Cannabis: il proibizionismo crea insicurezza
«Anche noi come Matteo Salvini vorremmo che non ci fossero più spacciatori per le strade, per questo proponiamo la legalizzazione della cannabis e la depenalizzazione delle altre sostanze. Vorremmo anche noi che i nostri ragazzi non fumassero droghe tagliate, che non finissero nelle mani di spacciatori professionisti che mischiano droghe chimiche, leggere e pesanti. Per fare questo bisogna legalizzare, depenalizzare, investire nella cultura sociale della riduzione del danno. Il Movimento 5 Stelle ha già votato nella sua piattaforma a favore della legalizzazione. Non ceda. Anzi, approfitti della proposta della Lega e apra una discussione in Parlamento e nel Governo per una strategia non proibizionista e punitiva. Contro le mafie, per il diritto alla salute, contro la criminalizzazione di milioni di consumatori». A dirlo è Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, a seguito del disegno di legge presentato dal ministro dell’Interno Matteo Salvini che vorrebbe aumentare le pene per reati di droga e abolire la “lieve entità”.
Il testo unico sulla droga attualmente in vigore, decreto Presidente della Repubblica n. 309/1990, meglio conosciuto come legge Jervolino-Vassalli, prevede all’articolo 73 che chiunque coltiva, produce, cede, distribuisce, vende droghe pesanti è punito con una pena da 8 a 20 anni, per quelle leggere invece la pena va da 2 a 6 anni. Al comma 5 è previsto “il fatto di lieve entità”, che inizialmente prevedeva pene da 1 a 6 anni per le droghe pesanti e da 6 mesi a 2 anni per quelle leggere. Ma dopo l’abrogazione della legge Fini-Giovanardi, che aveva modificato il testo unico tra il 2006 e il 2014, è rimasta un pena unica da 6 mesi a 4 anni a prescindere dalle sostanze di cui si viene trovati in possesso.
«L’Italia ha tentato di percorrere la strada dell’inasprimento delle pene ‒ sottolinea Gonnella ‒. Lo ha fatto piuttosto di recente proprio con la legge Fini-Giovanardi che, modificando l’articolo 73 del dPR n. 309/1990, aveva equiparato tutti i tipi di droghe, prevedendo pene da 6 a 20 anni di carcere. Il risultato è stato sotto gli occhi di tutti: non erano diminuiti i consumatori, non erano diminuiti i morti, erano aumentati i detenuti presenti nelle carceri per reati legati alle droghe che, nel 2009, nel pieno di quell’ondata repressiva, erano il 40 per cento del totale della popolazione detenuta».
Oggi i detenuti presenti in carcere per reati legati alle droghe sono circa il 34 per cento del totale, segno che in carcere ci si va comunque ancora e molto. Inoltre il 25 per cento di coloro che si trovano negli istituti di pena italiani sono tossicodipendenti e avrebbero dunque bisogno di cure specifiche che il carcere non può garantire. La maggior parte dei detenuti inoltre è ristretta per reati legati alla marijuana, una sostanza che recentemente l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha chiesto di rimuovere dall’elenco delle sostanze pericolose dell’Onu per via delle sue importanti funzioni terapeutiche.
«L’Uruguay, il Canada e diversi stati degli USA hanno capito che la guerra alla droga è fallita e hanno deciso di cambiare completamente strada legalizzando la cannabis ‒ dice ancora il presidente di Antigone ‒. Negli Stati Uniti in particolare lo stanno facendo sfidando 50 anni di politiche repressive che, mentre da una parte hanno portato e portano a incarcerazioni di massa, dall’altro hanno avuto come conseguenza una delle più gravi emergenze che il Paese abbia mai vissuto, quella legata agli oppioidi, con centinaia di migliaia di persone morte di overdose solo nell’ultimo anno e mezzo. Lo stesso Portogallo, alle prese con un problema enorme per la salute dei suoi cittadini, all’inizio degli anni 2000 scelse la via della depenalizzazione di tutte le sostanze e di spostare le politiche dal penale al sanitario. I risultati sono stati eccellenti in termini di vite salvate, di diminuzione dei consumi e di risorse recuperate e reinvestite in programmi sociali e sanitari».
«È raccapricciante ‒ sottolinea Gonnella ‒ utilizzare episodi tragici di cronaca per promuovere politiche in ambito penale. Lo è ancora di più quando queste politiche hanno manifestato ampiamente il loro fallimento, penalizzando gli Stati e arricchendo le mafie. A finire in carcere, infatti, non sono i boss o chi controlla il traffico di sostanze ma la bassa manovalanza, quella più sostituibile e quella che per questioni sociali spesso non ha altre via che lo spaccio». «Per questo ‒ conclude ‒ ci auguriamo che in Italia si abbia il coraggio di cambiare radicalmente strada, abbandonando per sempre queste politiche nefaste. È una questione, questa sì, di sicurezza».
7/32/2019 https://volerelaluna.it
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