Carceri in rivolta: 13 morti e nessun colpevole
Alle prime avvisaglie del covid-19, a febbraio 2020, assieme a qualche compagno e compagna lungo lo stivale, e a un nutrito gruppo di familiari -consapevoli soprattutto di due dati oggettivi: sovraffollamento e precarietà igienicosanitaria – abbiamo iniziato ad interrogarci sul che fare per chiedere e ottenere che nelle carceri venissero adottate misure straordinarie e adeguate all’alto grado di trasmissibilità e mortalità che questo virus portava con sé.
Dal confronto venne fuori la decisione di lanciare un appello per la sospensione della pena per le persone più fragili e per un provvedimento urgente di amnistia e indulto generalizzato1.
Ma la paura dentro, tra i detenuti e le detenute, amplificata dall’informazione martellante che tutti ricordiamo, si è velocemente trasformata in panico e un attimo dopo in rabbia.
Panico per la consapevolezza della disastrosa condizione della sanità carceraria; rabbia per la sospensione dei colloqui con i familiari, l’unica relazione umana autentica concessa alle persone detenute.
Ritorno con la memoria a quei giorni ripescando tra i ricordi le prime, terribili, sensazioni avute man mano che arrivava la conta dei morti.
L’urlo di disperazione dei detenuti esplose sabato nel pomeriggio del 7 marzo 2020 da Salerno, l’effetto domino non tardò ad innescarsi. Poche ore più tardi da Milano a Palermo molte carceri erano in rivolta. Il giorno successivo arrivò il primo tragico bilancio: 7 morti nel carcere di Modena, di cui 4 trasferiti agonizzanti, o già cadaveri, in altre carceri e 3 detenuti morti nel carcere di Rieti. Oscure cause e dinamiche. La prima ricostruzione ufficiale del ministero narrava l’assalto all’infermeria nel carcere di Modena e il saccheggio di ingenti quantitativi di metadone e la morte per overdose.
Nei giorni seguenti la macabra conta arriverà a 13 persone detenute morte “perlopiù per overdose da metadone”, dirà il ministro Bonafede; per Conte, invece, le rivolte sono state semplici “atti criminali”. Ma 13 morti non potevano essere derubricate a “drammatica conseguenza del ripristino della legalità”. 13 morti sono una strage.
13 persone morte di cui non è stato possibile conoscere i nomi e la nazionalità per diverse settimane. Il dubbio che fossero tutti migranti mi attraversò fin dai primi giorni. Dubbio che, purtroppo, divenne certezza2 nelle settimane seguenti.
Intanto i telefoni e la mail della rete emergenza carcere3 che attivammo in quei giorni squillavano di continuo. Centinaia di detenuti che secondo le diverse direzioni avevano partecipato alle rivolte vennero trasferiti senza nessun avviso ai familiari, tenuti all’oscuro della loro destinazione per settimane, mentre l’incertezza sull’identità dei 13 morti ne aumentava l’angoscia. Presentammo decine di richieste di informazioni alle direzioni e al DAP sui desaparecidos nostrani: mai nessuna risposta.
Dal ministero e dal dipartimento gli ordini erano precisi: non rilasciare informazioni e indagare su chiunque si interessasse ai rivoltosi.
Basti pensare che a fronte di un questionario di monitoraggio circa le misure di prevenzione adottate dalle singole direzioni carcerarie per fronteggiare l’emergenza pandemica, che elaborammo con la rete emergenza carcere, le risposte furono pressoché nulle. In compenso da una direzione si premurarono di trasmetterci la decisione del provveditorato regionale che vietava di fornirci alcuna risposta in quanto il NIR stava indagando sull’orientamento ideologico delle associazioni scriventi!
In quei giorni tanti gli amanti della dietrologia che affollavano talk show e rilasciavano interviste circa l’origine e le finalità delle rivolte: dalla regia ‘ndranghetistica ai sodalizi anarco-mafiosi, con l’intento in ogni caso di “fare uscire i boss”.
Questi teoremi verranno poi smontati.
Le rivolte dei detenuti sono state spontanee, dettate dalla rabbia e dalla paura. Rabbia per essere stati esclusi dalle precauzioni che il governo stava predisponendo per la società libera; paura per questo nemico invisibile che stava terrorizzando il mondo intero.
A distanza di un anno dal marzo 2020 le immagini di Santa Maria Capua Vetere hanno fatto cadere il velo di ipocrisia che aveva coperto la mattanza avvenuta nelle carceri italiane a seguito delle proteste e non solo.
Le narrazioni arrivate in quei giorni da centinaia di familiari, e successivamente dai detenuti, alcune delle quali confluite in diversi esposti (su Milano Opera, Pavia, Voghera, Foggia, Melfi, Rieti, Bologna, Alessandria,…), parlavano di un medesimo modus operandi da parte delle forze dell’ordine intervenute nelle diverse carceri. E testimoniano di reparti speciali intervenuti non solo per sedare le rivolte ma anche per dare una “lezione” ai rivoltosi. Con le immagini di Santa Maria Capua Vetere nessuno ha potuto più ignorare quanto avvenuto.
Alcune testimonianze
– D. moglie di B. attualmente detenuto presso la circondariale di Viterbo “Mammagialla”
Il giorno del trasferimento, il 12/03/2020, durante la notte, mentre si trovava presso la casa circondariale di Foggia, le guardie esterne sono entrate in cella e hanno pestato i detenuti. Successivamente al trasferimento non ho più ricevuto notizie. Dopo dieci giorni, durante una chiamata, mio marito mi ha riferito che ci sono state altre violenze all’interno del carcere di Viterbo.
– P. moglie di M.,
Il 20/03/2020 durante la telefonata con mio marito ho avvertito la sua sofferenza, accusava dolori alle costole e mi ha riferito di aver sbattuto da qualche parte. Lui è invalido al 100% e non potrebbe mai muoversi con violenza dal momento che è in carrozzina. Sono certa che lui non può parlare liberamente. Infatti, successivamente mi ha riferito che la prima lettera che avrebbe voluto inviarmi dopo il massacro successo a Foggia gli è stata strappata. Gli ho detto di farsi portare al pronto soccorso ma non lo fanno perché altrimenti andrebbe in quarantena.
Io voglio vederci chiaro, grazie.
– T., sorella di L.,
Giorno 26 marzo mio fratello, durante la telefonata e tramite lettera mi ha riferito quanto segue: il giorno 9 marzo 2020 alla casa circondariale di Foggia, come tutti sappiamo, c’è stata una rivolta, mio fratello non è stato partecipe però ha fermato l’incendio in matricola. Mi ha riferito in lettera: “oltre allo spavento anche le mazzate mi sono preso dalla polizia”, “in questi giorni ho avuto un attacco di ansia, la notte non dormo più, ho tanta paura, io che non ho fatto niente le ho prese. Ci hanno sequestrato tutti i viveri, siamo stati giorni senza caffè, sigarette, detersivi, cibo. Ci hanno levato tutto! Ancora oggi, 15/3/2020 ci hanno dato la possibilità di fare la spesa. Io da sorella non chiedo molto ma i diritti dei nostri detenuti perché non sono animali da macello.
Su Foggia ho presentato un esposto, su delega dei familiari di alcuni detenuti, a fine marzo 2020 che la procura foggiana ha iniziato a vagliare solo a seguito della coraggiosa inchiesta di Bernardo Iovene per Report del gennaio 2021.
Tanti erano stati trasferiti nelle carceri calabresi; altri a Viterbo, a Rieti, a Melfi. Le narrazioni, confermate nei mesi successivi alla presentazione dell’esposto anche da alcune persone ormai libere4, erano univoche e agghiaccianti: la notte del 12 marzo, quindi tre giorni dopo la rivolta nel carcere di Foggia e l’evasione di circa 70 detenuti (sulla cui dinamica resta il “mistero” del cancello aperto…), intere sezioni sarebbero state svegliate nel cuore della notte a calci, pugni, manganellate e insulti; i detenuti legati mani e piedi con fascette di plastica, appunto come “vitelli da abbattere”, trascinati mezzi nudi lungo i corridoi e scaraventati sui blindati come fossero sacchi di immondizia. E ancora: manganellate, calci, pugni, insulti e minacce lungo il tragitto fino a nuova destinazione per poi ritrovarsi nel buio di una cella, malconci e privati di tutto, dignità compresa, in regime di isolamento per diverse settimane5.
Sappiamo che è stata aperta una inchiesta inizialmente a carico di ignoti ed ora pare ci siano anche degli indagati.
Altri esposti erano stati preparati su Voghera, Opera e Melfi, sempre su delega di alcuni familiari, ma vennero ritirati per paura di ritorsioni sui detenuti.
Grazie alla costanza e alla perseveranza di pochissimi giornalisti, tra cui Damiano Aliprandi (de Il Dubbio), che si occupa di carcere anche lontano dai riflettori – ed è stato tra i primi a seguire tutte le rivolte – e Maria Elena Scandaliato (Tg3 Lombardia), oggi abbiamo qualche pezzo in più del terribile mosaico che per noi era già chiaro un minuto dopo l’inizio della conta dei morti, iniziata a Modena e finita a Santa Maria Capua Vetere. Il bilancio finale è di 14 morti e centinaia di massacrati. 12 delle 14 vittime erano migranti, ed anche questo lo avevamo presagito da subito di fronte al silenzio “istituzionale” sull’identità dei detenuti morti. Casualità? No! Sistema. E non si può continuare a ignorare la strutturalità del razzismo in buona parte delle forze dell’ordine. Come non si può continuare ad ignorare il carattere razzista e classista del carcere e del sistema penale in sé. Come non si può credere alle mele marce né, tanto meno, alle “morti per metadone”. Il medico che constatò il decesso dei detenuti di Modena notò che uno dei morti era in mutande mentre all’esame autoptico venne presentato rivestito e con le tasche piene di farmaci6.
NOTE
1 Coronavirus nelle carceri. Appello per la sospensione pene a detenuti malati e anziani | contromaelstrom
2 THEY CAN’T BREATHE TOO – MALANOVA
3 Associazione Yairaiha Onlus, Bianca Guidetti Serra, Osservatorio Repressione, Legal Team ltalia, LasciateClEntrare
4 Un detenuto racconta: «Picchiati brutalmente da un centinaio di agenti per la rivolta nel carcere di Foggia» – Il Dubbio
5 «A Foggia mio figlio e gli altri detenuti picchiati e trasferiti dopo la rivolta» – Il Dubbio
6 Anatomia di una rivolta – Spotilight
Sandra Berardi
presidente dell’Associazione per i diritti dei detenuti Yairaiha Onlus attiva dal 2006, con sede a Cosenza è un’attivista politico-sociale, impegnata da oltre 20 anni a combattere contro le ingiustizie e le disuguaglianze che attraversano la nostra società. Una lunga militanza nelle lotte dal basso: contro la detenzione amministrativa dei migranti e per la chiusura dei CPT, ex volontaria nell’IPM di Catanzaro, ha dato vita a numerose esperienze nella sua città che ancora oggi proseguono. Il comitato di lotta per la casa Prendocasa, il comitato di quartiere Piazza Piccola, diversi spazi sociali dove si produce cultura dal basso (Centro sociale Rialzo, Auditorium Popolare, Casa di Quartiere). Abolizionista convinta, ritiene che il carcere sia una parte del problema e non la soluzione. Crede profondamente che il male e il crimine, possano sconfiggersi solo attraverso un profondo cambiamento dei paradigmi socio-economici e culturali della società che rimettano al centro il benessere di ogni individuo in una dimensione collettiva dove ognuno e ciascuno ha pari diritti e possibilità di accesso alle risorse universali di tutti gli altri.
12/7/2022 https://www.intersezionale.com
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Sentitevi liberi di contribuire!