cs), Cariati (Cs), Praia a Mare (Cs), Lungro (Cs), Soveria Mannelli (CZ), Serra San Bruno (Vv), Scilla (Rc), Oppido Mamertina (Rc). In quattro di queste strutture sono rimasti aperti dei presidi sanitari di montagna conservando solo i posti letto di medicina generale.

Altri ospedali sono stati accorpati, come è avvenuto per Cetraro-Paola e Rossano-Corigliano. Nel complesso il progetto di “riordino della rete ospedaliera” ha ridotto del 21% i posti letto. Infine i nuovi ospedali della Sibaritide, Gioia Tauro e Vibo Valentia, previsti per rinnovare le infrastrutture, aspettano ormai da 10 anni la posa della prima pietra.

Nonostante i profondi tagli ai servizi sanitari, il dato davvero contraddittorio è che il debito della sanità calabrese non è diminuito. Anzi dal 2010, secondo i dati dell’osservatorio del Mef non è mai stato chiuso un bilancio in positivo, nel 2018 è stato raggiunto il picco di deficit annuale di 213,3 milioni, cioè il 6,4% dell’intero finanziamento annuale:

Com’è possibile che a fronte di tagli così corposi il debito aumenti? Questi sono i “misteri” della sanità calabrese. Secondo l’ex commissario Scura l’aumento del debito è dovuto «ai pagamenti del debito pregresso che, in particolare nelle Asp di Cosenza e Reggio Calabria si registra crescente a causa delle innumerevoli azioni giudiziarie (pignoramenti e ottemperanze) promosse dai creditori nel tempo. Inoltre ogni anno si registra una sorpresa dell’ordine di decine di milioni proveniente dal passato per contenziosi da privato riguardanti aggiornamento tariffe o errori o altro». Insomma, ci sono due problemi.

Uno è la trappola del debito, cioè le vecchie passività che a distanza di anni diventano macigni a causa dell’accumulo di interessi. Un altro è quello che l’ex commissario Scura definisce la “sorpresa” annuale, cioè buchi che spuntano all’improvviso dai bilanci spesso a seguito di operazioni non chiare attuate da quell’area grigia tra politica, mafia e sanità privata. Nel 2020 è stata la volta del fallimento della Fondazione Campanella che ha portato con sé 94 milioni di passivo.

Cittadini senza assistenza sanitaria, pazienti in fuga

Le conseguenze sociali delle politiche di tagli applicate dai governi regionali e nazionali sono state disastrose. A causa dell’assenza di posti letto (2,98 per mille abitanti a fronte di una media nazionale del 4,3) e della carenza di servizi di analisi e assistenza territoriale, molti pazienti sono costretti a rivolgersi alle cliniche private. Spesso si tratta di strutture convenzionate di proprietà di politici locali o di personaggi contigui al notabilato e al malaffare.
«In 12 mesi effettuo da 800 a 1000 ecografie alla tiroide. Potrei arrivare a 4mila, ma se mi fosse consentito, chiuderebbe almeno una clinica privata della città e finirebbe l’emigrazione sanitaria verso Pisa. Ecco perché mi impediscono di potenziare macchine, spazi e personale del mio reparto», spiega un altro specialista dell’ospedale di Cosenza, che preferisce restare anonimo.

Esiste dunque un solido nesso tra l’egemonia dei privati e la cosiddetta “emigrazione sanitaria”, ovvero il ricorso alle cure presso strutture fuori regione. Per specifiche patologie più complesse il ricorso a ospedali di altre regioni è più frequente. Secondo i dati di Bankitalia, per le operazioni oncologiche è quasi il 50% e supera l’80% per il tumore ai polmoni.

Nel folle sistema italiano è la regione di appartenenza a dover rimborsare le spese sostenute dall’ospedale presso cui è avvenuta la prestazione. L’ultimo rapporto Gimbe sulla mobilità sanitaria interregionale calcolava il debito contratto dalla regione Calabria a causa dell’emigrazione sanitaria in 287 milioni di euro nel solo 2018, nello stesso anno la Regione Lombardia ha accumulato un attivo di quasi 750 milioni. In un articolo recentemente pubblicato ne parla chiaramente il professor Vieste, mettendo in luce come la sanità calabrese sia quella che di gran lunga ha ricevuto meno investimenti in Italia. Dal 2010 al 2017 nelle strutture sanitarie calabresi sono stati investiti circa 15,9 euro pro capite, mentre, nello stesso periodo, la media nazionale è stata del 44,4, o addirittura nella ricca Bolzano la cifra raggiunge i 183,8 euro. Ne consegue il drastico peggioramento qualitativo delle infrastrutture e delle attrezzature sanitarie che a sua volta, come un circolo vizioso, produce “emigrazione sanitaria” e l’innalzarsi del debito.

Areoporto di Lamezia Terme (da commons.wikimedia.org)

«Quando mi hanno diagnosticato il cancro al seno – spiega Sonia -, sono stata tentata di curarmi in Calabria, dove sono nata e vivo. Ma ho iniziato a vagare tra reparti ospedalieri, studi medici, strutture private. Di fronte all’impossibilità di essere visitata da un’équipe che mi fornisse subito una diagnosi precisa, ho deciso di scappare a Milano. Lì ho ottenuto una diagnosi in poche settimane e subito dopo sono stata operata. A quel punto, per sottopormi a chemioterapia, ho scelto il reparto oncologico dell’ospedale della mia città, Cosenza. Lì ho toccato con mano i problemi organizzativi e l’approssimazione con cui è trattata una tipologia di malati che richiederebbero ben altra cura. Ho incontrato anche medici e infermieri dotati di grande umanità.

Purtroppo però, per vincere il tumore, i sorrisi e le pacche sulla spalla sono importanti, ma non bastano! Una mattina hanno dimenticato di somministrarmi l’antiemetico e nelle ore successive sono stata più male del previsto, ho vomitato anche l’anima. Altre volte ho dovuto attendere più di tre ore, insieme a tanti altri malati, prima che arrivassero i farmaci chemioterapici dalla farmacia dell’ospedale. Ancora oggi, terminate le cure chemioterapiche, accade spesso che, recandomi al “follow up”, io debba raccontare da capo la mia storia clinica allo specialista di turno, perché non esiste un archivio digitale contenente le documentazioni sanitarie dei pazienti. Anche gli esami di routine diventando un calvario. Una volta m’è capitata una dottoressa inesperta che con la Tac ha “visto” un nuovo tumore ai polmoni che in realtà non avevo».

La Calabria è dunque un chiaro esempio di come i tagli alla spesa sanitaria agiscano da moltiplicatore delle diseguaglianze, fornendo ulteriori risorse alle regioni già ricche e sottraendole a quelle povere. Quella provocata dalla pandemia non è una situazione eccezionale.

Già nei mesi estivi, quando ancora la seconda ondata non si era verificata, l’impreparazione del sistema sanitario appariva in tutta la sua drammaticità. «Vivo in Italia da tanti anni – racconta Adelaide -. Mia figlia è cittadina italiana, ma io sono brasiliana. Nello scorso agosto, io e lei siamo andate in Spagna per incontrare i parenti che non vedevamo da tanto tempo. Al ritorno, all’aeroporto di Lamezia Terme, non c’era alcun controllo. Mia figlia si è sottoposta volontariamente a tampone perché era in cura da un ortopedico. Sia io che lei siamo risultate positive alla Covid-19. Avevamo pochi sintomi. Le autorità ci hanno confinate in casa, come la legge prevede.

Da quel momento è iniziato un incubo. Sebbene l’altra mia figlia, la maggiore, avesse la possibilità di abitare altrove, le autorità sanitarie le hanno intimato di domiciliarsi nella casa in cui viviamo io e la minore. Risultato: abbiamo contagiato anche lei! Tutte le volte che telefonavo al numero dell’azienda sanitaria, le persone che rispondevano erano incapaci di fornirci informazioni, spesso non conoscevano neanche il nostro caso. Per ottenere nuovi tamponi abbiamo dovuto aspettare tempi lunghissimi. Una volta ce lo hanno anche fatto ripetere, perché lo avevano perso. Siamo potute uscire di casa dopo due mesi effettivi di isolamento, benché ormai fossimo guarite da diverso tempo».

Nelle scorse settimane i cittadini calabresi sono scesi in piazza per chiedere una «Sanità pubblica, gratuita e di qualità». Per raggiungere questo obiettivo i manifestanti pretendono: la conclusione della stagione commissariale, l’azzeramento del debito e la fine della collusione tra politica e sanità privata. Richieste che il governo non pare aver recepito: Conte e i suoi ministri sono indaffarati nell’esclusiva ricerca di un nuovo commissario e sono sordi alle richieste provenienti dal basso. Nonostante una situazione disastrosa, le mobilitazioni di cittadini e del personale sanitario lasciano ben sperare per il futuro della sanità calabrese.

Antonio Sanguinetti, Claudio Dionesalvi

24/11/2020 https://www.dinamopress.it

Immagine di copertina di David Mark da Pixabay

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Sentitevi liberi di contribuire!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *